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Italicum, perché Renzi non lo cambierà

omini-pentola-1Dopo le elezioni amministrative, il quadro politico si è rimesso in movimento. La partita del referendum costituzionale rimane la partita decisiva: se passa il sì, non si chiude solo la transizione istituzionale che si trascina confusamente dal dopo ’89, ma si spegne anche la forte fibrillazione innescata dalla prova non brillante del Pd alle scorse elezioni, e il clamoroso successo dei Cinquestelle a Roma e a Torino.

Ma al referendum bisogna arrivarci. E da qui ad ottobre l’ostacolo messo davanti alla maggioranza di governo e a Renzi si chiama Italicum. La legge elettorale, appena entrata in vigore, è già sotto tiro. In particolare, è il premio di maggioranza alla lista e non alla coalizione la pietra di inciampo. Renzi non ha interesse a cambiarla: premio alla lista significa infatti governabilità, senza più concessioni ai piccoli partiti. Quando fu approvata la legge, significava anche premio al Pd. Dopo i risultati di giugno, non è più così scontato che il Pd possa beneficiare del premio di lista, ma resta del tutto comprensibile che Renzi invece confidi di portarlo a casa, vincendo prima il referendum è andando poi al voto nel 2018. Questa era il disegno originario, e questo rimane.

Ma una voce sussurra all’orecchio del premier che le cose potrebbero non andare così bene. Che il referendum potrebbe essere perso e che i Cinquestelle potrebbero diventare il primo partito. L’Italicum servirebbe così su un piatto d’argento, a Beppe Grillo e ai suoi «cittadini», il governo del Paese. Se invece il premio andasse alla coalizione e non alla lista – continua la vocina – il Movimento avrebbe molte meno chance, non essendo in alcun modo intenzionato a stringere accordi con altri partiti. Il ragionamento è semplice e insinuante: la bassa capacità coalizionale dei grillini viene punito da una legge che favorisce invece le coalizioni, perché dunque non ritoccare la legge?

A fare questi ragionamenti sono in molti, in particolare nell’area di centro, dove prosperano le piccole formazioni. Messe alle strette dalla soglia di sbarramento (che pure è molto bassa, al tre per cento), e poco attratte dalla prospettiva di confluire in un’unica lista. Questa era del resto la ragione per cui inizialmente l’Italicum godeva del sostegno di Berlusconi: perché favoriva il ricompattamento e il ritorno all’ovile dei molti pezzi staccatisi da Forza Italia nel corso del tempo. Senza il Cavaliere nel ruolo di playmaker del centrodestra, la linea si è fatta molto più incerta. Senza dire che il solo provare a rimettere mano all’Italicum e a riaprire la partita delle riforme di sistema equivarrebbe comunque a una mezza sconfitta di Renzi.

Nel Pd la minoranza è su una posizione analoga. L’imperativo è infatti mettere Renzi sotto scacco, e cambiare la legge significa anzitutto dimostrare che Il premier non è più il dominus della situazione. Per il resto, il motivo per cui con il premio di coalizione si innalza l’argine opposto ai Cinquestelle è poco coerente con le posizioni aperturiste nei confronti del voto grillino da non demonizzare. Ma è una posizione che, viceversa, si sposa molto bene con il progetto di mantenere un soggetto politico autonomo alla sinistra del Pd come sua spina nel fianco.

All’opposto i Cinquestelle. All’Italicum hanno detto no, in passato, in tutti luoghi e in tutti i modi. Ma l’Italicum gli conviene, e così da qualche giorno fioccano, a dispetto della coerenza, le dichiarazioni contrarie alla revisione della legge. Lo scenario che i pentastellati immaginano è uguale e contrario a quello su cui punta Renzi: se il referendum non passa, Renzi va a casa, e con il premio di lista Di Maio va a Palazzo Chigi.

Le pedine sono dunque tutte sul tavolo, e di qui a ottobre continueranno a muoversi, provando magari a tirar dentro la trattativa altri punti discussi della legge, dalle preferenze ai capilista bloccati al doppio turno: una volta infatti che fosse acclarato che l’Italicum è modificabile, le richieste di modifica è presumibile che si moltiplicherebbero. La materia elettorale, come quella costituzionale, è la più opinabile al mondo, e offre ogni tipo di soluzione, ogni sorta – come si dice – di combinato disposto. Quel che le dà forma e stabilità è la volontà politica. Scoperchiando il vaso di Pandora delle modifiche all’Italicum, anziché costruire in maniera previdente un piano B, per l’ipotesi di un esito infausto al referendum, Renzi rischia di vestire i panni dell’incauto Epimeteo, quello che ragiona col senno di poi, e chiude la stalla quando i buoi sono scappati.

Ma è probabile che gli basti sollevare solo un poco il coperchio, sentire tutte le voci che si agitano sul fondo non limpidissimo della politica italiana, e subito richiuderlo, ritornando al piano principale, col quale sta o cade la sua vera scommessa politica.

(Il Mattino, 1 luglio 2016)

Il lato oscuro dei cugini coltelli

coltello_schiena-6Pur di fare cadere Renzi, Massimo D’Alema è disposto a votare Virginia Raggi. L’indiscrezione pubblicata ieri da Repubblica è stata immediatamente smentita, e tuttavia è rimasta in pagina, sul sito del quotidiano, l’intera giornata: come mai? Pura malevolenza? Forse no, forse il retroscena francamente impastocchiato – e però confermato, anche dopo la smentita, dal giornale – ha un grado di plausibilità tale che non riesce difficile credere ad esso, e può reggere l’apertura della homepage di Repubblica, e il susseguirsi delle dichiarazioni, per tutto il santo giorno. C’è infatti un punto politico, che regge l’articolo, e che non si può liquidare con una smentita ufficiale. È il seguente: che fare con Renzi? Che fare con un premier che, qualora vincesse il referendum costituzionale, si guadagnerebbe il via libera per il restante della legislatura e pure per la prossima? Che fare, se non provare ad assestargli una prima botta con le amministrative, sfilandogli Milano, Roma, e magari pure Torino, per togliergli definitivamente l’aura del vincitore, e poi dargli una seconda botta in autunno, con il no alla riforma costituzionale? Per l’uno-due, c’è bisogno però che prevalga il leit-motiv dell’antipolitica, che il comune denominatore sia il ritornello del «mandare tutti a casa», anche se i vessilliferi di una simile bandiera dovessero essere i grillini (anzi le grilline, la Raggi a Roma e la Appendino a Torino)?

Questa idea, del resto, è formulata in maniera del tutto esplicita da Nicola Fratoianni, coordinatore nazionale di Sel: meglio che Renzi perda. Chi è contro le politiche del governo ne vuole la caduta e deve votare di conseguenza: Roma e Torino c’entrano poco (e i cittadini romani e torinesi pazienza,capiranno). Questo ragionamento si capisce che faccia breccia alla sinistra del Pd, perché lì, in quell’amalgama politico abbastanza indefinito che obiettivamente stenta a prendere forma, si trovano, certo, dirigenti politici (come Fassina, o D’Attore) usciti dal Pd in rotta di collisione col segretario, ma pur sempre provenienti da una nobile e lunga tradizione di realismo politico, ma anche pezzi di sinistra radicale e antagonista, che invece praticano da tempo la logica del «tanto peggio, tanto meglio», in cui quasi sempre finisce col rovesciarsi ogni professione di purezza, o di intransigenza.

Questi ultimi, probabilmente, non hanno nemmeno bisogno di turarsi il naso, per votare i Cinquestelle. Ma nel Pd? Nella minoranza bersanian-dalemiana? In uomini che sono stati al governo, che quando erano al governo hanno provato pure loro a fare la riforma costituzionale, e che ai tempi della Bicamerale hanno saputo reggere per anni alla critica di inciuciare con il Cavaliere? Uomini che, quanto a duttilità e a spirito di compromesso, necessario dopo l’89, in un processo di ridefinizione della sinistra riformista condotto spesso al buio, a tentoni, senza lumi ideologici, in condizioni di obiettiva debolezza politica e programmatica, uomini– anzi: capi comunisti – che, in simili condizioni,si sono spinti molto avanti su molti terreni, e hanno votato cose come il pacchetto Treu sul mercato del lavoro, o, in politica estera, i bombardamenti nella ex-Jugoslavia, e la religione del pareggio di bilancio in politica economica: in questa generazione di uomini politici che è riuscita a cambiare pelle, completando impensabilmente l’avvicinamento e l’ingresso del partito comunista nell’area di governo, proprio quando sembrava invece che tutto sarebbe finito con il crollo del muro, in costoro, com’è possibile che l’esperienza di governo di Renzi sia vissuta come una specie di sopruso, consumato ai loro danni? Se l’analisi scivola nella psicologia, subito viene in causa la profondità insondabile dell’animo umano, e allora va’ a capire. Però è difficile non ricavare da certi atti e comportamenti l’impressione che a Renzi l’abbiamo giurata, e che c’entri il risentimento personale, più che il giudizio politico. Nella storia comunista c’è forse l’una e l’altra cosa: c’è tanto la fraseologia occorrente per dire che un’altra fase storica di è aperta, e dunque si possono fare accordi persino con quello che una volta era il nemico (li può fare Togliatti con la svolta di Salerno e l’amnistia, Berlinguer con Moro e persino D’Alema con Berlusconi), quanto però l’accoltellamento fra cugini, se non proprio fra fratelli, e una scia di scissioni, espulsioni ed epurazioni in cui prevalgono vendette, rancori e tradimenti.

Questo, per dirla in una maniera grande e tragica. Ma c’è sempre il dubbio che il formato di tutta questa vicenda sia più piccolo, e che i piani della storia politica e della psicologia individuale non si separino mai del tutto. Ed è anzi facile che chi teme di scivolare via dalla prima, finisce col rimanere sempre più confinato, nelle proprie mosse e nelle proprie scelte, solo nella seconda.

(Il Mattino, 16 giugno 2016)