Archivi tag: morale

Perché il filosofo guida senza patente

patente

Tra tutte le discussioni sollevate dalla pubblicazione postuma dei Quaderni neri di Heidegger – con le sue espressioni smaccatamente antisemite – ve n’è una particolarmente cretina (per quanto istruttiva), che forse non meriterebbe di essere ripresa se non la si trovasse esposta sui principali quotidiani nazionali da professori autorevolissimi a cui non fanno difetto titoli e meriti accademici. Si tratta della questione seguente: fu Heidegger un grande pensatore, o addirittura il più grande del ventesimo secolo? Le questioni serie circa il nesso fra l’antisemitismo e la filosofia di Heidegger sono una cosa, la domanda circa la grandezza di Heidegger tutta un’altra. E non perché si voglia difendere a tutti i costi un pensatore che non inorridì dinanzi allo sterminio degli ebrei, che non ha detto una parola di condanna né prima né durante né dopo la guerra e ha anzi trovato parole che sollevavano il nazismo dalle sue responsabilità politiche e morali, ma perché muove dall’assunto che «un livido antisemita» non possa essere un «grande pensatore». Così infatti esordisce sul Corriere della sera l’emerito professor Richard Wolin, emerito e indignato, per il quale lo status di filosofo (e di grande filosofo) non è evidentemente compatibile con il pregiudizio antisemita. Così che se trovassimo tracce di antisemitismo – poniamo – in Hegel, Nietzsche o Frege, ci troveremmo nell’imbarazzo di  dover derubricare anche  costoro a pensatori mediocri, con buona pace delle nostre biblioteche (e grande soddisfazione del professor Wolin, immagino). Che se poi la nostra coscienza morale inorridisse altrettanto per lo schiavismo degli antichi, non si potrebbe proprio tenere nel pantheon della filosofia neppure Platone o Aristotele.

Ma, si dirà, i poveri Platone ed Aristotele, vissuti tanto tempo fa, proprio non potevano sapere quel che solo il progresso morale ha rivelato a noialtri, buoni democratici e liberali del ventunesimo secolo: che gli uomini sono tutti uguali e la schiavitù immorale. Giusto. D’accordo. Assolviamo almeno loro. Ma come la mettiamo con il pregiudizio contro le donne, che arriva praticamente fino ai giorni nostri? Togliamo il titolo di grande pensatore a tutti coloro che non hanno riconosciuto piena parità tra i sessi, pazienza se si tratta di quasi tutti? La storia della filosofia di Richard Wolin rischierebbe di ridursi a poverissima cosa, e soprattutto non sarebbe più una storia, ma solo una insipida cronaca di quello che passano gli ultimi anni della riflessione contemporanea, naturalmente dopo aver superato l’esame di morale del professor Wolin.

Ma è pronta l’obiezione: è immorale anche solo il paragone fra l’antisemitismo di Heidegger e qualunque altro deficit morale nel pensiero di qualunque altro pensatore del passato o del presente. Nulla è più orribile del nazismo, e mettere a confronto la condiscendenza di Heidegger verso nazismo e antisemitismo con generici pregiudizi maschilisti, o razzisti, o magari eurocentrici, è profondamente sbagliato. Ora, può darsi sia così, e che sia giusto togliere ai filosofi il titolo di «grandi» – e naturalmente anche ai giuristi tipo Schmitt e agli scrittori tipo Céline – per non urtare il senso di Richard Wolin per la grandezza. Dopodiché però sia consentito di chiedere: come uno che scrive queste cose immagina che si entri in filosofia? Previo rilascio di patentino morale? Pensa forse che si può essere filosofi, e grandi filosofi, solo avendo preliminarmente accettato, firmato e sottoscritto uno standard condiviso di valori morali universali? Che il consenso intorno a determinati valori non si discute né si problematizza punto? Che la filosofia comincia solo dopo aver considerato acquisite per sempre talune indiscutibili verità sull’uomo l’universo e tutto quanto? Che si può filosofare solo dopo che si sia rassicurati sulle buone intenzioni dell’esercizio di pensiero? Non è così, purtroppo (o per fortuna). Ed è da un pezzo che in filosofia vero bello e buono non si tengono quietamente l’uno a braccetto dell’altro, anche se siamo tutti contenti della «struttura di difesa dei diritti umani» sviluppatasi dopo i genocidi del ventesimo secolo. (O almeno: io per parte mia lo sono, ma non sono un pensatore né piccolo né grande in virtù di questa bella contentezza). La libertas philosophandi è più ampia di quanto Richard Wolin e altri evidentemente ritengono che sia, pur ergendosi a difensori di quella libertà che filosofi «unfrei» come Heidegger disprezzano.

A un parto sono nati, in filosofia, il filosofo e il sofista: e non solo la distinzione fra l’uno e l’altro non è mai fatta né è possibile farla una volta per tutte, ma sicuramente non è grande filosofo chi ritiene che sia già stata fatta, o peggio ancora che l’abbia fatta Richard Wolin per tutti noi. La filosofia ha pensato cose orribili. Heidegger ha pensato cose orribili: in quei pensieri bisogna entrare, e discuterli come pensieri, non come deprecabili errori morali commessi da un pover’uomo che non merita per questo di insegnarci Aristotele e Kant. In fondo vi sono più cose, in filosofia, di quante il criterio della morale condivisa (o della coscienza morale adamantina) ne ammetta. Ma in filosofia non si chiede il permesso di pensare a nessuno, nemmeno a Richard Wolin.

Il Mattino, 19 aprile 2015

Un governo tecnico in cerca di “supplementi d’anima”

C’è un passaggio, nelle parole pronunciate ieri da Monti, che conviene osservare da vicino: non per impugnare la matita rossa e blu, ma solo per capire bene. “La crisi economica – ha detto il premier – se non è affrontata con convinzione e coraggio può diventare culturale e di valore”. Il contesto in cui cadevano queste assennate parole – l’incontro con Benedetto XVI – giustifica l’attenzione rivolta alle condizioni morali e spirituali del paese. Il papa ha invitato l’Italia a non scoraggiarsi di fronte alle difficoltà, e ha indicato nella grande tradizione umanistica del nostro paese i fondamenti culturali a cui attingere per invertire la rotta. Un grande “rinnovamento spirituale ed etico” deve collegarsi alla tradizione storica dell’Italia, per riprenderla, rielaborarla, riproporla su basi nuove. Ed è vero: la nostra eredità culturale e civile è dote preziosa per tenere unito il paese, e rimetterlo sul sentiero della crescita. Si può naturalmente discutere su cosa diventino i valori, anche i più “etici” e “spirituali”, quando siano separati dalle condizioni effettive in cui furono pensati e posti in essere, e se una sorta di philosophia perennis possa mai accompagnare un paese attraverso le sue tante e diverse stagioni storiche e politiche. Ma queste son domande di filosofi. Nel momento in cui i timori di uno sfilacciamento del tessuto sociale si fanno sempre più grandi, è comprensibile ed anzi auspicabile che forti si intendano le parole che infondono fiducia, che donano speranza, che richiamano tutti al comune senso di appartenenza e alla più coraggiosa assunzione di responsabilità. E fa bene il Presidente del Consiglio ad accoglierle e rilanciarle, specialmente di fronte a segnali di malessere sociale che vanno acuendosi sempre più. Ancor più è apprezzabile che Monti abbia sentito ieri l’esigenza di riprendere la parola che fin dal giorno del suo insediamento aveva accompagnato la proposta programmatica del suo governo: la parola equità. Ci vuole equità, aveva detto, e ancora ieri ha ripetuto. E dentro la tradizione umanistica si trovano davvero le risorse per ripensare il valore non solo morale ma anche politico dell’equità: quella dimensione in cui il rigore della giustizia non può mai andar disgiunto da un ricco senso di umanità, e le proposizioni di principio non vengono mai fatte valere in astratto, nell’ignoranza delle circostanze concrete in cui gli uomini vivono.

Ma resta il passaggio che citavamo in apertura. Perché non può sfuggire che, a rigor di logica, se il premier teme che l’acuirsi della crisi economica possa comportare conseguenze più ampie, sul piano culturale ed etico, allora per lui l’elemento “culturale” ed “etico” si trova in posizione di effetto, mentre la crisi economica, recessione e disoccupazione si trovano in posizione di causa. Ma questo significa che ben difficilmente il rapporto può rovesciarsi, e d’improvviso la fiducia e la speranza, il coraggio e i forti auspici morali possono essere la causa, e la ripresa economica l’effetto. Sempre a rigor di logica si dovrebbe piuttosto pensare il contrario, e che un clima di aspettative favorevoli si stabilirà solo grazie a nuovi investimenti: non solo di fiducia.

Certo, abbiamo bisogno di supplementi d’anima. Forse ne ha ancora più bisogno un governo come quello in carica, che non ha l’etichetta di governo tecnico perché analisti cocciuti si ostinano a ricordare le competenze professionali del premier, ma perché Monti stesso parla alla politica come ad un mondo ben distinto e a volte – lui ritiene – anche distante dal governo. La politica viene individuata come una sfera diversa, con la quale si discute, ma della quale tuttavia non si fa parte e non si intende far parte.

Forse c’è la convinzione che la popolarità dell’esecutivo ne trarrà guadagno, o forse si ritiene che sia così più facile trovare nel governo il punto di mediazione fra interessi contrapposti. Può darsi. Ma sta il fatto che è proprio questo distacco a volte ostentato che rende comprensibile che il premier cerchi supplementi morali a sostegno della sua azione, pur con qualche bisticcio fra la causa e l’effetto. Perché a pensarci il vero supplemento dell’azione di governo c’è, e non può avere altro nome che, per l’appunto, politica. E in tutta Europa, sembra  proprio che ne stia di nuovo venendo il tempo.

L’Unità, 14 maggio 2012

Il Paradiso (tu vivrai)

Roberto De Mattei si fa interprete, su Il Foglio, del pensiero di Benedetto XVI. Il punto è uno solo: i guai che provoca il rimettere tutto alla libertà della coscienza. Quel che sarebbe per l’ennesima volta da notare, è il modo in cui si argomenta in difesa della verità: siccome per la via del soggettivismo moderno (e relativismo e nichilismo, eccetera eccetera) non si salva nulla di ciò a cui tengo, allora il soggettivismo è erroneo. Anche a voler mettere al posto di "ciò a cui tengo" qualcosa di più solido e meno idiosincratico, resta che in tutte queste difese dell’oggettivismo nella morale (e non solo nella morale) ciò su cui l’argomento si regge è semplicemente l’indesiderabilità delle conseguenze. Un modo abbastanza comodo di argomentare.

Ma (lascio perdere quel che la filosofia contemporanea avrebbe da dire su queste superstizioni del soggettivismo e dell’oggettivismo) neppure questo modo è seguito veramente sino in fondo. Tra queste conseguenze, Roberto De Mattei mette infatti la seguente:
"I cattolici che rifiutano l’assioma extra ecclesiam nulla salus sono convinti che la ‘buona fede’ salva. Ma allora, assomigliano a quel teologo, conosciuto dal giovane professor Ratzinger, secondo cui persino i membri delle SS naziste sarebbero in Paradiso perché portarono a compimento le loro atrocità con assoluta certezza di coscienza".

Qualunque cosa pensasse il giovane professor Ratzinger, la mia idea è che se proprio devo trovare un posto per l’idea di Paradiso, se proprio mi deve tornare comoda, direi che è quel qualcosa in cui persino i membri delle SS naziste possono trovar posto. Non vedo a cos’altro potrebbe servirmi l’idea del Paradiso, e forse è vero: metterla in un modo o nel’altro è la misura oggettiva della coscienza dell’uno o dell’altro: di ciò su cui essa è fondata.

(Il Paradiso)

Il rispetto e l'amore

E’ molto bello l’articolo di Marina Corradi su Avvenire. Lo dico senza alcuna ironia. Prende spunto da un’intervista all’infermiera di Udine che ha raccontato gli ultimi giorni di Eluana Englaro, e in particolare dal giudizio che l’infermiera ha espresso sul caso: sarebbe stato accanimento terapeutico, secondo lei, il tenere in vita Eluana per tutti questi anni.
E la Corradi si chiede come sia possibile, qual genere di rovesciamento della realtà e del suo senso deve verificarsi perché si chiami accanimento la cura amorevole prestata a Eluana dalle suore per anni e anni le sono state vicino. E scrive: "il darsi più totale e gratuito si vuol chiamare ‘accanimento terapeutico’, in questa Italia a forza liberata".

Ora però vi chiedo di leggere con attenzione l’articolo di Marina Corradi. In nessuna parola dell’articolo compare un qualunque riferimento alla volontà di Eluana. Semplicemente, la situazione morale che Marina Corradi descrive prescinde completamente dalla considerazione della volontà della persona oggetto di cura. Completamente. Ed è perciò che l’assistenza, praticata in un atto di donazione totale e gratuito, vale moralmente – dal punto di vista di Marina Corradi – solo ed esclusivamente in ragione di quel donarsi assoluto, ma non trova alcuna misura nell’eventuale volontà dell’assistita. E lo stesso, conseguentemente, per la nozione di accanimento, di cui si discute in maniera del tutto indipendente dall’elemento della volontà soggettiva.
Io mi domando non se Marina Corradi abbia o no ragione, ma come mai – visto che per fortuna qui si tratta di morale e non di scienza, e non c’è da riportare qualche definizione scientifica in materia – com’è possibile che Corradi non ci rifletta almeno un secondo su, prima di escludere che quella misura (che nella tradizione morale occidentale si traduce in rispetto, essendo il rispetto un limite anche dell’amore) abbia la sia pur minima rilevanza.

Martirio

Ma se la vita è un valore supremo, se la vita è perciò indisponibile, il martire cristiano?

Si dirà: ma il martire mica si suicida, mica dispone lui della propria vita. Giusto. Ma cosa precisamente testimonia? Se è un martire, testimonia: questo vuol dire martire. E cosa testimonia, il martire? Cosa, se non che tiene più alla fede che alla vita?  Ebbene: posso io tenere più alla mia libertà, che alla vita? Mi si chiede di abiurare: io rifiuto. Mi si chiede di tradire: io rifiuto. Mi si chiede di condannare: io rifiuto. E vengo messo a morte (per esempio: mi si lascia morire di fame e sete). Se ora il sondino non può essere rifiutato, è perché chi rifiuta non testimonia nulla: nulla, s’intende, agli occhi di chi ritiene che appunto il sondino non può essere rifiutato.
Orbene, nell’articolo su Left Wing ho parlato di una catastrofe ontologica e di un disastro culturale, qui ci metto pure una grave cecità morale. Perché io voglio capire che la Chiesa non consideri la libertà di scelta e l’autonomia individuale un valore in sé, e che dunque nel suo puro esercizio io non testimonio nulla. La testimonianza sta infatti dal lato di ciò per cui scelgo: scelgo la fede, piuttosto che la vita; scelgo l’amore o l’amicizia, piuttosto che la vita; c’è un bene più grande che viene scelto, per cui ha valore di testimonianza la scelta.

Dove sta però la cecità morale? Nel fatto che è un valore più alto della vita stessa rispettare la libertà di scelta dell’altro. E’ alla Chiesa che si chiede dunque di testimoniare. Ma la Chiesa non ha più forza di testimonianza.
E infine, e dal mio punto di vista soprattutto, non è vero affatto che non testimonio. Testimonio che più della vita conta il viverla.

(Se poi siete stati così pazienti da arrivare sin qui, vi regalo il link al convegno di Radio Radicale su "Verità e menzogna su eutanasia", ma soprattutto la fulminante battuta di Ignazio Marino sull’alimentazione artificiale: "la prescrive il medico, non il cuoco" – battuta la cui fonte, sono sicuro, è il Gorgia di Platone)

Buona domenica

"Decisivo oggi è un sì o un no sulla questione: l’appartenenza alla Chiesa cattolica è o no definita dall’accettare la soggezione della propria coscienza in materia morale all’autorità magisteriale, in tutti i casi in cui la propria coscienza (morale) si trovi in conflitto con quell’autorità sulla questione di quale sia effettivamente il bene e il dovere? A me pareva che quella grande innovazione del Concilio comportasse la risposta: no. Non più" (Roberta De Monticelli).
Non c’è domenica, non c’è giorno del Signore, in materia morale.

Wow

Ho letto con molto interesse l’articolo apparso sul Foglio, a firma di Benedetto Ippolito, in cui si dà brevemente conto di alcune delle posizioni proposte, su religione e morale, nell’ultimo Almanacco di Filosofia di Micromega: Flores, Fisichella, De Monticelli. Ma l’articolo finisce in bellezza, perché è sul finire che viene indicata la soluzione, nell’"avvenimento spettacolare della Croce e della Resurrezione di Cristo".

Avvenimento spettacolare. Già mi immagino, all’ora nona, le pie donne ai piedi della croce prorompere tutte estasiate in un rapito: "Wow!"

La moralità nella seconda repubblica

A seguito del tamponamento, già rubricato come danno collaterale, questa sera il perito dell’assicurazione della mia auto è venuto a chiedermi conferma dell’avvenuto incidente, dal momento che non trovavano in agenzia copia della mia denuncia (che io, posso assicurare l’inviperito – immagino – automobilista da me tamponato, avevo regolarmente presentato). E’ passato un po’ di tempo, quasi tre mesi, perché la macchina era intestata a mia madre, che ora non c’è più. E non c’è più mio padre, e la casa è vuota e nessuno risponde, e la cassetta postale dove sono stati depositati gli avvisi non è stata svuotata con regolarità, e insomma solo stasera sono risaliti a me.

Io ho tutto confermato. Ma mi sono chiesto anche, dimostrando come in me campano sia per via di queste strane domande una precaria pellicola il senso civico: se, ora che non c’è più l’intestataria dell’automobile, e io devo pure cambiare l’auto, che ha superato i 200.000 km e i sette anni di vita, se me ne andassi in giro tamponando qua e là un po’ di amici compiacenti, con l’auto un po’ ammaccata, che vogliono rifarsi la carrozzeria, dal momento che la prossima assicurazione sarà intestata a mio nome, o a nome di mia moglie, e quindi non dovrò accollarmi tutti questi incidenti, se io così facessi, l’assicurazione come potrebbe parare il colpo?

P.S. Un mio amico suggeriva di confezionare, per noi campani, la maglietta: "Sono campano, ma mi sto curando".