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Due pesi due misure e un avviso

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Si è parlato di ultimatum, ma la situazione in cui si è infilato il Movimento Cinquestelle, a Roma, somiglia invece a un gioco «lose-lose»: comunque ti muovi, perdi. Perdi tu, e perde Virginia Raggi. Riuniti in un conclave che, per l’ennesima volta, non ha più nulla dello streaming delle origini, i capi del Movimento dovevano decidere se ritirare il simbolo che sei mesi fa aveva espugnato il Campidoglio, promettendo una rivoluzione che non è mai iniziata, o commissariare il sindaco, pazienza se questo avrebbe comportato il ridimensionamento della sua figura e una aperta sconfessione del suo operato.

La prima opzione equivaleva ad ammainare la bandiera a Cinquestelle dai colli fatali di Roma. Che se poi l’Amministrazione fosse caduta per l’indisponibilità dei consiglieri a proseguire fuori dall’orbita del Movimento (come invece è accaduto a Parma, con Pizzarotti), sarebbe stato persino meglio. I pentastellati avrebbero potuto dire, in tale ipotesi, che loro sono e rimangono diversi, che loro non accettano compromessi, che loro ci mettono un secondo a cacciare chi viola i principi del Movimento, che loro non guardano in faccia a nessuno. Tutto ben detto, salvo che la via d’uscita sarebbe stata la più clamorosa sconfitta per i Cinquestelle, che sulla Raggi alfiere del rinnovamento avevano puntato tutte le loro fiches. È illusorio, infatti, pensare che Grillo possa fare con la Raggi quello che maldestramente ha tentato di fare la Raggi con Marra: come lei ha detto che in fondo era solo uno dei dodicimila dipendenti del Comune, così Grillo e i suoi avrebbero dovuto provare a dire che in fondo la Raggi non è che uno degli ottomila sindaci d’Italia. La Raggi si è scusata per aver scelto Marra: sarebbe bastato che Grillo si scusasse per aver scelto la Raggi?

La seconda opzione, quella per la quale Grillo si è risolto, al termine di un vertice fiume, punta a debellare il virus che ha infettato il Movimento, – per usare l’espressione impiegata da una personalità di punta dei Cinquestelle romani, Roberta Lombardi –, allontanando, dopo l’arresto del fidatissimo Marra, anche gli altri uomini sui quali Virginia Raggi ha puntato: il vicesindaco Daniele Frongia e Salvatore Romeo, capo della segreteria politica. L’ipotesi è insomma che la via d’uscita sia spegnere il raggio magico, e mettere definitivamente il sindaco sotto stretta tutela. In realtà, avevano già provato a fare una cosa del genere: con il contratto che la candidata aveva dovuto firmare (con tanto di penale in caso di «danno d’immagine» al Movimento), e con la costituzione di un mini-direttorio sulle rive del Tevere, ben presto però sciolto per manifesta inutilità. La Raggi infatti aveva orgogliosamente rivendicato la propria autonomia. La quale però, com’è di tutta evidenza, si fondava proprio sugli uomini finiti nel mirino delle indagini. Dove, d’altra parte, avrebbe dovuto andare a prendere una classe dirigente pentastellata? I grillini non ce l’avevano, e forse aveva ragione un’altra esponente di peso, Paola Taverna, quando disse (per paradosso ma non troppo) che a Roma sarebbe stato molto meglio perdere: sta di fatto che il sindaco ha pescato nel giro delle sue amicizie, dei suoi rapporti personali, professionali, anche per mantenere un minimo di indipendenza. Partita col piede sbagliato, in mezzo a mille incertezze, tra assessori nominati e poi revocati, assessori dimessi e ora anche dirigenti arrestati, la possibilità che la Raggi continuasse a fare di testa sua e che il Movimento la seguisse compattamente era già del tutto tramontata. Ma ora commissariare il sindaco, chiedere e ottenere la testa dei suoi fedelissimi, non farle fare più un passo senza l’approvazione di Grillo (o del suo Staff, o di Casaleggio, o del direttorio nazionale, o dei parlamentari romani, o dei presidenti pentastellati dei municipi cittadini, oppure di tutti costoro messi insieme) significa comunque esporsi al rischio che, alla prossima tegola, se ne venga giù tutto il tetto del Campidoglio, e che il Movimento intero, non solo la Raggi, ci finisca sotto. Perché le procedure con le quali ha proceduto alle nomine sono tuttora sotto la lente dei magistrati: cosa succederà allora se domani arrivasse al primo cittadino un avviso di garanzia per abuso d’ufficio? Nel contratto, il «danno di immagine» è quantificato per la modica somma di 150.000 euro, e a quanto si sa la Raggi, al primo stormir delle fronde, avrebbe chiesto un parere legale circa l’esigibilità di quella cifra. Ma a parte la vile pecunia: il danno politico?

Stretto fra queste due opzioni, Grillo ha deciso: commissariamento. Romeo si dimette, Frongia non fa più il vicesindaco e mantiene solo le deleghe. E pure il fratello di Marra se ne va. Il tutto viene rubricato sotto la voce «segno di cambiamento», come se la giunta Raggi non fosse in piedi da soli sei mesi, e il problema non fosse casomai quello di durare, essendo cambiata la squadra di governo già troppo in così poco tempo. Ma tant’è: anche i grillini scoprono il politichese e la realpolitik.

E se poi la Procura notificasse davvero qualcosa, nei prossimi giorni o nelle prossime settimane? Ecco la risposta di Grillo, che merita di essere letta per intero, e, quasi, di essere lasciata senza commento: «A breve defineremo un codice etico che regola il comportamento degli eletti del MoVimento 5 Stelle in caso di procedimenti giudiziari. Ci stanno combattendo con tutte le armi comprese le denunce facili che comunque comportano atti dovuti come l’iscrizione nel registro degli indagati o gli avvisi di garanzia». Definiranno un codice etico. Tradotto: fino a ieri un avviso di garanzia comportava dimissioni; da oggi, per i nostri, cominceremo a parlare di atti dovuti e ci riscopriremo garantisti. Contro gli altri continuiamo a strillare in piazza «onestà! Onesta!», per i nostri gridiamo invece al complotto e ce la prendiamo con quelli che ci vogliono fermare. Due pesi, due misure, due morali. Se la contraddizione non esplode prima e arrivano presto le elezioni, magari Grillo la sfanga, ma Roma no.

(Il Mattino, 18 dicembre 2016)

 

 

La strategia della finestra

 

ImmagineSe Alessandro Manzoni seguisse le primarie dei grillini napoletani, e avesse voglia di scriverne, titolerebbe probabilmente così: Stefania Verusio, chi mai sarà costei? E chi mai sarà l’altra candidata, Francesca Menna? Sarà colpa di una politica sempre più personalizzata, e sempre in affannosa ricerca di volti noti, ma la scelta grillina di affidarsi, per la candidatura a sindaco di Napoli, a due degnissime persone, ma sconosciute alla quasi totalità dei napoletani,suona francamente improbabile, per non dire che sfiora la pura e semplice casualità. Del resto, il numero di coloro che partecipano a queste procedure di selezione è, di regola, talmente piccolo, che davvero il risultato sembra del tutto fortuito. È toccato a loro, poteva capitare a chiunque altro. La cosa fa pensare alle parole che Paola Taverna, deputata grillina di stanza a Roma, ha usato qualche giorno fa, denunciando il clamoroso complotto degli altri partiti per far vincere il Movimento Cinque Stelle nella Capitale. L’unica maniera di sventarlo, si direbbe, è quella di candidare perfetti sconosciuti (o sconosciute). A Napoli l’hanno fatto; ma così al rocambolesco paradosso della cittadina Taverna si risponderebbe con un paradosso più acrobatico ancora.

Naturalmente, gli esponenti del Direttorio non mancano di spiegare la cosa nei termini ligi della loro dottrina: conta il progetto, uno vale uno (cioè uno vale l’altro e nessuno vale gran che), non ci sono persone insostituibili e tutti sono fungibili, se persino Beppe Grillo ha tolto il suo nome dal simbolo. E così via.

Tutto vero, ma tutto drammaticamente insufficiente. A Napoli il Movimento è attraversato da profonde tensioni. C’è stato il caso di Quarto, con le espulsioni e le dimissioni, poi rientrate, del sindaco Capuozzo; c’è stata l’ondata di epurazioni che ha colpito i meetup partenopei. Non è detto che sia finita, e secondo alcuni è ancora possibile che i Cinquestelle non si presentino nemmeno con il loro simbolo. Come il partito radicale di una volta, che ogni tanto faceva proprio così: si chiamava fuori, addossando la colpa al regime partitocratico.

Non finirà però in questo modo: sarebbe davvero la madre di tutte le stramberie, tanto più in una città che esprime due tra i massimi dirigenti del Movimento, Roberto Fico e Luigi Di Maio. Ma la questione sembra meno legata alle vicende interne al gruppo dirigente napoletano, che alla strategia politica del movimento. Strategia che pare fatta apposta per sottrarsi all’incombenza di governare. Tenersi fuori dall’area di governo paga, in termini elettorali. O perlomeno: evita lo scotto di cattivi risultati amministrativi, la cui scia si prolungherebbe con ogni probabilità fino alle prossime elezioni politiche, se in gioco non sono più piccole realtà locali o città di provincia, ma grandi città come Roma o Napoli. Che cosa mai potrebbe combinare, infatti, un sindaco grillino? Siamo sicuri che Grillo&Casaleggio vogliano davvero saperlo? Siamo sicuri che anche i giovani membri napoletani del Direttorio, che si trovano adesso l’uno sulla seconda poltrona della Camera dei Deputati, l’altro alla guida della Commissione Vigilanza della Rai, siano disponibili a mettere in gioco il loro futuro politico lanciando il Movimento in una competizione vera per la guida di una città così complessa? E se putacaso i grillini vincessero, quanto tempo impiegherebbero anche solo per capire da che parte cominciare?

Non è questo il senso del paradosso di Paola Taverna? Se ci lasciano in mano il cerino del governo, finirà che ci scottiamo con i debiti del Comune, con la macchina amministrativa che magari rema contro, con i conflitti che immediatamente sorgerebbero con gli altri livelli istituzionali. Senza contare le tensioni che nel Movimento si producono ogni volta che si avvicina all’area di governo: scissioni ed espulsioni compaiono subito all’ordine del giorno.

È un’interpretazione malevola? Può darsi. Ma se anche fosse, rimane la questione: non è forse vero che il metodo, ancor più dei contenuti della proposta politica pentastellata, tiene obiettivamente lontano dalle assunzioni di responsabilità politica i suoi militanti e dirigenti? Dalle altre parti va molto diversamente. I candidati in campo scelgono e trovano il sostegno di leader di rilievo nazionale: Berlusconi dà l’ok a Lettieri; Andrea Orlando viene a Napoli a sostenere la candidatura di Valeria Valente. Bassolino, invece, fa da sé e mette il pronome di prima persona innanzi a ogni altra cosa. I grillini diranno invece che il loro nome è nessuno, e che questa è la loro forza. O la loro astuzia, visto che a dirlo saranno comunque proprio i nomi propri della ditta Grillo&Casaleggio nelle cui mani rimane saldamente il controllo del Movimento. Anzi: la proprietà del marchio.

(Il Mattino – ed. Napoli, 20 febbraio 2016)

Se si cerca un assessore come un’auto usata

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A.A.A. Assessore cercasi. Come si vende un auto usata, o si cerca un nuovo amore. A Quarto il sindaco Rosa Capuozzo si è messa, tramite avviso pubblico, alla ricerca di un ingegnere civile che faccia l’assessore ai Lavori Pubblici.

Il Movimento Cinque Stelle ha scaricato il sindaco. Lo psicodramma è passato attraverso la fase della riflessione, poi dello sconforto e delle dimissioni, infine – colpo di scena! – del ritiro delle dimissioni sul filo di lana dell’ultimo giorno utile.

E così Rosa Capuozzo non solo è tornata ad amministrare la città, ma ha ripreso a farlo con il solito piglio grillino. Nell’annuncio pubblicato dal Sindaco c’è, infatti, tutto il credo del Movimento in una mirabile sintesi.

Primo punto: l’Assessore ai Lavori Pubblici non può non essere, per il sindaco, un ingegnere civile. Chi, più di un ingegnere, può occuparsi di lavori pubblici? In base alla stessa logica, la delega alla sicurezza e alla legalità dovrebbe andare a un poliziotto o a un carabiniere; quella allo sport e alle politiche giovanili a un giovanotto fresco reduce da una corsa campestre. E così via. L’idea che per certi incarichi si debba avere anche un profilo politico, e che le elezioni si fanno per quello, altrimenti basterebbe scorrere gli albi degli ordini professionali, evidentemente non appartiene alla mentalità a cinque stelle.

Secondo punto: il Sindaco nomina l’assessore. Si tratta di un rapporto fiduciario. Ma nel Movimento si diffida di simili rapporti. Se scelgo una persona che conosco, il sospetto è che la scelgo non perché è brava, ma perché la conosco. Quindi, meglio un emerito sconosciuto. Competente: lo scelgo infatti in base al curriculum. Ma di cui ignoro le idee, la visione, tutto. Pare evidente che la condizione ideale per i Cinque Stelle sarebbe il completo anonimato.

Ieri Repubblica ha domandato a Roberto Fico, a cui la notorietà sta evidentemente nuocendo,se la vicenda di Quarto – come quella di Gela: l’ultimo sindaco sfiduciato dallo Staff di Grillo – non dimostri che i candidati sindaci vengono scelti dal Movimento senza che li si conosca bene. La vera domanda sarebbe stata se i grillini non si facciano un punto d’onore di scegliere donne e uomini che non conoscono affatto, che non sanno nemmeno da dove vengono, chi sono, cosa fanno.

E infatti, ecco l’ultima pillola dispensata dall’avviso pubblico del sindaco Capuozzo: l’assessore ai lavori pubblici di Quarto non deve essere di Quarto. Non deve avere la residenza a Quarto. Poi l’avviso è stato corretto, perché qualcuno deve aver fatto presente al sindaco che era, francamente, un po’ troppo. Ma l’idea è la stessa: se è di Quarto, avrà le sue conoscenze e i suoi interessi. Il che lo rende automaticamente sospettabile di alto tradimento. Meglio, molto meglio se a Quarto si mandasse l’assessore ai lavori pubblici di Gela, e a Gela quello di Quarto. E’ un’idea: siccome i grillini li scelgono tutti competenti, le città da loro amministrate se li potrebbero bellamente scambiare. Quelli di Livorno andare a Parma, quelli di Parma andare a Livorno, e così il disinteresse è assicurato, la moralità salva.

In realtà, l’ideologia sottostante è la stessa: la politica è il male. Ovunque si costruiscono rapporti politici, lì domina necessariamente il vizio e la corruzione. Fico lo ha detto con ancor più chiarezza quando ha spiegato ieri che loro non candidano “nomi forti”: quindi a Roma niente Di Battista e a Napoli niente Di Maio. Non ha chiarito, per la verità, perché al videoforum di Repubblica sia andato proprio lui, che il nome forte se lo sta facendo (sia pure con qualche ammaccatura), ma insomma è lo stessa solfa: loro non candidano politici, ma cittadini. Se uno vale uno, i cittadini in questione potrebbero pure non avercelo un nome un cognome e un volto, tanto contano le idee, il programma, i principi del movimento su cui indefessamente vigila lo Staff di Grillo.

Risultato: negli enti locali una classe dirigente credibile e affidabile non c’è e non ci può essere. Non può formarsi: è negata in principio. In compenso c’è Grillo, c’è Casaleggio, e ci sono i membri del Direttorio: loro sono sempre più conosciuti, e sempre più cresce, dentro il Movimento, il loro capitale politico.

(Il Mattino, 13 febbraio 2016)

Movimento 5 stelle: il programma

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Cinque capitoli. Per ciascun capitolo un «sunto», che riassume i punti fermi, e mette sull’avviso l’utente: se non li condividi, lascia perdere. Ma se li condividi, allora puoi contribuire anche tu a scrivere il programma dei Cinque Stelle per la città di Napoli. È la filosofia «wiki»: proprio come gli utenti possono contribuire a scrivere le voci della più diffusa enciclopedia online, così i cittadini possono partecipare alla stesura del programma. Vale la pena allora leggerle, queste pagine, se non altro perché gli altri partiti non hanno neppure avviato uno sforzo analogo, persi dietro a liste e candidati e primarie con date ballerine.

Chi va invece sul sito del «wiki-programma», capisce subito che cosa vogliono i grillini napoletani. Basta leggere il modo in cui esemplificano le scelte che i Comuni sono chiamati a compiere: «possono avvelenarci con un inceneritore o avviare la raccolta differenziata. Fare parchi per i bambini o porti per gli speculatori. Costruire parcheggi o asili. Privatizzare l’acqua o mantenerla sotto il loro controllo». I Cinquestelle sono dunque – o si presentano come – quelli della raccolta differenziata, contrari alla privatizzazione dell’acqua, disponibili a costruire giardini e asili, ma non porti o parcheggi. Città giardino, insomma.

Ma siamo solo alla visione generale. Poi si passa ai capitoli. Il primo capitolo, «Stato e cittadini», è il tripudio della partecipazione diretta. Niente delega in bianco ai rappresentanti: l’idea stessa di rappresentanza è ritenuta uno stravolgimento della sovranità popolare. I Cinquestelle propongono referendum a ogni ora del giorno e della notte: abrogativi, propositivi, deliberativi. E istanze e petizioni e proposte. Il modello è la Svizzera. Se si può fare in Svizzera, non si vede perché non si possa fare a Napoli: il fatto che in Europa sia solo la Svizzera ad adottare un uso su così larga scala dell’istituto referendario non istilla dubbi di sorta.

Secondo capitolo: «Qualità della vita». Stranamente, leggiamo qui che  «i cittadini non hanno un’idea chiara di salute né di benessere ». Stranamente, perché questi cittadini così ignoranti e alla mercé delle multinazionali del farmaco sono gli stessi per i quali si prevede la partecipazione diretta tramite batterie di referendum. Ad ogni modo, il programma insiste molto sull’idea che i i cittadini debbano essere informati: prevenzione, educazione, incontri pubblici, divulgazione di bilanci. Si capisce: la sanità è materia regionale. Alla voce costi, tuttavia, compaiono un paio di idee curiose. La prima è l’idea che questa mastodontica campagna di informazione sia a costo zero; la seconda è l’introduzione di una moneta complementare, che «permetterebbe la mobilitazione di fondi in tutti gli ambiti che poi ricadono sulla salute», qualunque cosa ciò significhi.

Nello stesso capitolo si sviluppano nel dettaglio le misure per l’infanzia e per gli animali. Si vede che i «movimentisti» hanno per questi temi una speciale sensibilità. In particolare, per i più piccoli i grillini sono disposti a rivoltare la città come un guanto: politiche ambientali, urbanistiche, culturali, sociali. Le azioni immaginate sono tante. Ad esempio: segnaletica per bambini, potenziamento delle ludoteche pubbliche, aree dedicate, scambi culturali, fruibilità museali. Ci sono anche cose come «le sinergie transgenerazionali» e la «programmazione partecipata», ma nel complesso c’è uno sforzo complessivo di ridisegnare la città a misura di bambino. Non c’è un analogo sforzo nell’analisi dell’esistente, e soprattutto non c’è dal lato dei costi: non compare un numero che sia uno.

Terzo capitolo: territorio. Per cominciare, i Cinquestelle sono contrari a ulteriore utilizzo di superficie, e propongono azioni per fermare degrado urbano e dissesto idrogeologico. Sui rifiuti, lunghi muri di testo assicurano il lettore che si può fare: si può differenziare tutto, riciclare tutto, rieducare tutti. Più che un programma, questa parte del sito espone una filosofia. Stessa cosa più avanti, alla voce energia. Si vuole una società «carbon free», senza più una goccia di petrolio, ma latitano i riferimenti alla città: alla fusione fredda sì, a Napoli no. Forse l’idea è che Helsinki o Napoli fa lo stesso. Alla voce «strumenti normativi comunali» – dopo trentamila e passa caratteri – si legge solo: «attuare tutte le disposizioni che la legislazione mette a disposizione dell’ente locale per proporre disposizioni finalizzate all’attuazione degli obiettivi».

E le due grane di Bagnoli e Napoli Est? Qui i Cinquestelle ci vanno prudentissimi. Una vistosa banda colorata avvisa il lettore che la bozza è provvisoria, dopodiché si nega ogni problema: «tendenzialmente» basta la normale programmazione amministrativa urbana. Et voilà.

L’economia (quarto capitolo), è divisa in energia – e s’è detto – turismo e lavoro. Anche sulle politiche sociali l’elaborazione è ancora provvisoria. Il lavoro è invece un pezzo del programma nazionale, o poco più. Solo il turismo tocca da vicino la città: i grillini vogliono riqualificare il mare, vogliono più ZTL, vogliono più illuminazione (ma non erano contro l’inquinamento luminoso?). E pure più forze dell’ordine all’aeroporto e nelle stazioni (e al porto no?). Qui, come anche sul tema parcheggi, i movimentisti sembra cercare un motivo di identificazione forte con il cittadino qualunque, che affronta inerme e a mani nude la vita cittadina. Si dice quindi no alle barche – e a un porto che sembra loro un ostacolo alla dimensione umana della città, più che una risorsa – perché i napoletani possano usufruire del mare, proprio come si dice no ai parcheggi, perché i napoletani possano riappropriarsi a piedi (o al massimo in bicicletta) della città. Il resto è car sharing, car pooling, mercatini locali e prodotti alimentari a chilometri zero.

Quinto e ultimo capitolo, «Cultura». È palesemente il più lontano da una redazione accettabile. L’unica cosa che sembra importare è la connettività, il wi-fi pubblico, l’Internet gratuito. Su scuola e università si trova un impegno generico al «miglioramento» e qualche proposta strampalata. Il problema della dispersione scolastica sembra non esistere a Napoli.

E finisce così, con «l’identità della città» unico punto annunciato e non ancora sviluppato. Forse non è un caso. Il programma ha infatti, nel complesso, due limiti evidentissimi, e però anche due grandi pregio altrettanto evidenti. Primo limite: ci sono sì i capitoli, ma non quelli di bilancio. Come si faccia quello che si propone di fare è impossibile capirlo, a meno che il contrasto al crimine, all’abusivismo e alle ruberie non si trasformi in una pioggia di milioni per la città. Secondo limite: con poche eccezioni, si vede che le cose che stanno a cuore sono le stesse che stanno a cuore a Milano o a Roma: energia pulita, rifiuti riciclati, partecipazione diretta. È chiaro dove si vuole andare, ma non da dove si parta. A chi non conoscesse Napoli, leggendo il programma non verrebbe mai l’idea che si tratta di una metropoli caotica. Però saprebbe tutto su una società ecologica, post-industriale, autogovernata come un quartiere (o un cantone svizzero).

Infine i due grandi pregi: uno è il fatto stesso che i grillini un programma ce l’abbiano, sorretto da una visione di futuro. Cosa che non si può dire degli altri partiti che provano a sfidare De Magistris. L’altro è che, sia o no credibile il programma, loro ci credono davvero. Chi scrive sul sito, legge modifica e perfeziona, ci crede, e anche questa è cosa che gli altri partiti riescono sempre meno a dimostrare: di credere a quello che dicono, e di puntarci su.

(Il Mattino – ed. Napoli, 21 dicembre 2015)

Vattimo, pensiero debole e tentazioni forti

ImageLa notizia c’è: Gianni Vattimo, uno dei maggiori filosofi italiani viventi, bussa alla porta di Grillo. Si capisce: a giugno si vota di nuovo per le europee, dove evidentemente il filosofo, attuale europarlamentare, si trova bene e vuole tornare. Una volta lo disse pure, citando Enrico Mattei: anche per me i partiti sono come i taxi, si prendono quando servono. Ora, se fosse soltanto un episodio di calcio-mercato (dopo tutto, è aperto fino a fine gennaio) non metterebbe conto di parlarne. Ma il fatto è che Vattimo è un pezzo significativo della filosofia italiana dell’ultimo mezzo secolo, oltre ad essere internazionalmente noto. Chi quindi volesse capire cosa è accaduto nella cultura del nostro Paese dopo il declino della tradizione storicista e l’interruzione della linea De Sanctis-Croce-Gramsci, su cui si è innestato il tronco principale della sinistra italiana, non altro dovrebbe leggere che i libri di Gianni Vattimo. Chi inoltre volesse sapere cosa mai sia stato il «pensiero debole», l’etichetta inventata da Vattimo (e da Pier Aldo Rovatti), e capirlo non con i difficili mezzi della filosofia, ma almeno della sociologia della cultura, potrebbe forse studiare con profitto, per intero, la vivace biografia del filosofo torinese, fino all’abboccamento di ieri. Perché, per il Vattimo filosofo, debole, o da indebolire, è la struttura stessa della realtà: presa così com’è (o meglio: come sembra essere), la realtà è troppo perentoria, autoritaria, e infine violenta. Presa invece alla leggera, la realtà si lascerebbe modificare, cambiare, interpretare in infiniti modi. Ricordate la tesi marxiana: finora i filosofi si sono limitati a interpretare il mondo, ora si tratta di modificarlo? Ebbene, Vattimo e l’ermeneutica filosofica contemporanea hanno mostrato che interpretare è già modificare, e dunque l’opposizione marxiana non ha motivo d’essere (per la gioia dei filosofi idealisti più disinvolti e la disperazione dei materialisti più impenitenti).

Ma i torti o le ragioni teoretiche non sono uguali ai meriti o ai demeriti culturali: grazie a Vattimo (non solo a lui, ma anzitutto a lui) pensatori fino ad allora considerati di destra, quando non schiettamente nazisti, sono divenuti sorprendentemente, sul finire degli anni Settanta, numi tutelari della sinistra: Nietzsche, Heidegger, Schmitt. Ma soprattutto il primo, Federico Nietzsche, lui stesso così ben modificabile, e assimilabile, e malleabile, da potersi rendere disponibile in edicola a prezzi popolari (lì dove invece i filosofi di solito non si vendono) e da comparire perfino nelle canzonette: vedi l’indimenticabile «Nietzsche (pronuncia: «nice») che dice? Boh, boh!» di Zucchero Fornaciari.

Vattimo ha sempre sostenuto che le sue posizioni di sinistra, e anzi di sinistra radicale, anarchico-libertaria, anticapitalista, antagonista, pacifista, antisionista e antiamericana (e pure, da ultimo, anti-Tav: il filosofo torinese non si è mai fatto risparmiare nulla) vanno a braccetto con la sua ontologia debole. Che quindi si intende: dalla parte dei deboli. La sua parabola politica è però ancora più istruttiva: c’è infatti un nesso molto evidente fra l’avversione sessantottina e post-sessantottina nei confronti del pesante e bolso partito comunista, che il giovane Vattimo condivideva con i gruppi extra-parlamentari, e la simpatia che oggi il vecchio Vattimo mostra di nutrire verso i Cinque Stelle. Il tratto comune è l’ostilità nei confronti di tutto ciò che sa di ufficialità, istituzionalità, autorità, normalità, di tutto quello che si presta ad essere descritto come facente parte di un sistema: che si tratti insomma del sistema della morale piuttosto che di quello delle leggi e dello Stato, il nietzscheanesimo di sinistra di Vattimo si troverà sempre all’opposizione. Per principio (e un po’ anche per comodità).

Perciò la notizia di oggi c’è, ma non deve stupire. Uno pensa che stia nella disinvoltura con cui Vattimo sale e scende dai taxi: ma per stigmatizzare quella, basta un articolo un po’ irridente. E invece la notizia sta nello sfarinamento della cultura di sinistra del nostro paese: per quella, c’è bisogno ahimè di una riflessione più seria.

(Il Mattino, 17 gennaio 2014)

Governo, il ruolo del Pd nella sfida di Bersani

Quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare: e allora perché la direzione nazionale del partito democratico si è riunita ieri, prima cioè che cominciasse il gioco vero, ossia le consultazioni delle forze politiche da parte del presidente quasi-incaricato? Più che un segnale di forza, è parso un segnale di debolezza. Finora, Bersani ha infatti incontrato le parti sociali, e per quanta attenzione abbia voluto mostrare nei loro confronti, ben difficilmente avrà potuto trarre da esse elementi utili allo scioglimento del nodo politico dinanzi al quale si trova. La partita vera comincia soltanto oggi. E dunque la direzione nazionale del Pd non aveva nuovi elementi da valutare, e non ha potuto fare altro che confermare la linea politica fissata all’indomani del voto, quando, con un unanimismo invero un po’ sospetto, aveva dato mandato al segretario del Pd di tentare di costruire un’intesa col Movimento 5 Stelle, sulla base di pochi punti programmatici. Perché allora questo nuovo passaggio in direzione, se non per ricompattare il partito? Comunque se ne valuti l’esito, la riunione di ieri dimostra perciò che il bisogno di ricompattarsi c’era.

C’era e c’è. E più passa il tempo, più va avanti Bersani nel suo tentativo, più rischia di dimostrare, qualora non dovesse riuscire, che la ricerca di una maggioranza parlamentare è il tappo che rischia di saltare ma anche di far saltare il Pd, qualora il segretario non dovesse riuscire nell’impresa. Al di là delle dichiarazioni di maniera, con un Renzi che si fa notare di più non andando in direzione che facendosi presente, quel che si vede è un pezzo del partito che spinge verso le elezioni, mentre un altro pezzo sembra disponibile a cercare intese col centrodestra. Una parte sposa senz’altro la bandiera del cambiamento, mentre un’altra insiste sulla necessità di dare comunque un governo al paese. Non solo. Ma la stessa croce portata da Bersani nel corso della campagna elettorale – alleanza con Vendola, però appoggiando Monti, magari in vista di un governo con Monti, però appoggiato da Vendola – sembra tornare a pesare nuovamente tutta intera sulle spalle del segretario, ben oltre il tentativo in corso.

Le croci, si sa, sono conficcate nel cuore del presente, ma ce ne vuole – e come! – per fare come Hegel, il padre nobile di ogni idea della politica come mediazione: per riuscire cioè a godere della ragione come della rosa che fiorisce nella croce, e concilia con la realtà. La conciliazione, la risoluzione delle contraddizioni sembra parecchio lontana dallo spuntare salvifica nel bel mezzo della crisi. Pare anzi che esse si facciano anche più aperte e laceranti, e che le parole pronunciate da D’Alema all’indomani della sconfitta del 2008, a proposito del Pd come «amalgama mal riuscito», tornino a pesare come una maledizione sui democratici.

In realtà, ogni grande partito ha sempre un’articolazione plurale al suo interno, e almeno una maggioranza e una minoranza, se e finché è per l’appunto un partito, e non un movimento o un popolo. Ma allora non deve mancargli neppure quella ragione in più che consente di contenere le differenze entro un unico progetto politico. Per esempio: la funzione nazionale che il partito punta ad avere. Oppure il ruolo di sistema che svolge all’interno del quadro politico. O, ancora, la visione del mondo – quella che un tempo si chiamava ideologia. Ma che succede quando questi elementi impallidiscono, quando i partiti perdono i loro fondamenti ideologici (com’è accaduto dopo l’89), quando il sistema politico perde la sua stabilità (come è accaduto dopo il ’92, e accade nuovamente adesso, col successo del movimento cinque stelle) e quando persino la funzione nazionale fatica ad essere riconosciuta, dal momento che quella funzione deve oggi essere reinterpretata in una cornice europea?

I numeri, certo, non aiutano Bersani. E mostrano tutti i limiti della «ditta». Ma al contempo coprono anche la difficoltà,mpiù profonda dello stesso insuccesso elettorale, di far fronte ai tre interrogativi in risposta ai quali soltanto si giustifica l’esistenza di un partito. La stessa linea politica ne dovrebbe discendere, invece di essere il filo faticosamente tessuto tra un colloquio e una dichiarazione di questo o quell’esponente democratico. Le stesse divergenze programmatiche, che pure ci sono e investono aspetti non secondari di una possibile azione di governo, vengono dopo. Che Bersani non possa tuttavia non incominciare da quelle, nella speranza di cucire insieme una maggioranza, per un verso è inevitabile, per altro verso è già l’ammissione implicita che tutti gli altri spazi della mediazione politica si sono consumati. E Bersani o non Bersani, non sarà facile al Pd, riaprirli.

Il MessageroIl Matino, 26 marzo 2013

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