Archivi tag: Mussolini

Il partito trasversale dei guastatori a tutti i costi

afro-demolizioni-1939

Afro, Demolizioni (1939)

Volano parole grosse. È oltre i limiti della democrazia, protesta preoccupatissimo Roberto Speranza, per conto di Mdp. Solo Mussolini aveva fatto cose simili, urla Di Battista. Così che davvero l’ordinamento democratico della Repubblica pare messo in pericolo dall’iniziativa del Pd, fatta propria dal governo, di mettere la fiducia sul testo della nuova legge elettorale all’esame della Camera. Una decisione politicamente impegnativa, che arriva sul finale della legislatura, ma che non piomba sul Parlamento come un fulmine improvviso scagliato da un dio iroso, bensì come l’ultima possibilità di dare all’Italia un sistema di voto accettabile, essendo naufragati tutti i tentativi esperiti finora. Prima l’incostituzionalità del porcellum, poi l’incostituzionalità dell’italicum, quindi il naufragio del tedeschellum (o teutonicum, che dir si voglia), in mezzo i propositi variamente assortiti, e tutti abortiti, di tornare al mattarellum: tutta questa profusione di latinorum dimostra senza dubbio alcuno la difficoltà del Parlamento italiano di dare un assetto stabile, convincente e soprattutto condiviso alle regole elettorali.

Se spingessimo più indietro lo sguardo, non daremmo un giudizio diverso. La famosa legge-truffa, fortemente osteggiata dal partito comunista, passò, a suo tempo, col voto di fiducia. E a metterlo quella volta non fu il Duce, come forse pensa Di Battista, ma un certo Alcide De Gasperi. Passano gli anni, e sul finire della prima Repubblica torna alla ribalta la questione elettorale. Ma a dare la scossa non fu certo il Parlamento, bensì un referendum popolare, quello promosso da Mario Segni sulla preferenza unica. Insomma, è giusto rivendicare il carattere squisitamente parlamentare della materia elettorale, ma è onesto riconoscere la difficoltà sempre incontrata all’interno del Parlamento, dalle proposte legislative di riforma in questa materia. Così come sarebbe altrettanto onesto rilevare che il rosatellum attualmente in discussione, l’ultimo latinorum della serie, ha un appoggio politico ampio. Anche se per ovvie ragioni né Berlusconi né Salvini voteranno la fiducia al governo, c’è intesa sulla legge. Il che non era, e non è, affatto scontato.

Questo significa che, oltre ai centristi, tre fra le maggiori forze politiche, di maggioranza e di opposizione, condividono l’impianto della legge. La quarta, i Cinquestelle, è invece sulle barricate. Ma come si fa a dimenticare che hanno qualche responsabilità nel naufragio del precedente tentativo, questa estate, di approvare una legge elettorale sul modello tedesco? Grillo, sul sacro blog, difendeva l’accordo, ma la base ribolliva di rabbia contro quella “cagata di legge elettorale”. E così, alla prova dell’Aula, con la consueta gragnuola di emendamenti, l’accordo non ha retto, e i voti grillini sono mancati. Il solito palleggio di responsabilità tra maggioranza e opposizione ha in seguito intorbidato le acque, ma a nessuno è parso, nelle settimane successive, che Grillo e compagni volessero rimettere mano alla legge. Tutt’al contrario. Ai Cinquestelle il sistema proporzionale partorito con le decisioni della Consulta sta più che bene, perché non gli mette al collo il cappio della coalizione. Posizione legittima, ma che difficilmente può tirare il Paese fuori dalle secche. Promette anzi di lasciarcelo chissà per quanto.

La situazione, vista dal lato del partito democratico, è invece la seguente: assumersi la responsabilità di approvare il rosatellum ricorrendo alla fiducia per evitare l’ennesimo fallimento, oppure alzare bandiera bianca, e consegnare definitivamente il Paese all’ingovernabilità?

Certo, le alternative non si presentano mai così nettamente. Hanno le loro sfumature. È chiaro che il ricorso alla fiducia punta a bypassare malumori e dissensi che attraversano sia il Pd che Forza Italia. È vero pure che anche il rosatellum non garantisce maggioranze stabili: la quota uninominale prevista difficilmente porterà l’uno o l’altro schieramento fino al 50,1%. Ma cosa c’è dall’altra parte? Che cosa motiva il rifiuto della legge da parte dei Cinquestelle, o da parte di Mdp? C’è, da parte loro, l’indicazione di un’alternativa praticabile? Allo stato, no. Allo stato, c’è solo la marea montante della polemica, portata spesso al di sopra delle righe, e condotta non in nome dell’interesse generale, ma dell’interesse proprio. Per quale motivo, infatti, non sarebbe nell’interesse generale del Paese introdurre un terzo di collegi uninominali che spingono le forze politiche a coalizzarsi fra loro, gli altri due terzi rimanendo proporzionali? Non si capisce. Mentre si capisce benissimo perché né i grillini, né quelli di Mdp vogliono il rosatellum: perché non fa al caso loro (mentre fa al caso di quegli altri).

Ora, ci si può dolere che la disputa sulla legge elettorale non si elevi dalla contingenza politica del momento. Ma questa doglianza riguarda tutti i partiti, nessuno escluso. Resta però che col rosatellum si fa almeno un passo in avanti nel senso della governabilità, e soprattutto si produce una legge forte del più largo consenso finora disponibile in Parlamento. Né ce n’è un altro. E, di questi tempi, trovare una maggioranza larga che assume su di sé il peso di una decisione politica per tirare il Paese fuori dallo stallo in cui si è cacciato dopo la bocciatura del referendum costituzionale, non è cosa da poco. Anzi è tanto, e sarebbe sbagliato buttarlo via.

(Il Mattino, 11 ottobre 2017)

I cittadini e il corpo del leader

endgame

Un lieve malore, la coronografia, l’intervento di angioplastica, il decorso post-operatorio al Gemelli di Roma: fra qualche giorno il premier Paolo Gentiloni lascerà l’ospedale e potrà tornare al lavoro, forse già da lunedì prossimo. Non si è trattato, per fortuna, di un problema serio e non c’è motivo di drammatizzare. Il Presidente del Consiglio può fin d’ora ricevere visite, parlare al telefono, studiare dossier. Gli auguri che ha ricevuto da tutto il mondo politico dimostrano la simpatia con la quale è stata seguita questa disavventura, capitata all’inizio di un’esperienza di governo che si presenta politicamente fragile, e di cui dunque le condizioni di salute di Gentiloni hanno, per qualche momento, rischiato di fornirne una sfortunata metafora.

Ma il legame fra il corpo del Capo e la scena pubblica non ha un carattere soltanto accidentale. Un celeberrimo studio di Erwin Kantorovicz sui «due corpi» del Re ha indagato il modo in cui il pensiero politico-giuridico occidentale ha costruito, in prima età moderna, l’idea (e la simbologia) di una doppia persona del Re, dotato di un corpo naturale – che si ammala, invecchia, muore o viene ucciso – e di un corpo politico – incorruttibile, angelico, immortale – capace di assicurare la continuità della funzione sovrana. Il modello offriva insieme distinzione e unità: la distinzione metteva al riparo l’unità politica dalle vicissitudini della vita individuale e storica; l’unità circondava la persona del Re di un’aura quasi sacrale.

La persistenza della figura monarchica nell’immaginario politico occidentale è legata proprio a questa capacità di rendere visibile, concentrato in un punto, il grande mistero dell’unità della società (che noi continuiamo peraltro a pensare come un «corpo» sociale, per l’appunto: in continuità, quindi, con questa tradizione).

Nel frattempo però c’è stato l’illuminismo, la grande razionalizzazione del mondo occidentale e il suo progressivo disincantamento: come dicono i sociologi. Cosa resta allora di quel modello?

A giudicare da come reagiamo alle notizie che riguardano la salute dei leader politici qualcosa resta. E anzi, con l’accentuazione dei tratti personali dell’esercizio del potere politico, così caratteristica dell’attuale fase storica, non solo qualcosa resta, ma qualcosa torna nuovamente a imporsi. La crescente spettacolarizzazione della politica ha riportato in primo piano il tema del corpo del Capo: che si tratti della straordinaria fotogenia di Barack Obama o della rappresentazione machista che di sé offre Vladimir Putin, non vi è dubbio che la cura dell’immagine sia un aspetto essenziale delle dinamiche del potere contemporaneo.

Il leader, dunque, ha di nuovo un corpo. Siccome però non sono più disponibili investiture dall’alto, sacre unzioni e altre forme di legittimazione di tipo tradizionale, gli è indispensabile costruire in altro modo la sua seconda natura, un corpo quasi «mistico» che copra e rivesta le funzioni ordinarie legate alla natura meramente fisica del corpo. Siccome non ci sono più scettro mantello e corona a rappresentare la regalità, ci vogliono allora un make up a regola d’arte, vigoria fisica e, magari, un tocco di glamour. Con le dovute eccezioni, si capisce. Ma se proprio non si dispone di bella presenza comunque non è possibile mostrare al proprio elettorato fragilità e debolezza. La centralità del valore della salute nell’immaginario collettivo fa il resto.

La malattia manda in frantumi questa costruzione. Perché il corpo mistico del Re – cioè del Capo – non è venuto meno, ma non sta più su un piano mitico-sacrale, bensì su uno squisitamente estetico. Dunque la malattia lo minaccia. E a meno di non riuscirla a trasfigurare in senso spirituale (come Giovanni Paolo II) la strategia ordinaria del politico – o dei suoi seguaci – consiste nel negarla, nel nasconderla, nel minimizzarla.

Proprio in questi giorni di gennaio, ventisette anni fa, la malattia fece irruzione sulla scena politica italiana. Non che il tema del corpo non avesse profondamente segnato la nostra storia politica – dal corpo virilizzato del Duce, oggetto di fanatismi e oltraggi, a quello straziato di Aldo Moro, assurto a simbolo di una tragedia collettiva – ma con l’improvvisa malattia di Bettino Craxi, ricoverato per una decina di giorni a Milano in una ridda di voci, indiscrezioni, interpretazioni le più diverse e confuse, accadeva forse qualcosa di diverso: era infatti la prima volta, in Italia, che la malattia minacciava un carisma politico. Lo dimostravano proprio le difficoltà dell’opinione pubblica di tenersi a un resoconto distaccato e obiettivo, le incertezze sull’entità e la natura stessa della malattia, le strategie di rassicurazione messe in atto da amici e compagni. L’aria di segretezza non poteva però essere semplicemente dissipata: non solo o non tanto perché bisognava ridurre la malattia a poca cosa, ma perché, soprattutto, non si poteva offrire una piatta stenografia del decorso ospedaliero nei suoi termini prosaici, meramente medico-sanitari. Oggetto della narrazione non sarebbe stato più, infatti, il corpo magnetico, quasi soraumano, del Capo.

Craxi uscì dall’ospedale il 13 gennaio 1990. Forse anche Gentiloni uscirà il 13, o magari due o tre giorni dopo. Di sicuro, però, questa volta la laicizzazione ha funzionato: si è trattato di scongiurare l’ostruzione di vasi sanguigni, e di nient’altro.

(Il Mattino, 13 gennaio 2017)

Chi ha paura (e disprezzo) della politica

A turkey looks around its enclosure at Seven Acres Farm in North Reading

È possibile che nel falò del 4 dicembre si bruceranno molte ambizioni. Se avesse ragione l’Economist, che ieri ha provato a ragionare sul significato del voto referendario e i possibili scenari futuri, è l’intera classe politica italiana che dovrebbe, se non bruciarsi, almeno farsi da parte, per lasciare spazio ad un «governo tecnico ad interim». L’autorevole settimanale britannico, schierandosi per il no al referendum, sostiene che la riforma costituzionale darebbe troppo potere al futuro premier. Giudizio discutibile, naturalmente, ma ancor più discutibile è il paradosso che l’Economist ne ricava. Che cosa succederebbe infatti, se a riforma approvata, gli italiani votassero Grillo alle prossime elezioni? Il timore che la riforma targata Renzi possa fare il gioco dei Cinquestelle spinge il giornale a suggerire la soluzione tecnica: per timore di un ribaltamento degli istituti della democrazia liberale, ad opera dei grillini, si suggerisce di cominciare subito con una specie di commissariamento soft, una sorta di prudente sospensione più o meno concordata, magari etero-diretta da Bruxelles.

Una simile logica è in reale proprio ciò che tiene lontana l’Unione europea dai cittadini. Perché l’argomento dell’Economist consiste in sostanza nel chiedere di sterilizzare gli effetti del pronunciamento elettorale: proprio come si continua a fare, nel tentativo di far passare in Europa riforme che si giudicano al contempo necessarie ma impopolari. Il populismo, in questo schema, è lo spauracchio, ma è anche il contraccolpo dell’ostinazione con la quale nelle capitali europee di perseguono politiche che non sono in grado di conquistare il necessario consenso.

La cosa notevole è però che questa volta è il sì il risultato da sterilizzare. È evidente, infatti, che la deriva autoritaria è un pericolo sovrastimato: l’Economist cita (e mette sgradevolmente sullo stesso piano) Mussolini e Berlusconi, ma sono paragoni del tutto privi di senso storico. Tanto Mussolini quanto Berlusconi arrivano alla guida del governo per la debolezza del sistema politico e istituzionale, e non già perché l’assetto costituzionale del paese ha tolto le garanzie e i contrappesi, facendo spazio all’uomo forte. Nel caso di Berlusconi, poi, era tanto poco forte la sua condizione che nel ’94 il suo primo governo cadde dopo pochi mesi. Dunque il raffronto storico è del tutto improponibile e va rovesciato: è la debolezza che apre la strada, se mai, a soluzioni autoritarie, non già il rafforzamento delle istituzioni.

Perciò la preoccupazione del settimanale sembra avere un altro senso, e cioè che il sì alla riforma metta in circolo troppa energia politica. Per il prudente e tecnocratico establishment dell’Unione è una condizione con cui è meglio non misurarsi.

Ma chi utilizzerà questa energia, sgombrato il campo dai timori per la democrazia (che spingono per paradosso – come si è visto – a mettere tra parentesi la democrazia): ecco ora il tema. Negli ultimi giorni, si è fatto sempre più chiaro che una parte decisiva sul risultato finale può giocarla il Mezzogiorno, e la Campania in particolare. Se tutta l’attenzione si è concentrata sulle esternazioni di De Luca, al di là dei toni esorbitanti, una ragione c’è. La Campania può essere veramente l’ago della bilancia. È come se sui due piatti stessero da una parte il governatore campano, e dall’altra quello della Puglia. Il sì e il no possono decidere chi dei due peserà di più. In gioco c’è sicuramente la rappresentanza delle ragioni del Sud, ma c’è anche il partito democratico e gli equilibri di tutto l’arcipelago della sinistra. È in vista di quei futuri, nuovi equilibri, che a Napoli si avvicinano a De Magistris pezzi del bassolinismo, la Cgil, i dalemiani: tutto quello che può essere manovrato contro Renzi, insomma. Nella stessa prospettiva si muove anche Emiliano, che nella futura partita congressuale proverà a giocare da principale antagonista di Renzi. Tutt’altro scenario si disegna se invece sarà il sì a prevalere, e De Luca a determinare il risultato con il voto campano. I piccoli fuochi si spegneranno, e si aprirà una fase diversa, incentrata sull’asse preferenziale fra il premier e il governatore. Questo è ovviamente solo una parte del significato che avrà il voto del 4 dicembre. Ma è una parte non piccola, perché, al di là dei futuri meccanismi elettorali o del nuovo ordinamento istituzionale, imprimerà un segno forte anche al sistema politico italiano.

(Il Mattino, 25 novembre 2016)