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Perché negare i luoghi comuni non la camorra

1Contestare l’espressione usata da Rosy Bindi per denunciare la presenza camorristica a Napoli tutto vuol dire meno che sminuire il fenomeno, o addirittura negarlo. Invece, il Presidente della Commissione Antimafia ha ribattuto alle critiche in questi termini. Al primo sproposito ne ha dunque aggiunto un altro: prima ha detto che la camorra é un dato costitutivo di Napoli, poi ha tacciato i suoi critici di negazionismo. Come se solo sparandola grossa si dimostrasse consapevolezza del problema. Eppure è semplice: se la camorra fosse costitutiva della città, della società napoletana, vorrebbe dire che Napoli non sarebbe Napoli se la camorra non fosse in città. Si scelgano gli esempi che si vogliono più appropriati, per una rapida istruzione sull’uso della parola: la laguna è costituiva di Venezia, nel senso che Venezia non sarebbe la stessa senza i suoi canali. Né lo sarebbe Roma senza il Colosseo, o senza la presenza della Chiesa cattolica nella sua storia.
Ma si può provare anche così: forse che Napoli sarebbe la stessa senza la lingua napoletana? Certo che no: la lingua napoletana, e la cultura che in essa si esprime, sono dunque costitutivi della città. Ecco cosa si vuol dire: togliete a Napoli la sua lingua e l’avrete resa irriconoscibile, amputandola di una parte fondamentale della sua identità.
Orbene: si vuol dire lo stesso della camorra? Che Napoli cioè perderebbe un pezzo della sua identità il giorno in cui fosse definitivamente sconfitta la camorra? Che perciò i napoletani si trovano di fronte all’aspro dilemma: o restano se stessi, e allora devono imparare a convivere con la camorra, oppure debbono inventarsi un’altra storia e un’altra identità, se vogliono liberarsi per davvero della criminalità organizzata?
Questo basta per l’uso delle parole, gli infortuni linguistici e le pezze peggiori del buco. Ma perché Rosy Bindi ha insistito, è ritornata sulle sue parole, non ha chiesto scusa e anzi ha rincarato la dose? Non è certo solo per una questione di orgoglio, o per evitare una figuraccia. Tant’è vero che a darle man forte è intervenuto pure il procuratore nazionale Antimafia, Franco Roberti. Anche per lui, non devono far scandalo le parole del Presidente Bindi, ma casomai la reazione che hanno sollevato. Negare infatti che la camorra sia un elemento costitutivo della società napoletana significa «non guardare in faccia la realtà». E se non si può negare che le mafie siano elemento costitutivo della società vuol dire che chi invece lo nega è un negazionista – parola che, ricordiamolo, si usa per indicare non un mero errore, ma una deliberata e infamante disonestà intellettuale.
E invece la prima regola del confronto di idee è rispettarle tutte. Cosa che si fa – sia detto incidentalmente – ospitando sullo stesso giornale opinioni anche difformi, come il Mattino non ha mancato di fare; cosa che invece si fa meno, tacciando l’interlocutore di negazionismo.
Perché però accade questo? E soprattutto perché non è sufficiente una semplice messa a punto del vocabolario, per dirimere la questione? In fondo basterebbe replicare che per «approntare gli interventi strutturali» necessari a contrastare la camorra bisognerebbe evitare di considerarla parte del paesaggio naturale della società napoletana. Per suscitare le migliori energie politiche, morali e civili bisognerebbe cioè dire esattamente il contrario di quanto si è venuti dicendo: che nessuna legge storica o sociale, men che meno antropologica o biologica, condanna i napoletani a vivere in mezzo all’illegalità e al malaffare. C’è uno slittamento inavvertito fra il dire che la camorra fa parte della società napoletana, che è un dato sociologico, e il dire che non può non farne parte. Che è invece una legge d’essenza: un dato costitutivo, appunto.
Ma daccapo: perché si produce questo slittamento? Per difetto di logica? Possibile, ma non probabile. Più probabile è che in queste posizione si esprima una certa cultura dell’emergenza, per cui non è mai abbastanza quanto è scritto nelle leggi, quanto è previsto dalle pene, quanto è possibile agli inquirenti. Una ideologia dell’inasprimento, potremmo chiamarla, parente stretta di quel populismo penale che per principio esulta quando è elevata una pena pur che sia, quando è introdotta una nuova figura di reato, quando è prolungato un termine di custodia.
Chi d’altra parte, invece di inasprire, si potrebbe mai proporre di attenuare? In verità, si dovrebbe dire piuttosto garantire, e non solo inquisire, ma daccapo: chi può permettersi di dirlo, senza rischiare imperiose squalifiche morali?
Forse, l’unica maniera per dirlo sarebbe appunto parlare in nome di quella società sana, viva, pulita, che non accetta di essere criminalizzata in blocco.
Se invece il crimine e la camorra non fossero solo un problema serio, drammatico, ma fossero addirittura un dato costitutivo di Napoli, allora questa via sarebbe preclusa, questa parola sarebbe zittita, e non vi sarebbe altra strada che quella che passa attraverso giudici e tribunali.
E invece altre strade ci sono, o perlomeno non bisogna smettere di cercarle lì dove possono e devono essere tracciate: nella politica e nella società. Rosy Bindi forse non le conosce, e conosce solo la Napoli costituita dalla camorra. Si può dunque sostenere, senza negare alcunché, che la camorra è costitutiva solo della conoscenza che Rosy Bindi ha di Napoli.

(Il Mattino, 17 settembre 2015)

Che tempo che fa? Lo stesso

Schermata-2015-04-19-alle-21.33.56-620x381Fossero stati napoletani non ci sarebbe stata notizia: i napoletani non hanno forse distrutto mille e mille volte la fontana di piazza Navona? Se quindi l’avessero fatto per l’ennesima volta, in occasione della partita Roma-Feyenoord, nessuno si sarebbe preso la briga di commentare. Non certamente Luciana Littizzetto, la quale invece si è sentita in dovere di sottolineare il pungente paradosso, il flagrante ossimoro, l’innegabile contraddizione. Il mondo alla rovescia! I «civilissimi olandesi» che danneggiano la barcaccia di Piazza Navona, «mica i napoletani»! Eh già, perché la Littizzetto ha detto proprio così: «mica i napoletani», come se davvero i napoletani passassero i loro weekend calcistici a Roma, a mettere a ferro e fuoco la città. O come se si dovessero prendere a unità di misura dell’inciviltà e del teppismo da stadio. E, si badi, non è una barzelletta – nello stile: un tedesco un francese e un napoletano – ma è la conduttrice, attrice, scrittrice, nonché umorista Luciana Littizzetto dalla trasmissione col più alto tono intellettuale della Rai, «Che tempo che fa» di Fabio Fazio.

La trasmissione va in onda da una decina d’anni, ed è comprensibile che subentri quindi una certa stanchezza. A qualcuno, in effetti, dieci anni possono sembrare troppi: dieci anni di seguito in tv, nella stessa trasmissione, è roba di cui non hanno goduto né Walter Chiari né Raimondo Vianello, non Renzo Arbore e non Corrado Mantoni, per citare qualcuno che pure ha fatto la storia della televisione italiana. Ma in una bella intervista di qualche tempo fa Fabio Fazio spiegò che in realtà il suo modello televisivo era quel David Letterman che col suo show negli Stati Uniti di anni ne ha trascorsi trenta e più, e dunque perché non provarci anche in Italia? Questa cosa di Letterman Fazio l’ha spiegata così: da lui vanno a parlare tutti, persino Obama, e Obama va lì non per commentare i fatti del giorno o per vedersi aggredire dalle domande di un cronista d’assalto, ma per «parlare e basta». Letterman è capace di tenersi Obama in studio a parlare cinque minuti dello shampoo per i capelli e di nient’altro: un «lusso clamoroso», mentre da noi passerebbe subito per reticenza e complicità coi potenti. E così Fazio risponde alle critiche di chi trova troppo sussiegoso il suo modo di fare tv, troppo da salotto fra amici, troppo liscio e levigato, sempre intelligente il giusto, ironico il giusto, indignato il giusto. Gli piace la televisione bene educata, gli piace mettere a suo agio l’interlocutore, gli piace ammiccare, far cenni d’intesa, e, quando ci vuole, mostrare una punta di compunzione. I latini dicevano: castigat ridendo mores. Ma a lui di infliggere castighi non va, e anche il ridere è forse di troppo. Meglio, piuttosto, piccoli sorrisetti e simpatiche ramanzine.

Poi però si fa una certa, come dicono i romani, e arriva la Littizzetto. Tutto il gioco sottile di sfumature, tutta la levità e il «lusso» à la Letterman devono allora cedere il passo alla libertà assoluta di sghignazzare del comico. E con chi se la prende, allora, l’acuta satira della Littizzetto? Con i napoletani, con chi sennò? Anche il salotto più elegante, dove si pratica la più civile arte della conversazione, cede così allo stereotipo, al pregiudizio, al razzismo strisciante di chi un napoletano di Napoli forse nemmeno se lo vorrebbe vedere seduto accanto. Uno che fosse abbastanza verace, abbastanza franco, abbastanza impaziente da non sopportare le finte schermaglie in punta di fioretto di Fabio Fazio. A volte qualcuno del genere passa di lì – come per esempio Sabrina Ferilli, qualche settimana fa – qualcuno che invece di sorridere sbuffa, e invece di stare al gioco mostra vistosi segni di insofferenza, ma è solo una puntata andata storta: poi tutto torna nelle regole. La televisione, del resto, rumina ogni cosa. Lo stesso presumiamo che accadrà con l’infelice battuta della Littizzetto. Ci tornerà su: Fazio sfumerà, smusserà, vezzeggerà, e rimetterà ordine sulla sua scrivania. Magari si potrà osservare che ci sono tanti napoletani che non sembrano di Napoli, e che una volta se ne è addirittura incontrato uno, dal vivo. Magari qualcuno confesserà di essere stato perfino in vacanza a Napoli, e di avere, cose da pazzi, uno zio materno originario dell’hinterland.

Ma questo è tutto: a mettere a soqquadro un po’ di cose, a gettare via qualche maschera di conformismo (non solo politico, ma anche giornalistico, musicale, editoriale), a far vedere davvero il mondo alla rovescia non aspettatevi mai che sia Fabio Fazio. Un bel quadro, un bel libro, un bel film: e che siano quelli da classifica, s’intende. Ma che un tempo la bellezza fosse solo l’inizio del tremendo, beh: sussurratelo piano a Fazio, potrebbe rimanerci troppo male.

(Il Mattino, 21 aprile 2015)


Scuse

Caro Direttore,

nell’articolo di ieri, in cui stigmatizzavo l’infelice battuta uscita a «Che tempo che fa» dalla bocca di Luciana Littizzetto, la quale in trasmissione si stupiva che a devastar monumenti in giro per Roma fossero stati «civilissimi olandesi, mica i napoletani», ho collocato per un lapsus la celebre fontana, fatta oggetto dell’aggressione teppista e violenta dei tifosi del Feyenoord, nella piazza sbagliata: non cioè a piazza di Spagna, dove si trovava fino a poco tempo fa indisturbata, ma a piazza Navona, dove io mi sono preso il disturbo di sistemarla. Chiedo scusa per la svista. Spero solo che, essendo napoletano (o quasi) questo renda comunque meno probabile che io devasti la fontana in futuro, dal momento che si può dimostrare come io non sappia nemmeno dove essa si trovi. In ogni caso sono pure filosofo (o quasi): luogo comune per luogo comune, si sa almeno quanto i filosofi siano irrimediabilmente sbadati e distratti. E, per una volta, caro Direttore, le chiedo di usare un inveterato preconcetto a fin di bene, e di scusarmi.