Archivi tag: napoli

Se l’archiviazione si trasforma in mezza condanna

Gian_Maria_Tosatti_4_Ritorno_a_casa_2015_4

L’avviso di garanzia. Poi il chiasso mediatico, le paginate dei giornali. E le indagini, e i supplementi di indagine, che a volte si chiudono con un rinvio a giudizio, molte altre volte no. Infine le sentenze di condanna, che però sono ancora di meno, e quasi sempre vedono sensibilmente ridimensionate le ipotesi accusatorie iniziali.

Così è andata anche nel caso della direttrice generale del Santobono, Annamaria Minicucci: l’avviso di garanzia le arriva per un presunto suo coinvolgimento in nomine che avrebbero soddisfatto appetiti criminali; il suo nome finisce sui giornali insieme all’ipotesi di legami con la camorra; l’inchiesta si abbatte su manager pubblici della sanità campana, suscitando scalpore, ma anche molti giudizi sommari. Un anno e mezzo dopo lo scenario è radicalmente diverso. Per la Minicucci è disposta l’archiviazione: non c’è nemmeno bisogno del processo. L’inchiesta va avanti per altre posizioni, ma il bersaglio grosso è mancato.

O forse non lo è: perché un’archiviazione che arriva a distanza di un anno e mezzo è comunque una mezza condanna, per l’indagato. Che non vede intaccata solo la sua reputazione, ma anche indebolita la sua stessa azione amministrativa, come ha raccontato la dottoressa Minicucci su questo giornale: come si fa a bandire altre gare, a stringere accordi con i sindacati e a gestire l’intera struttura organizzativa quando grava su di te l’ombra pesante di collusione con la camorra?

Ora, è chiaro che rientra nella fisiologia dell’attività di indagine, così come dell’ordinario svolgimento processuale, che non tutti gli indagati vengano rinviati a giudizio, e che non tutti gli imputati vengano condannati. Ma le dimensioni del fenomeno sembrano suggerire altro. Che vi sia cioè del metodo in questa follia. Perché infatti tenere nel cassetto un avviso di garanzia, quando si può dare maggiore visibilità e clamore all’indagine? Perché non sparare comunque, una salva di avvisi a raffica, tanto qualcosa alla fine rimarrà comunque impigliato nella rete della giustizia? L’avviso, del resto, è a tutela dell’indagato, che deve essere informato dell’attività investigativa che si svolge sul suo conto: è a fin di bene. Poi però accade esattamente il contrario. L’indagato è molto più spesso rovinato che non tutelato dall’avviso di garanzia, e la distanza temporale dalla prima notizia sull’ennesimo caso clamoroso dilata a dismisura il fumus di colpevolezza, che dura giorni e settimane e mesi, mentre l’informazione che molto tempo dopo accompagna l’archiviazione o l’assoluzione regge, se va bene, un solo giorno sui giornali.

Si vogliono con questo fermare le indagini, mettere le briglie ai pubblici ministeri, gridare «tana, liberi tutti»? Vogliamo insomma fare un favore ai ladri, prendendocela con le guardie? No, vogliamo due cose. La prima: che si prendano sul serio i numeri della giustizia, soprattutto quelli che riguardano l’abnormità delle sue fasi preliminari e cautelari, perché non siano più gestiti nei termini odiosi di una pena anticipata. La seconda: che buttar lì un avviso di garanzia, tanto poi si vedrà, non sia la prassi degli uffici giudiziari, in nome di un meccanico ossequio all’«atto dovuto». C’è voluta – due mesi fa – una circolare di Pignatone, il capo della procura di Roma, per richiamare a una maggiore sobrietà nell’uso dello strumento, soprattutto quando esso dispiega i suoi effetti, ben prima di qualunque serio accertamento, sulla vita pubblica. Ma una circolare non fa primavera, e ogni volta pare di stare daccapo.

«Ho sempre continuato a lavorare, anche dopo l’avviso di garanzia», ha dichiarato la dottoressa Minicucci, dando involontariamente alle sue parole il senso di un’impresa quasi eroica, come se restare al proprio posto, dopo l’apertura delle indagini, significasse farlo se non a dispetto dei santi, certo contro i sentimenti di un’opinione pubblica rancorosa, che manderebbe tutti in galera alla prima notifica di una Procura (cosa che purtroppo molto spesso i pm sanno bene, e non fanno nulla per scoraggiare). Ma io mi domando: che Paese è quello in cui diviene eroico quello che dovrebbe essere semplicemente normale?

(Il Mattino, 22 dicembre 2017)

La sfida: tornare una vera comunità

Risultati immagini per Napoli Iodice mimmo

A distanza di un mese, la fotografia del partito democratico che è restituita dal voto congressuale è chiara: in città vince Nicola Oddati; in provincia, è invece davanti il neo-segretario Costa. La frattura non potrebbe essere più netta. E non potrebbe rendere più acuto il paradosso di un partito guidato da un segretario in minoranza in tutti i quartieri della città, dal Vomero a Poggioreale. Il suo lavoro comincia subito in salita, dunque – se comincia, perché il contenzioso sull’esito del congresso aperto dinanzi alla magistratura è ancora in piedi.
Le elezioni, d’altra parte, sono alle porte, e non è ben chiaro come il Pd arriverà al cruciale appuntamento. Non è ovviamente in gioco solo la formazione dei gruppi dirigenti, ma anche, anzi soprattutto, la selezione delle candidature. Che non verrà affidata alle primarie, come nel 2013, ma alle decisioni dei vertici, e dunque il tema della loro legittimazione è decisivo. E però può succedere di tutto: che si arrivi al giudizio del Tribunale; che il congresso finisca gambe all’aria; che il risultato ne venga confermato; che con uno scatto di improvvisa ragionevolezza si riesca a trovare un accordo che eviti il provvedimento del giudice.
Ma non c’è solo il Pd. O per meglio dire: la fotografia del voto democrat può essere presa come un’indicazione più generale, che viene confermata a Napoli come altrove: che cioè la città e il suo hinterland viaggiano ormai lungo linee divergenti. Un libro di Pareg Khanna, “Connectography”, ha di recente tracciato la mappa del mondo a partire dalle città: sono le città, infatti, che trainano il mondo,  sono le città i nodi reali dell’economia globale. Le città e non gli Stati, la cui funzione regolatrice ed equilibratrice mostra ormai la corda. Le città però dovrebbe significare: le aree metropolitane e il loro retroterra, sempre più connesse funzionalmente e simbolicamente con i capoluoghi.
Napoli però è molto lontano da questo modello di sviluppo. La separazione fra città e provincia dovrebbe essere ricucita dalle istituzioni dell’area metropolitana, ma le istituzioni dell’area metropolitana non hanno ancora cominciato a funzionare. Napoli e l’area vasta non viaggiano affatto all’unisono, né socialmente né politicamente. E anche nel partito democratico si riproduce la spaccatura, non solo nell’espressione del voto ma anche nelle condotte politiche: in città il Pd tiene un atteggiamento intransigente nei confronti di De Magistris e conduce un’opposizione senza sconti; in provincia, invece, tiene un atteggiamento ufficialmente “responsabile” e non disdegna accomodamenti con il Sindaco.
È difficile capire, in queste condizioni, che Pd sarà: un partito fieramente avversario del mondo arancione, che d’altra parte ha cercato in queste settimane un dialogo ravvicinato con la nuova formazione di sinistra, i Liberi ed Uguali di Pietro Grasso, oppure un partito disponibile al compromesso, in cambio di qualche quota di sottoporre nella gestione dell’ente metropolitano? Un partito in cerca di nuovi collegamenti con la società civile, o un partito dominato ancora dalle scelte dei capibastone? Un partito capace di interpretare le sfide della modernizzazione, delle forze più dinamiche della città, o un partito preoccupato di conservare quote sempre più residuali di consenso? Un partito capace di ritrovare il senso di una comunità politica, o un partito costretto ancora una volta a fare intervenire altre istanze per regolarne la vita interna, che si tratti di un giudice o di un commissario?
Non tutti questi dilemmi corrono ovviamente lungo la linea di separazione fra città e provincia, ma tutti però sono ostacolati, nella loro soluzione, da linee di divisione che si approfondiscono fino all’incomunicabilità, e che rendono difficile assegnare  al partito democratico il titolo di interlocutore affidabile per la costruzione di un progetto politico che coinvolga tutta la cintura partenopea.
Eppure non vi sarebbe altro modo di pensare la città, da parte di una classe dirigente all’altezza dei suoi compiti, se almeno si vuole che nelle mappe delle nuove connessioni globali compaia, in futuro, anche Napoli.
(Il Mattino, 18 dicembre 2017)

Se Roma decide per Napoli divisa

Napoli caos

“O si ripristinano le regole, o in qualità di presidente nazionale interesserò io gli organismi di garanzia a tutela del partito nazionale”. Dunque, secondo il Presidente nazionale del partito democratico, Matteo Orfini, nel pd napoletano le regole non ci sono, o non vengono osservate. Se fino a ieri era forse ancora possibile considerare regolare l’andamento a singhiozzo del congresso provinciale – mezzo celebrato mezzo no, una domenica sì e l’altra pure – oggi lo è molto meno, visto che regolare non appare nemmeno al presidente del partito. Purtroppo non è una novità: tra primarie annullate, primarie contestate , ricorsi al tribunale e commissariamenti di federazione, va così, ormai, da un buon numero di anni. Mancava la nascita del gemello diverso, e ora c’è pure quello, con Nicola Oddati che ieri ha tenuto a battesimo “Passione democratica”. Sigla: Pd. Che è come dire che del neo-segretario Costa, uscito vincitore dalla conta dimezzata delle settimane scorse, non c’è da parte di Oddati (e dei Cozzolino, Impegno, Marciano, Buonavitacola che lo hanno sostenuto) alcun riconoscimento. Ci sono invece le carte bollate, cioè la certificazione che il Pd partenopeo, allo stato, può essere definito in molti modi, ma non come una comunità politica. Si vedrà nei prossimi giorni se le parole forti di Orfini approderanno all’unico esito possibile in queste condizioni, cioè all’ennesimo commissariamento (sempre che non arrivi prima un giudice a decidere per tutti), ma una cosa è certa: un partito precipitato all’11% che si divive in due, come una mela, vede le sue chance di ripartire ridotte al lumicino.

Del resto, fare della materia del congresso la sua conformità alle regole è confessare implicitamente che altra materia, allo stato, non v’è.

Eppure ci sarebbe, e come se ci sarebbe. Nel Parlamento, il Pd si è fatto interprete delle richieste formulate dall’Anci di venire incontro ai comuni in predissesto. Tra gli emendamenti presentati a firma democrat ve ne sono alcuni che consentirebbero a De Magistris di tirare il fiato: di avere ulteriore accesso al fondo di rotazione per coprire debiti fuori bilancio, di allungare i termini di rateizzazione dei debiti erariali e previdenziali del Comune e delle sue partecipate, di utilizzare ulteriori anticipazioni di liquidità. Orbene, si può capire lo spirito diciamo pure istituzionale con cui l’Anci si è mossa, al fianco dei comuni sull’orlo del baratro (tra i quali c’è Napoli); un po’ meno si capisce come mai sia il Pd a farsene zelante interprete, spingendosi sino al punto di firmare emendamenti calzati su misura sui conti di Palazzo San Giacomo. Ancor meno si capisce l’annuncio del governo di voler intervenire a favore degli enti locali in predissesto: se questo significherà, per De Magistris, vedersi riconosciuta la possibilità di presentare un piano di equilibrio sostitutivo di quello sonoramente bocciato  non da un ragioniere di passaggio ma dalla Corte dei Conti (e per il sindaco sarebbe la salvezza, almeno sul piano formale), allora l’incomprensibilità sarà totale. Il Pd controlla infatti tutte le caselle: guida l’Anci, guida il governo, ha i suoi parlamentari che presentano gli emendamenti. L’unica casella che non compare in questo surreale gioco di sponda è quella napoletana. In consiglio comunale la occupa Valeria Valente, che però conduce, praticamente in solitaria, la sua battaglia di segno diametralmente opposto sui conti disastrati del Comune, ma la sua voce evidentemente non arriva a Roma. Cioè non arriva la voce del Pd napoletano, che invece di fare su questa roba un congresso, e prendere una chiara posizione politica, si attorciglia su se stesso, si dilania tra correnti, si consuma in diatribe senza fine.

Di cui, diciamo la verità, nulla o quasi arriva all’opinione pubblica. Che certo non vuol sapere come finirà la conta interna e chi deciderà le candidature al Parlamento (la vera posta in gioco nella estenuante lotta di potere in corso), ma qual è il profilo politico del partito democratico a Napoli. E conseguentemente qual è la posizione del Pd su De Magistris, e se e a quali condizioni dargli una mano: per salvare lui o per salvare la città? Per cambiarne gli indirizzi e condizionarne le politiche o per contrattare un po’ di sottogoverno?

Ma niente: l’oggetto del contendere sono le regole, le tessere, le date, le poltrone. E intanto Roma decide su Napoli senza alcuna reale interlocuzione con gli attuali dirigenti del Pd napoletano. Un giudizio più spietato sulla loro rilevanza non si potrebbe dare.

(Il Mattino, 24 novembre 2017)

 

E’ partito l’avviso di sfratto

Messerschmidt

Mozione di sfiducia per Luigi De Magistris. Firmata: Roberto Fico, Matteo Brambilla e il Movimento Cinquestelle. Dunque i grillini provano a fare sul serio anche a Napoli. E battono il loro primo colpo, da quando sono presenti in città, nel momento in cui massima è la difficoltà del sindaco di Napoli, e massima è anche l’eco del voto siciliano. Ci sono già state, è vero, le vittorie di Roma e Torino, ma quelle esperienze amministrative non hanno finora dato motivi di lustro particolari. La Raggi, a Roma, si sta rivelando un fallimento, e anche la Appendino, a Torino, dopo i primi mesi di luna di miele, comincia a sentire la fatica dell’amministrazione. Meglio dunque mettersi in scia del successo nell’isola. Anche se infatti è stato il centrodestra a spuntarla, il sentiment – come oggi si dice – è positivo e la sensazione che la ruota giri a favore dei Cinquesteĺle è forte.

Così, dopo anni di appeasement, anni in cui non si capiva se i grillini potevano considerarsi una proiezione nazionale degli umori espressi a Napoli da De Magistris, o viceversa De Magistris un precipitato locale di un fenomeno di rigetto della politica tradizionale già diffuso su scala nazionale, le cose sono infine venute a un chiarimento: Fico vuole candidarsi a sindaco di Napoli, i Cinquestelle non possono più accontentarsi di andare in scia. In realtà non era vera né l’una né l’altra cosa, Dema e Cinquestelle non sono sovrapponibili. Ma è chiaro che – date pure tutte le differenze – non possono esserci a Napoli due movimenti antisistema, due movimenti populisti, due formazioni in lotta contro tutti e tutto.

Il dado, dunque, è tratto. E il salto da Brambilla a Fico, quanto a peso politico, non è piccolo: nel 2016, il Movimento ebbe la bella idea di candidare contro De Magistris un volenteroso attivista, dal cognome inconfondibilmente settentrionale, oltretutto tifoso juventino: non proprio una scelta aggressiva. Così come non è stata finora aggressiva la condotta in consiglio comunale. Ma ora lo scenario è cambiato, il Movimento Cinque Stelle è il primo partito d’Italia, e a Napoli – ha spiegato Fico – «c’è la possibilità che la giunta salti». Bisogna allora farsi trovare pronti. L’annuncio di ieri, con la presentazione di una mozione di sfiducia per le condizioni in cui si trova il bilancio cittadino, e la richiesta di una «operazione trasparenza a salvaguardia del Comune e di tutti i cittadini napoletani» segna l’inizio delle ostilità.

De Magistris ha reagito abbozzando, provando a smorzare il significato dell’iniziativa, giudicando legittimo che una forza politica di opposizione «in un momento difficile per la città, provi a dare una spallata a sindaco». Il fatto è che per la città è un momento difficile, ma pure per il suo sindaco. Che avverte segni di scollamento nella sua maggioranza. Che intanto cerca di costruirsi un futuro politico oltre l’esperienza municipale. E che soprattutto si trova in una difficilissima impasse: ad ogni passo che fa in cerca di una soluzione istituzionale alle difficoltà amministrative e di bilancio in cui versa il Comune di Napoli, più fortemente sente l’insofferenza di un pezzo dei movimenti. E se viceversa continua a giocare alla rivoluzione, reclutando su Facebook «i combattenti nell’esercito popolare di lotta per i beni comuni», sente che gli si fa il vuoto istituzionale intorno. Ma quanto a lungo può funzionare scomodare la Costituzione e le lotte di popolo per l’accordo sul trasporto pubblico? Più alzi i toni, più in realtà misuri lo scollamento dalle fatiche quotidiane della città. Più ci dai dentro con la retorica, più dimostri tutta la stanchezza e l’affanno amministrativo.

Buon ultimi, i Cinquestelle si sono dunque messi a fare opposizione. L’onesto Brambilla rimane lì, a fare la sua figura da comprimario, e intanto scende in campo Roberto Fico (a cui peraltro Di Maio ha sbarrato la strada sul piano nazionale). Se le cose in tutta Italia arridono al movimento, perché Napoli dovrebbe fare eccezione? Finora, il solo motivo era rappresentato proprio dalla bandana di De Magistris. Se il vuoto della politica perdura, dopo l’arancione, non è forse possibile che invece dell’azzurro del centrodestra, o del rosso del centrosinistra, si arrivi al giallo limone dei grillini?

(Il Mattino, 7 novembre 2017)

Uexküll, l’etologo folle e geniale che scelse Napoli e Capri

Escher Still Life with Spherical Mirror 1934

M. C. Escher, Still Life with Spherical Mirror (1934)

«Vitalista tra i vitalisti, feroce idealista, kantiano – in realtà un nemico della scienza naturale. Ma, con quella doppia vita che spesso hanno i naturalisti di impostazione idealista, in fisiologia egli è anche il più preciso sperimentatore che si possa immaginare. Testardo fino a essere leggermente folle, geniale fino alla punta dei capelli», questo era, nel giudizio dell’amico Konrad Lorenz, padre dell’etologia contemporanea, il barone estone Jakob von Uexküll, che a lungo svolse la sua attività scientifica in Germania, ma poi anche nella Stazione Zoologica di Napoli, per spendere infine gli ultimi anni della sua vita a Capri. Il suo capolavoro (Biologia Teoretica, a cura di Luca Guidetti, Quodlibet, € 32, pp. 284) è stato presentato ieri alla Federico II di Napoli, che gli ha dedicato un impegnativo seminario. Al centro del pensiero di Uexküll è l’idea che ogni essere vivente ha il suo specifico ambiente: il mondo della zecca, o del riccio di mare, non è lo stesso di quello del mammifero, o dell’uomo. Ogni specie ha il “suo” spazio e il “suo” tempo. Ne veniva l’idea di una perfetta integrazione fra l’animale e il suo mondo che cozzava con l’evoluzionismo dominante, respingendone in particolare gli aspetti riduzionistici e meccanicistici. Ma ne veniva anche una interpretazione ricchissima della vita animale come fenomeno semiotico, che trova oggi nuovo interesse, soprattutto negli studi di etologia del comportamento animale.

Ma c’è un altro motivo di interesse per i lavori di Uexküll. Nella sua prospettiva, tutti gli esseri viventi sono “soggetti”, ma il loro mondo è un mondo “chiuso”. Se il primo punto ha un significato pluralistico, antispecista, il secondo sottrae a quel pluralismo la possibilità di vivere in un mondo comune. Uexküll, che negli anni Venti aveva scritto una Staatsbiologie dal carattere fortemente conservatore e antidemocratico, dovette comprenderne qualcosa se, dopo una sua prima adesione al nazionalsocialismo, si accorse negli anni successivi del “misero materialismo” delle dottrine naziste sulla razza. Oggi che la biopolitica è tornata al centro del lavoro teorico, è bene allora accedere qualche faro, e ricordarsi che la direzione che queste ricerche possono prendere non è affatto univoca.

(Il Mattino, 22 ottobre 2017)

Come non ripetere gli errori e tornare a parlare alla città

Magritte time Transfixed 1938

R. Magritte, Time transfixed (1938)

Il bello comincia adesso, ora che ci sono i nomi dei candidati alla segreteria provinciale del partito democratico napoletano: Nicola Oddati, Massimo Costa, Tommaso Ederoclite. Il primo è sostenuto dall’area ex Ds, compreso il governatore De Luca; il secondo dall’area ex Margherita; il terzo dal Comitato Trenta, di quelli che hanno provato a non intrupparsi né con gli uni né con gli altri. Sarà congresso vero, con vinti e vincitori: le soluzioni unitarie sono naufragate, le mediazioni saltate, e da ultimo pure i comitati di saggi sono rimasti un pio desiderio. (Ma quando mai un partito è stato messo in mano a un comitato di saggi?).

Il bello comincia adesso, perché la vita interna del partito democratico napoletano non è stata, negli ultimi anni, un fulgido esempio di fair play politico. Il timore che anche questa volta il meccanismo si inceppi da qualche parte, e il congresso finisca per ricorsi e commissariamenti, è forte. Ma è pur vero che non si esce da uno stato di minorità politica se non per le vie politiche. E il congresso rimane la via maestra. I democratici hanno buon gioco a dire che sono ormai l’unico partito a celebrarli, a queste latitudini: hanno ragione. Resta però che di una celebrazione deve trattarsi, e non di una zuffa condotta senza esclusione di colpi. Altrimenti la scelta congressuale si rivelerà un micidiale boomerang per il partito.

Il bello comincia adesso anche perché è inedito se non il profilo dei fronti che si contrappongono, almeno uno dei protagonisti. Si deve certo cominciare col dire che da una parte stanno i Casillo e i Topo e le Armato, e dall’altra i Cozzolino e i Marciano e le Valente, democristiani gli uni e diessini gli altri, e tutti di lungo corso, ma la partita politica vede in campo un altro attore, non proprio l’ultimo della compagnia: Vincenzo De Luca, che finora non si era mai fatto tanto accosto al partito napoletano. Questa volta è andata diversamente: prima ha suggerito ipotesi unitarie, poi ha provato a favorirle, cercando la convergenza su un nome da lui stesso proposto; infine ha sostenuto la scelta di Oddati, che tra tutti i nomi circolati tra gli ex ds è sicuramente l’uomo a lui più vicino, oltre che quello di maggior peso. Tanto attivismo si spiega solo in un modo: De Luca non vuol subire il condizionamento crescente del partito napoletano, che rischia di mettere un’ipoteca sul futuro del governo regionale, non tanto in questa legislatura quanto nella prossima. Non fare la battaglia significa già perderla, lasciando il Pd in mano ai suoi avversari interni. E De Luca lo sa: per quanto non abbia mai lesinato le critiche al suo partito, ne ha sempre voluto mantenere ferreamente il controllo, nella sua Salerno. Forse non gli è servito molto per vincere le elezioni, ma gli è sicuramente utile per non avere sassi nelle scarpe. E che Napoli possa diventare per lui non un sasso, ma un macigno, se non prova a entrarci dentro, beh: quello è sicuro.

Il bello comincia adesso perché i numeri non sono così netti, da assicurare a tavolino la vittoria all’uno o all’altro. Ancora una volta c’è il rischio che gli organi di garanzia avranno parecchio lavoro da fare. A bocce ferme, gli ex della Margherita sono convinti di avere in mano la maggioranza del partito, ma si tratta di un margine esiguo, ed è possibile che alla fine si riveli essenziale la scelta della minoranza orlandiana. Che al momento sembra stare con Casillo e Topo, ma che ha sicuramente, in diversi suoi esponenti, maggiori affinità culturali, oltre che un retroterra comune di provenienza, con Nicola Oddati. Qualcosa, dunque, potrebbe spostarsi.

Il bello, e il difficile, comincia adesso, va detto infine pure questo, perché se per tre quarti un congresso è già deciso al momento del tesseramento, c’è almeno un ultimo quarto che si gioca fuori, tra i cittadini e con le parti della società a cui si vuol tornare a parlare. Dopo le primarie annullate, i ricorsi e i commissariamenti, i lanciafiamme mai usati, e il minimo storico toccato alle ultime elezioni comunali, o il partito democratico riprende a macinare iniziative, a costruire un progetto politico vero, a attirare nuove energie intellettuali, a recuperare credibilità tra i giovani, oppure non c’è candidato né governatore che tenga. E questo sarebbe un errore imperdonabile, in una fase in cui il clima politico comincia a cambiare, e la stella di De Magistris non manda più una luce pura e senza sbavature sull’orizzonte del lungomare liberato. Né tra i molti che, anzi, si affannano a capire da che parte bisogna voltarsi per rimettere in sesto la città.

(Il Mattino, 14 ottobre 2017)

La riflessione necessaria per ripartire senza vecchi vizi

appointment bourgeois

L. Bourgeois, Appointment at 11.00 a. m. (1989)

La decisione di tenere la conferenza nazionale programmatica del partito democratico a Napoli nell’ultimo fine settimana di ottobre rende più che probabile uno slittamento di qualche settimana del congresso provinciale, inizialmente previsto nelle stesse giornate. È una decisione saggia, che introduce un po’ di ponderatezza in un dibattito che rischia altrimenti di dilaniare per l’ennesima volta il Pd. Non c’è nulla di male, ovviamente, nel celebrare un congresso in cui si confrontino più candidati alla guida del partito, ma c’è qualcosa di insano nel farlo, senza che vi sia una ragionevole certezza che almeno questa volta le cose fileranno lisce. Allo stato, questa certezza non c’è, e le esperienze recenti consigliano qualche prudenza in più, visto che il Pd non può certo permettersi di farsi un’altra volta travolgere dalla polemica sul modo in cui si fanno le tessere o si esprimono i voti. Tanto più se questo dovesse succedere a pochi mesi dal voto politico nazionale, e in una città governata dalla più esuberante forma di populismo di sinistra oggi disponibile. Che sembra star lì, a Palazzo San Giacomo, al solo scopo di ricordare in ogni momento l’insufficienza del profilo riformista del Pd.

Il Pd deve o dovrebbe partire proprio da qui: da nuove proposte, da progetti e idee per la città, da una robusta ripresa di contatto con la società civile e, certo, anche da una classe dirigente rinnovata. Nella difficoltà di ricomporre il partito intorno a una scelta unitaria, c’è il rischio che tutto questo passi invece in secondo piano, e prevalgano ancora una volta le macchine notabilari con i pacchetti di tessere a decidere la partita. Il tempo supplementare di cui può godere ora il Pd napoletano, può ancora essere speso per costruire almeno un percorso condiviso nell’avvicinamento al congresso e, magari, anche un segretario individuato con l’accordo delle varie componenti. Non riuscisse il tentativo, ci si può scommettere che il partito democratico si trasformerà per l’ennesima volta nel campo di Agramante, con ricorsi e colpi bassi, contestazioni e richieste di salvifici interventi da Roma. Perché nessuno conosce, al momento, com’è formata la base elettorale di questo congresso, cosa è successo con le iscrizioni online al partito e quali sono i numeri nelle diverse realtà territoriali. Né si vede ancora un partito capace di animare un vero confronto di opinioni, con il coinvolgimento reale di pezzi della società a cui offrire un’alternativa seria e soprattutto credibile alla dilagante retorica arancione.

I limiti del Pd sono, del resto, sotto gli occhi di tutti. Non è un caso che Mdp-Articolo 1 abbia scelto di tenere a Napoli la sua festa: fra le grandi città italiane, è quello che offre sicuramente più spazio alle formazioni della sinistra radicale per cercare un consenso popolare: Roma e Torino sono in mano ai CInquestelle, Milano, Bari, Bologna, Palermo, Firenze hanno amministrazioni a guida democratica con un buon indice di gradimento; resta Napoli, e infatti è qui che cerca di darsi la sua rappresentazione una sinistra più larga e plurale. Di fatto, in questi giorni, mentre i dirigenti locali sono alle prese con il rebus del congresso – quando tenerlo, come tenerlo se non addirittura perché tenerlo – i ministri del governo Gentiloni vengono a Napoli per parlare di politica con i fratelli coltelli di Mdp. Il mitico dibattito lo fanno loro, insomma, con i democratici napoletani assenti (ma presente Antonio Bassolino). I temi sono i diritti, la costituzione e l’antifascismo, il mezzogiorno e il regionalismo, l’ambientalismo e le violenze sulle donne, le mafie e la scuola. Ci sono, insomma, tutte le parole con le quali si è costituita in Italia l’identità storica della sinistra: c’è persino il dibattito sul «nuovo umanesimo», che si trova già declinato nel manifesto dei valori del partito democratico. Quelli di Mdp fanno la loro parte, insomma, e provano a sottrarre terreno al Pd e a dire che la sinistra sono loro. E certo è più facile se il Pd, a Napoli, non comincia a dire nuovamente cos’è.

Il tempo per lavorarci adesso, forse, c’è. O almeno ce n’è un po’ di più: dare nettezza alle linee programmatiche; dare forza all’opposizione alla giunta De Magistris, dare peso alle scelte di politica regionale, persino restituire al partito il senso di una comunità si può. A patto però di non ricadere negli antichi vizi, dominati da una distruttiva coazione a ripetere.

(Il Mattino, 28 settembre 2017)

Pd, i giochi di potere di un partito smarrito

Donald Judd Untitled 1980

D. Judd, Untitled (1980)

Cosa conviene fare ai democratici, di qui al congresso provinciale: consumare le prossime settimane in un gioco di posizionamenti fra i vari maggiorenti, in cerca di accordi sui diversi livelli di governo del partito – la segreteria provinciale a me, la segreteria regionale a te, i capolista in città a me, i capolista in provincia a te, e così via – oppure spenderle nella ricerca di una linea politica e di un profilo definito? Provate a chiedere in giro che cos’è il partito democratico a Napoli. Gli elementi di riconoscibilità in città sono pochi o nulli: le posizioni all’interno delle istituzioni rappresentano l’unico prova dell’esistenza in vita del partito democratico.

Eppure la materia per fare politica c’è, in abbondanza. Nei suoi anni a Palazzo San Giacomo, il sindaco De Magistris ha cucinato una pietanza nuova, un cibo che ai napoletani è piaciuto per ben due volte, e ora il Pd deve decidere se era davvero una roba commestibile, o se invece conteneva ingredienti adulterati. In quel piatto c’è abbondanza di retorica di una sinistra antagonista e altermondialista, appelli ad un’interpretazione radicale della tradizione democratico-costituzionale, forti iniezioni di una certa napoletanità (quella che culmina nel gigantesco corno scaramantico sul Lungomare «liberato»), esaltazione dello spontaneismo delle culture giovanili, lotta tonitruante alla corruzione come bandiera ideologica, mista però a insofferenza per la fredda razionalità legal-burocratica. Poi c’è la più prosaica attività della giunta arancione, le serissime difficoltà finanziarie in cui versa il Comune, le opere pubbliche al ralenti, la situazione drammatica dei trasporti pubblici, e insomma un’attività amministrativa su cui pure il Pd deve esprimere un giudizio privo di ambiguità. E quale migliore occasione di un congresso del partito?

Ma questa occasione, l’ennesima, il Pd rischia di gettarla al vento. Un po’ perché incombono le elezioni politiche, e il controllo del partito è un pezzo essenziale nella partita per le prossime candidature, un po’ perché non sa nemmeno da dove cominciare. E quando non si sa da dove cominciare, si comincia (e spesso si finisce) col “fare le tessere”. Tutto il resto viene messo tra parentesi.

Intendiamoci: la politica ha le sue necessità, ed è ingenuo pensare che si possa contare solo sui buoni argomenti, sulla forza della persuasione e sullo slancio ideale. Ma è proprio uno sguardo realista e disincantato sulla condizione del partito democratico a Napoli che suggerirebbe di riprendere daccapo il filo della politica. Un partito che conta solo sulle risorse clientelari e le pratiche di sotto governo è destinato a perdere. Non ha capacità di mobilitazione, non ha credibilità, non è in grado di sviluppare un’autonoma progettualità. Non serve a nulla: soltanto a se stesso, alla propria sopravvivenza sempre più residuale.

Non è dunque un atto di generosità che ci si aspetta dai vari De Luca, Casillo, Topo, Cozzolino, ma una presa di coscienza e, di conseguenza, una parola di chiarezza: dove si colloca il Pd? È un partito della sinistra riformista, sì o no? Se lo è, come può confondersi con il populismo cheguevarista di Luigi De Magistris? È il partito democratico il partito che governa a Roma con Gentiloni e a Palazzo Santa Lucia con De Luca? Se sì, come può mettere la sordina all’opposizione a Napoli e nell’area metropolitana? C’è forse una prospettiva politico-amministrativa per l’area metropolitana, che il Pd condivide con Dema e la sinistra radicale? A distanza di sei anni dal primo sventolìo della bandana sul palazzo comunale, la risposta a queste domande non può essere data distrattamente, quasi per sbaglio: deve diventare invece il cuore di una proposta alternativa di governo della città. Solo così il Pd può trovare un’eco nell’opinione pubblica, avvicinare una nuova generazione alla politica, raccogliere energie e intelligenze, recuperare un rapporto con la società, e forse persino fare qualche tessera in più.

Ma forse l’ostacolo principale, per un congresso fatto su grandi opzioni di linea politica e visioni dello sviluppo urbano, piuttosto che sugli organigrammi e gli inciuci, sta nella convinzione che, nell’età della politica personale, un partito vero non serve. Costituisce anzi un freno, un impaccio, una mediazione inutile che può ormai essere saltata. Il fatto è che però non viene affatto saltata; viene anzi mantenuta, sia pure solo fittiziamente, per risultare così il luogo della rappresentazione più deteriore e usurato della politica, fatto di accordi sottobanco, melina sui giornali e una babele di voci che si sovrappongono senza un disegno unitario. L’esito ultimo sappiamo però qual è: il populismo. Grillino a Roma, arancione a Napoli. Sta allora al Pd decidere se intende davvero sfidarlo, o accontentarsi di vivacchiare in cucina, mentre il capopopolo di turno continua a fare il suo show come se fosse a Masterchef.

(Il Mattino, 12 settembre 2017)

Pd nel guado. Molti accordi, poca credibilità

 

Oldemburg Smoke

C. Oldenburg, Smoke and Reflections (1975)

Nel Pd napoletano si sono prodotti due fatti nuovi nelle ultime settimane. Non si tratta di novità sconvolgenti, in grado di cambiare il volto a un partito che di cambiare volti qualche necessità ce l’avrebbe, però sono fatti nuovi, di cui occorre avere contezza se si vuol capire come il partito democratico si appresti a celebrare il congresso provinciale nella più importante città del Mezzogiorno.

Il primo fatto è il dialogo neanche troppo sotterraneo che un pezzo del Pd ha avviato con il Sindaco De Magistris, mentre un altro pezzo continua imperterrito a fare opposizione in consiglio comunale. Due partiti in uno. All’inizio, questa specie di “entente cordiale” è stata presentata come una nobile forma di sensibilità istituzionale, la quale avrebbe richiesto una qualche assunzione di responsabilità per consentire agli organismi della città metropolitana di funzionare. Che abbiano preso a funzionare rimane molto, molto opinabile. Ma, intanto, quella sensibilità si è tradotta in ben altra cosa, cioè in un accordo sugli staffisti da chiamare in servizio, il che ha francamente il sapore di una lottizzazione vecchia maniera. E il fatto nuovo finisce allora con l’essere per l’appunto il ritorno delle vecchie maniere, quelle degli accordi sotto banco e delle pratiche di sottogoverno. Ora, può darsi che il partito democratico non possa fare tabula rasa di un rapporto con la società napoletana fondato essenzialmente sulla gestione clientelare del potere. Può darsi che questa difficoltà non sia solo del Pd ma più in generale di tutta la politica nel Mezzogiorno, condannata a ripercorrere vecchie strade per non riuscire velleitaria e inconsistente. Così, quelli che vorrebbero mettere fuori gioco i signori delle tessere, i ras delle truppe cammellate, i mister centomila preferenze (come si diceva una volta, ed è vero che le preferenze diminuiscono, ma i mister: quelli rimangono) devono scontrarsi ogni volta con la realtà di un’organizzazione sempre meno comunità politica e sempre più somma di potentati, e rimandare quindi a data da destinarsi i buoni propositi (se li hanno). Certo è che, pure a voler essere realisti fino al cinismo e accettare la spregiudicatezza del gioco politico, non si può non constatare che questa coazione a ripetere rende del tutto incomprensibile il progetto del Pd: chi sono i democratici, a Napoli? Quale idea di città hanno? A quali parti della società si rivolgono? Come pensano di recuperare fiducia, autorevolezza, affidabilità, di reclutare e promuovere nuove energie, nuove intelligenze, formare una nuova classe dirigente? Domande inevase, al momento, che purtroppo non sono nemmeno in molti a porsi, da quelle parti.

L’altro fatto nuovo ha un nome: Vincenzo De Luca. Non è, anche questo, un nome nuovo, ma è nuovo il modo in cui il governatore sta seguendo la fase precongressuale. Non si espone in prima fila, fa muovere i suoi proconsoli, Fulvio Bonavitacola e Nicola Oddati, ma sembra interessato a giocare fino in fondo la partita, mentre in passato si limitava a guardarla quasi da spettatore, e comunque a non legare troppo le sue sorti a quelle del suo partito. Stavolta è diverso. Ci sarà un candidato deluchiano alla segreteria provinciale del Pd napoletano? È presto per dirlo. Di sicuro è cominciato un lavoro di ricucitura a sinistra, fra i rotti frantumi di quello che resta dell’area ex DS, che potrebbe avere un punto di approdo comune. Quale però sarà questo punto di approdo? Un nome che tiene in equilibrio le varie anime del partito (a volte vive, ma più spesso morte), oppure un nome che riesce a rivolgersi anche al resto della città? Un nome autorevole, forte, capace di decidere e di incidere, oppure un esecutore di decisioni prese altrove? Valgono insomma le domande di prima: un congresso che si divide secondo vecchie linee di appartenenza, e che non offre nient’altro che l’ennesima geometria di alleanze, parlerebbe infatti pochissimo alla città, che dai democrats non vuole sapere se sarà rottura o intesa fra gli ex DC di Casillo e Topo e gli ex DS più o meno federati da De Luca, ma che tipo di opposizione si vuol fare a De Magistris, quali sono gli assets sui quali puntare, come si difendono gli interessi di Napoli e del Mezzogiorno nella programmazione nazionale ed europea. Di più: prima ancora di sapere il ‘cosa’, si vuol sapere il ‘come’, perché il Pd a Napoli continua ad avere un enorme problema di credibilità, con l’aggravante che da anni ormai va riducendosi inesorabilmente il bacino elettorale del partito.

De Luca si è infilato nelle schermaglie congressuali napoletane perché teme che un partito in mano a Casillo e Topo condizionerebbe pesantemente il suo lavoro alla Regione. Se strada facendo trovasse qualche ragione in più per fare questa battaglia, allora, forse, si potrebbe produrre finalmente un terzo fatto nuovo, il più importante di tutti: che ad avere contezza dei fatti di queste ultime settimane vi sarebbe motivo per interessare una parte più ampia dell’opinione pubblica. Diversamente, il congresso provinciale del Pd scivolerebbe subito via dalla cronaca, e dalla storia di questa città.

(Il Mattino, 1° settembre 2017)

La magistratura malata di correntite

 

Robert_Morris_three_Rulers_1963

R. Morris, Three Rulers (1963)

La nomina del procuratore della Repubblica di Napoli – una buona notizia, dopo mesi di supplenza – sta suscitando un vespaio di polemiche. Il voto al CSM, che ha scelto a maggioranza Giovanni Melillo – non è piaciuto a “Unità per la Costituzione”, che dopo essersi espressa compattamente, in seno al Consiglio, a favore di Federico Cafiero de Raho, ha diramato un lungo comunicato per esprimere la propria insoddisfazione per la linea adottata dall’organo di autogoverno della magistratura.
Nessuno dei motivi ripresi nel comunicato – due, essenzialmente:  la maggiore anzianità in servizio di Cafiero de Raho, e la vicinanza di Melillo al governo, avendo avuto un legame fiduciario con il Ministro della Giustizia Andrea Orlando, di cui è stato Capo di Gabinetto fino a poco tempo fa – è in realtà rimasto fuori dalle considerazioni svolte nella discussione al CSM. Tuttavia i vertici di “Unità per la Costituzione”, insoddisfatti e per nulla persuasi, hanno voluto ribadirli. E, nel ribadirli, hanno:
ricordato le qualità di Cafiero de Raho che, a loro dire, lo rendevano preferibile per il ruolo di procuratore; mostrato apprezzamento per la “compattezza” dei propri rappresentanti in seno al Consiglio; preso atto della scelta diversa operata non solo dai membri laici del CSM ma anche dai “prorogati componenti di diritto”, che è un modo obliquo e reticente per dire che la nomina di Melillo è stata, per Unicost, voluta dalla politica, e dai magistrati che devono ringraziare la politica per essere ancora in carica; espresso, infine, perplessità, per la scelta di quei membri togati che hanno preferito Melillo a De Raho (nonostante, è il poco gentile sottinteso, la toga che portano).
Il comunicato termina con un augurio di buon lavoro al nuovo procuratore, che dopo tutto quel che si è letto fin lì, suona puramente di circostanza.
Ora, è chiaro che dopo la spaccatura del CSM, Melillo dovrà lavorare per stabilire un clima di collaborazione, di fiducia e di rispetto reciproco, il che è peraltro indispensabile per il buon funzionamento di qualunque struttura complessa. È chiaro pure che le sfide di un territorio come quello napoletano “pervaso da potenti organizzazioni criminali” – come scrive Unicost nell’ultimo rigo del suo comunicato – richiedono anzitutto unità di intenti, e le polemiche non sono certo il miglior viatico per il nuovo Capo della Procura. Ma il commento critico che Unicost non ha saputo evitare di dettare fa soprattutto questo effetto, di ricordare anche al più distratto dei suoi lettori qual è il peso delle correnti in magistratura e quali sono le logiche con cui si muovono.
Gli esponenti di Unicost nel CSM si sono mostrati compatti, e il  Presidente e il Segretario del loro partito esprimono grande apprezzamento, proprio come il capo di una corrente democristiana d’antan poteva congratularsi con i propri esponenti all’indomani di un voto in Parlamento. Tutto il fulcro del ragionamento ruota intorno all’imparzialità che il magistrato deve assicurare: non solo essere, ma anche apparire imparziale. E Melillo, per via dell’incarico a via Arenula, non avrebbe questo fondamentale requisito. La qual cosa, ovviamente, non viene detta così: chiara e tonda; ma lasciata intendere, come nel più tradizionale teatrino delle dichiarazioni che i politici rilasciano a margine di un congresso, o di una riunione di direzione. Dopodiché, però, più della rivendicazione della necessaria distanza dalla politica, quel che si sente distintamente, nelle parole usate dalla corrente, è non una rivendicazione di indipendenza ma una rivendicazione di appartenenza, uno spirito di corpo: i miei e i tuoi, gli amici egli avversari, quelli che stanno con me e quelli che stanno con gli altri, o si fanno comprare dagli altri.
Non è mai troppo tardi per accorgersi della politicizzazione della magistratura e della sua degenerazione correntizia, naturalmente. Ma quando (e se) ce ne si accorge, più che prendersela con il prescelto della corrente avversa, sarebbe bene che si provasse a mettere mano seriamente a una riforma dell’istituzione. E invece l’unica riforma che, in materia di giustizia, non ha fatto nessun passo, né in avanti né indietro, né in bene né in male, è la riforma del CSM. Per forza: il governo ha deciso di aspettare l’autoriforma. Campa cavallo. Così il Consiglio Superiore della Magistratura può limitarsi a emanare serissime e più stringenti circolari, per esempio in materia di incarichi, per poi applicarle, disapplicarle o diversamente applicarle a seconda delle esigenze. E, sempre a seconda delle esigenze, o meglio degli interessi in gioco, troverà quelli che ne lamentano l’applicazione, quelli che ne lamentano la disapplicazione, e quelli che ne lamentano la diversa applicazione. In un festival dell’ipocrisia, per cui stavolta sobbalza Unicost, la prossima volta si inalbera Area, e la volta ancora dopo chissà chi.
Non è, come si vede, questione di come possa lavorare Melillo a Napoli e di quale clima troverà in Procura, ma, purtroppo, di come funziona la giustizia italiana.
(Il Mattino, 1° agosto 2017)

Napoli, la Procura scoperta e i giochini delle correnti

369584884_55306698fb_m

Dal momento in cui il procuratore Colangelo ha lasciato la Procura di Napoli sono trascorsi 148 giorni, circa cinque mesi. L’ufficio statistico del Csm, che ha analizzato l’attività del Consiglio mettendola a confronto con quella svolta nelle precedenti consiliature, non troverebbe questo numero elevato, tutt’altro. I tempi medi che intercorrono tra l’apertura della pratica e la delibera di conferimento dell’incarico ammontano infatti a 295 giorni. E sono pure in calo, visto che nella consiliatura precedente erano 344: quasi un anno. Il ritardo, dunque, non è affatto anomalo. E però lo stesso Giovanni Legnini, vicepresidente del Csm, mentre faceva presente a questo giornale, lo scorso 29 marzo, che la pratica è spinosa, che il Csm ha da smaltire un numero eccezionale di nomine, e che la sua produttività è stata comunque superiore a quella degli anni passati, formulava comunque l’auspicio che la sede della procura più grande d’Italia potesse avere un procuratore presto, «prima dell’estate».

Ora, se si riferiva all’inizio dell’estate astronomica, l’auspicio non si è realizzato perché l’estate è cominciata puntuale – il 21 giugno, alle 4,24, ora del solstizio – e il procuratore a Napoli non c’è ancora. Se invece intendeva riferirsi alla conclusione della stagione, allora mancano ancora poco meno di tre mesi: ma davvero la Procura di Napoli può attendere altri tre mesi senza la nomina del suo vertice?

A leggere le pagine dei giornali su inchieste scottanti, fughe di notizie clamorose, avvisi di garanzia mai spiccati prima, intercettazioni e manipolazioni, c’è da dubitarne. Naturalmente nessuno mette in discussione la serietà, l’impegno e le capacità del procuratore aggiunto, Nunzio Fragliasso, che sta reggendo la Procura in questi mesi. Ma la complessità di un ufficio gravato da una enorme mole di lavoro, con molte inchieste delicate per le mani, esposto anche a polemiche e sollecitazioni le più diverse, esige che si proceda con la massima sollecitudine. Tanto più che si tratta di indicare una figura istituzionale di assoluto rilievo, a cui spettano non solo grandi responsabilità ma anche una cifra simbolica ragguardevole, soprattutto in una città come Napoli.

Ora, non c’è bisogno di chissà quale retroscena per comprendere le ragioni per cui si temono ulteriormente slittamenti, oltre la prossima riunione della Commissione deputata, fissata per il 6 luglio, e, a quel punto, ben oltre il solleone agostano. Quelle ragioni stanno infatti nelle parole molto franche e molto trasparenti usate dallo stesso Legnini, nella citata intervista napoletana: «Tutti sappiamo che la scelta del Capo di un ufficio è il frutto della coniugazione di valutazioni di merito con il voto in Commissione e in Plenum, essendo il Csm un organo elettivo e democratico». Manca la parola “politico”, ma è chiaro che dove c’è democrazia e dove ci sono elezioni c’è, legittimamente, la politica. Con questo Csm, c’è poco da fare: questo è il metodo. Altre volte Legnini ha spiegato, parlando del lavoro del Csm in materia di nomine, che bisogna riconoscere il cambiamento in atto: «è in corso un eccezionale ricambio alla guida degli uffici, che ridisegnerà il volto del sistema giudiziario italiano, con magistrati scelti per incarichi di vertice in base al merito».  Ma per esplorare i meriti dei principali candidati in lizza, non ci vogliono tutti questi mesi. Indipendenza e professionalità non sono in discussione: il punto forte del curriculum di Federico Cafiero de Raho è la sua esperienza investigativa; il punto forte del curriculum di Giovanni Melillo è la competenza in materia di organizzazione degli uffici. Questa essendo la materia della decisione, si tratta appunto di decidere. Se non si vuole dare l’impressione che la «coniugazione di valutazione di merito» passi del tutto in secondo piano rispetto al coniuge con cui la si deve coniugare, cioè alla composizione degli equilibri fra le correnti, bisogna allora estrarre senza indugi dal pacchetto delle nomine la procura di Napoli e procedere, con una piena assunzione di responsabilità da parte del Csm.

Anche perché se non c’è oggi un vuoto di direzione, c’è sicuramente bisogno di un cambiamento di direzione rispetto a situazioni consolidate, a modalità di lavoro e a linee di azione giustificate più dall’abitudine che dai risultati. E più dalla ricaduta nel dibattito pubblico che da quella nelle dinamiche processuali in aula.

Il progetto di innovazione portato avanti nei mesi scorsi dalla procura di Napoli, e i cambiamenti radicali che saranno comportati dalla piena digitalizzazione dei fascicoli penali, impongono un ripensamento degli assetti operativi, organizzativi e tecnologici degli uffici. La lentezza della giustizia non è infatti solo un problema normativo, ma è anche un problema organizzativo: a Napoli, e in tutta Italia. Certo però che se, per far maturare il «frutto della coniugazione» ci vuole così tanto tempo, allora non c’è innovazione né organizzazione che tenga: si rischia di rimane chissà quanto sotto l’albero del Csm col braccio teso, ad aspettare.

(Il Mattino, 29 giugno 2017)

Le ambizioni politiche e la città dimenticata

Napoli

Un «buon risultato», dice Luigi De Magistris, che trae dal voto amministrativo di domenica motivi di soddisfazione per gli esiti di Arzano e Bacoli, dove i candidati appoggiati dal Sindaco di Napoli hanno raggiunto il ballottaggio. Non è andata così nelle altre città dove compariva il simbolo della lista DemA, ma, parola del Sindaco, «era importante cominciare». Certo, in tempi di estrema volatilità del voto, tutto può essere: persino che un giorno l’attuale primo cittadino siederà a Palazzo Chigi, con un consenso capace di andare oltre la cinta daziaria del capoluogo partenopeo, ma intanto che cosa si fa? Di fronte all’esiguità dei numeri raggranellati domenica, è più facile ipotizzare per Dema un destino simile nelle percentuali alla infausta «Rivoluzione civile» di Antonio Ingroia, che non improvvisi sfondamenti elettorali, sul modello di Podemos in Spagna. Il dato medio di Dema si aggira infatti tra il 5% e il 6%: non propriamente un successo. De Magistris pesca inoltre in un’area nella quale sono già presenti numerose formazioni politiche di sinistra-sinistra – da Pisapia a Sinistra Italiana, da Civati a Mdp di Bersani e D’Alema –, senza dire che il voto dato in nome della trasparenza, della giustizia, della partecipazione ha già, a livello nazionale, un forte catalizzatore nel Movimento Cinquestelle.

Ma vada come vada: cosa si fa, intanto? Tutte le sinistre massimaliste hanno avuto, da sempre, il limite di non curarsi troppo dei programmi «minimi», cioè delle cose da fare nel frattempo, prima che scocchi l’ora X della rivoluzione. La differenza è che però De Magistris rimanda tutti a un appuntamento politico fissato a data da destinarsi, o comunque molto lontano nel tempo, mentre si trova a fare personalmente il sindaco, mentre cioè siede a Palazzo san Giacomo e ha doveri amministrativi piuttosto impellenti. La sua Amministrazione ha i cantieri aperti su via Marina o da aprire per la manutenzione di corso Vittorio Emanuele: in quel caso, l’importante non è affatto cominciare, ma finire, possibilmente nel rispetto dei tempi previsti per la realizzazione delle opere, limitando i disagi ai cittadini. Ha difficoltà nel rispettare gli adempimenti contrattuali con la ditta impegnata nella revisione dell’impianto della Funicolare Centrale, col rischio che i lavori non vengano ultimati a causa del ritardo dei pagamenti. Ha da inventarsi una strategia per il sistema dei trasporti pubblici e un’Azienda pubblica sull’orlo del fallimento, costretta a aumentare il costo dei biglietti (scattato ieri) senza poter offrire miglioramenti dal lato dei servizi erogati. Ha da ristrutturare i servizi colabrodo di riscossione delle multe e dei canoni di locazione, ha da realizzare vendite di immobili da anni al palo, ha da costruire un’idea di organizzazione e gestione dei flussi turistici che vada al di là dell’entusiasmo estemporaneo per l’aumento delle presenze. Ha, infine, da impegnarsi su Bagnoli mettendo da parte i calcoli politici: smettendola di cercare soddisfazioni simboliche in nome dell’orgoglio, dell’indipendenza, dell’autonomia e della sovranità della città, per accomodarsi più modestamente a una seria collaborazione istituzionale.

La mistura ideologica del progetto DemA non è, ad oggi, formula che giustifichi le ambizioni politiche del suo inventore, ma quand’anche lo fosse, non dovrebbe funzionare come un’arma di distrazione di massa. Tra l’attuazione della Costituzione e l’attuazione di un programma amministrativo solido e concreto, la preferenza va accordata alla seconda: se non altro perché proprio la Costituzione e la legge gliene assegnano il compito. E poi: va bene fare il bilancio del voto nell’hinterland, o farsi venire la curiosità di registrare quanti voti DemA ha preso a Taranto (poco più dell’1%) o a Carrara (quasi il 2%), ma per i cittadini napoletani i problemi di bilancio del Comune e lo stato di pre-dissesto, tra debiti fuori bilancio e inefficienze ammnistrative, costituiscono una preoccupazione ben più pressante.

A chiusura del Maggio dei monumenti, De Magistris ha sottolineato il grande successo della manifestazione e ha poi aggiunto: «Ora siamo impegnati anche a rafforzare finanziariamente ed economicamente l’Ente e mettere in campo le azioni per migliorare tutti i servizi». Ecco: se quell’«anche» diventasse nei mesi prossimi un: «innanzitutto e quasi esclusivamente», siamo sicuri che se ne gioverebbe il suo profilo di Sindaco e soprattutto ne guadagnerebbe la città.

(Il Mattino, 13 giugno 2017)

De Magistris e l’autogoverno irresponsabile

lazzari.jpg

La distanza fra la cifra amministrativa della giunta de Magistris e quella politica si allarga. Il Rendiconto di Bilancio passa, la maggioranza applaude, il sindaco ringrazia l’assessore Salvatore Palma per il suo straordinario lavoro, e poi lo congeda con un ultimo saluto. Licenziato. E per dar conto di una decisione altrimenti incomprensibile si appella al contesto «di una crescita non solo amministrativa ma anche politica». Le due cose in realtà non camminano affatto insieme, perché il sindaco è costretto dai mutati e sempre precari equilibri politici a sacrificare proprio l’uomo che teneva i conti, e li teneva su un crinale sempre molto sottile, col baratro del dissesto finanziario non troppo lontano. Ora c’è da augurarsi che il nuovo arrivato, Enrico Panini, trovi subito il filo della matassa, ma certo non si tratta di una mossa ispirata anzitutto all’efficienza e all’efficacia dell’azione di governo.

Quello che è accaduto in aula, non è in realtà molto diverso dal senso complessivo che questa seconda sindacatura sta sempre più assumendo. La sua formula è quella della proporzione inversa: quanto più impegno politico, tanto meno rendiconto amministrativo. Il terreno sul quale Luigi de Magistris cerca e mantiene il rapporto con la città non è infatti quello del risanamento dei conti pubblici, o dell’innalzamento della qualità dei servizi: non si misura con i minuti di attesa dei bus o con il volume delle dismissioni immobiliari. Il Sindaco confida sul consenso di cui gode ancora un’esperienza dalla forte caratura ideologica, mantenuta in connessione con umori e passioni popolari vivi e vitali, che fanno fronte comune nell’orientarsi di volta in volta contro il governo, i poteri forti, il pensiero unico liberista: comunque ben oltre il quadro di responsabilità amministrative di cui un Sindaco è chiamato a rispondere. Di cosa infatti risponde De Magistris? Di orgoglio partenopeo, che sa muovere e suscitare, di attuazione democratica della costituzione, che non è chiarissimo come possa dipendere dalle delibere di una giunta comunale, di processi di distribuzione del potere al popolo, qualunque cosa ciò significhi, e di una politica dell’onestà e delle mani pulite, che rimane la tonalità comune di tutto il malcontento nei confronti delle classi dirigenti. Salvatore Palma stava un passo dietro la roboante retorica del Sindaco, per controllare che l’azione amministrativa non deragliasse del tutto. Ora, quando il Sindaco si volterà per avere almeno un parere tecnico in più, quel parere non lo avrà più dal suo assessore al bilancio.

Il tema dei rapporti tra tecnica e politica non può – è vero – esaurirsi in una forma di supplenza della prima ai danni della seconda. Non è vero neppure che ai servizi sociali debba esserci per forza un sociologo o che all’assessorato ai giovani debbano essere esclusi gli over 50. Per lo stesso motivo, al bilancio non deve andarci per forza un revisore dei conti. Ma nella decisione assunta ieri si tratta, per un verso, di puntellare una maggioranza con l’ingresso di nuove formazioni, in un gioco ad incastro che la frammentazione della rappresentanza in seno al consiglio comunale rende sempre più difficile; per altro verso, si tratta della via d’uscita più frequentata dal sindaco, quando viene messo dinanzi a problemi politici reali: spostare altrove il fuoco dell’attenzione.

Lo si è visto bene anche nelle ultime battute polemiche che ha riservato al governo. Gli omicidi commessi in città negli ultimi giorni hanno suscitato un nuovo allarme. Qual è stata la risposta del Sindaco? Invocare più forse e più risorse da parte del governo, per assicurare un più efficace controllo del territorio. Ora, è comprensibile e anzi giusto che il primo cittadino si affidi anzitutto all’azione repressiva delle forze dell’ordine (anche se il ministro della Giustizia Orlando ha prontamente replicato che l’attenzione del governo per i problemi dell’area napoletana non è affatto mancata in questi anni), ma che dire delle misure che il decreto Minniti ha introdotto mettendo in capo ai sindaci nuovi strumenti per assicurare l’ordine pubblico e il rispetto della legge nelle aree urbane? Il Sindaco di Napoli le rigetta: non ne vuole sapere, non è lui che vuole fare la guerra ai parcheggiatori abusivi e alle occupazioni illegali. Il che è certo coerente con la sua ideologia comunarda e la sua passione per i centri sociali, ma stride con lo scaricabarile di cui si rende protagonista quando accolla tutti gli oneri del rispetto della legge alle istituzioni dello Stato.

Allora De Magistris la butta in politica. E funziona così: che un conto è il governo, ben altro è l’autogoverno. Il primo è chiamato a rispondere ed è subissato di critiche; il secondo non risponde se non della felicità e dell’amore dei napoletani. Perché allora meravigliarsi se l’insorgenza partenopea può fare a meno di un rigoroso assessore al Bilancio? Non è in fondo durato già troppo?

(Il Mattino, 28 maggio 2017)

Chi comanda in Procura?

napoli

L’incolpazione di Henry John Woodcock per illeciti disciplinari riporta alla ribalta una vicenda che sembrava dovesse spengersi lentamente, come a volte accade alle grandi fiammate che bruciano improvvisamente sui media, per poi scivolare poco a poco e consumarsi lontano dai riflettori.

E invece no: sotto i riflettori ci ritorna perché il procuratore generale della Cassazione, Pasquale Ciccolo, ha ravvisato gli estremi per incolpare Woodcock di aver violato sulla vicenda Consip la consegna del «più assoluto riserbo» voluta dal procuratore reggente di Napoli, Nunzio Fragliasso, e per avere interferito indebitamente con l’indagine della Procura di Roma.

Cos’era infatti accaduto? Che la Procura di Roma aveva revocato l’indagine tenuta dal Noe di Napoli e dal capitano dei carabinieri Gianpaolo Scafarto a seguito della fuga di notizie che aveva accompagnato il passaggio delle carte per competenza da Napoli a Roma. Passa un mese, o giù di lì, e i magistrati romani si accorgono di una manipolazione del contenuto delle intercettazioni, con la quale in bocca all’imprenditore Romeo finisce una frase da lui mai pronunciata, che l’investigatore giudica peraltro di particolare rilievo a sostegno dell’ipotesi di traffico di influenze che si viene formulando a carico del padre di Matteo Renzi, Tiziano. Una falsità, di una gravità inaudita, che però salta fuori solo perché la Procura di Roma spulcia fra le carte dell’inchiesta.

Ora apprendiamo dall’atto del procuratore Ciccolo che, scoppiata la notizia dell’accusa nei confronti di Scafarto, il dottor Fragliasso tiene una riunione con i pm coinvolti, nel corso della quale Woodcok manifesta l’esigenza che l’ufficio confermi piena fiducia al capitano Scafarto e al nucleo investigativo del Noe. Cosa che avviene. Apprendiamo pure che, nel corso della riunione, Fragliasso raccomanda la consegna del silenzio con gli organi di informazione «per non interferire con le indagini». Cosa che invece non avviene: Woodcock parla, le sue parole finiscono sui giornali ed interferiscono pesantemente, perché il magistrato napoletano si perita di spiegare che, a parer suo, solo un pazzo avrebbe potuto deliberatamente compiere un falso negli atti dell’indagine in corso, escludendo dunque che potesse trattarsi di altro che di un errore. In tal modo, scrive Ciccolo nella sua incolpazione, «ha pubblicamente contraddetto e svalutato l’impostazione accusatoria della Procura di Roma, fondata invece sulla ritenuta falsità».

Ce n’è abbastanza per notare le seguenti cose. La prima, che ci troviamo di fronte a un magistrato che disattende palesemente il suo dover d’ufficio al riserbo, richiestogli in una circostanza così delicata dal capo della sua Procura, salvo poi sostenere di essere stato tratto in inganno: un’ingenuità che però appare sorprendente in un uomo navigato come Woodcock, peraltro avvezzo ad avere i giornalisti alle calcagna. La seconda, che mentre tutta Italia si chiede come sia possibile che in un’indagine così delicata, che lambisce i più alti vertici istituzionali, le parole agli atti non vengano controllate non una ma cento volte, prima di costruirci su un castello di accuse – mentre tutta Italia si chiede questo, Woodcock rivolge al procuratore Fragliasso la richiesta di mantenere Scafarto al suo posto. Una richiesta talmente imbarazzante, che lo stesso capitano dei carabinieri chiederà, a sua propria tutela, di essere sollevato dal ruolo. Prudenza avrebbe voluto che ci pensassero i magistrati napoletani, invece i magistrati pensano il contrario. Woodcock garantisce per Scafarto, e la Procura lo segue. Questa è la terza cosa che lascia di stucco: può darsi che i rapporti professionali fossero tali da giustificare una simile condiscendenza, sta di fatto che l’impressione che se ne ricava è che da quelle parti sia Woodcock a dettare la linea, persino in una circostanza così complessa.

Quarto: la procura di Napoli aveva assicurato, con tanto di comunicato ufficiale, che non c’era stato alcun attrito con Pignatone e i pm romani. Nessun contrasto, nessuna tensione. Su questa posizione si era attestato anche il Csm. Comprensibilmente, perché non è mai saggio alimentare conflitti istituzionali. Ma ora sappiamo dall’atto di incolpazione del procuratore generale che lo scontro c’è stato eccome, visto che un magistrato napoletano è accusato di avere interferito con le indagini romane, provando a demolire pubblicamente l’accusa formulata a danno di Scafarto. In sostanza, Woodcock ha mandato a dire ai colleghi romani, a mezzo stampa, che Scafarto era un suo uomo e non andava toccato.

L’ultimo punto accompagna questa vicenda fin dall’inizio. A Napoli manca da mesi il capo della Procura. Il Csm non l’ha ancora nominato. Lo segnalammo (incidentalmente, ma non troppo), quando il caso scoppiò. Torniamo a segnalarlo ora, visto che è palese – indipendentemente dalla grande qualità ed esperienza delle persone coinvolte – che non è la stessa cosa essere il procuratore ed essere il facente funzione. Forse ci sbagliamo, ma la condotta di Woodcock, per come viene delineata dal procuratore Ciccolo nella circostanza, inclina a darci ragione.

(Il Mattino, 9 maggio 2017)

 

La voglia di riformismo non è morta

tiorba

Anche a Napoli (e anche in Campania) si riparte da Renzi. E la domanda da porre al neo-segretario del Pd è dunque: e adesso? E adesso è la volta che imbraccerà veramente il lanciafiamme? Ed è quello che davvero ci vuole? La metafora che Renzi ha usato in passato esprimeva tutta l’insoddisfazione del segretario nazionale del partito per i risultati del Pd napoletano. Ma oltre l’insoddisfazione Renzi non era andato, in realtà: non erano seguite prese di posizione rispetto ai gruppi dirigenti, non era stata scelta la via drastica del commissariamento, non si era scelto né di tagliare i rami secchi né di coltivare i deboli germogli di rinnovamento comparsi qua e là. Un’opera di rimozione, più che di rottamazione.

La ragione è presto detta: il Renzi rottamatore che nel 2013 prende le redini del partito democratico decide, a Napoli e nel Mezzogiorno, di assecondare le dinamiche locali, piuttosto che di sovvertirle. È una scelta compiuta in stato di necessità (Renzi arriva al governo senza nemmeno passare per il voto popolare), ma anche una scelta dettata da una certa sottovalutazione della funzione del partito nella selezione delle classi dirigenti. Così il Pd renziano si limita da queste parti a sommare quello che c’è, bello o brutto che sia. E quello che c’è ha ovviamente tutto l’interesse a perpetuare lo status quo: non potrebbe essere altrimenti.

Ora però comincia il secondo tempo della partita che Renzi giocò quattro anni fa, e non tutto è rimasto uguale a prima. A tacer d’altro, di mezzo ci sono state le sconfitte alle amministrative di Roma e Torino, che in fondo hanno seguito Napoli nel consegnare il Municipio a una formazione populista. Qui De Magistris scassò tutto già nel 2011, ed entrò a Palazzo San Giacomo; a Roma e Torino è accaduto lo scorso anno, con la Raggi e l’Appendino. E così si è fatta drammaticamente evidente l’usura delle classi dirigenti locali. Scegliere dunque di sostenersi sul notabilato che in periferia racimola voti ma non produce egemonia – come si sarebbe detto una volta – si rivela essere una scorciatoia sempre più stretta e sempre meno praticabile.

Il voto napoletano dimostra tuttavia che anche in questa città resiste un elettorato di sinistra che continua a votare il Pd e a riconoscersi in una proposta politica riformista, di respiro e formato nazionale ed europeo, una prospettiva che difficilmente De Magistris può assicurare. Il punto è come svincolare questo risultato da una geografia di stampo localistico, e congiungerlo al resto del Paese. Se De Magistris è impegnato a costruire un meridionalismo “contro”, questo voto consente a Renzi e al partito democratico di costruire un nuovo meridionalismo “per”?

Ora Renzi può davvero prendere il lanciafiamme? Nella sua versione precedente, quell’arma non ha sparato un colpo, e cambiare tutto per non cambiare nulla è stata la fatale conseguenza di condizionamenti da cui la segreteria Renzi non ha saputo affrancarsi. Il voto di ieri dà al neo-segretario un’indubbia forza: a Napoli e nel Paese. Gli dà anche un obiettivo: impegnare quei voti per tornare a collegare il Sud all’Italia e all’Europa, invece di contrapporlo in una prospettiva ribellistica e rivendicazionista. Cambierà anche il partito, di conseguenza, se non altro perché quel pezzo che pensa che essere di sinistra obblighi a parlare con De Magistris dovrà venire a un chiarimento definitivo.

(Il Mattino, 1° maggio 2017)