L’avviso di garanzia. Poi il chiasso mediatico, le paginate dei giornali. E le indagini, e i supplementi di indagine, che a volte si chiudono con un rinvio a giudizio, molte altre volte no. Infine le sentenze di condanna, che però sono ancora di meno, e quasi sempre vedono sensibilmente ridimensionate le ipotesi accusatorie iniziali.
Così è andata anche nel caso della direttrice generale del Santobono, Annamaria Minicucci: l’avviso di garanzia le arriva per un presunto suo coinvolgimento in nomine che avrebbero soddisfatto appetiti criminali; il suo nome finisce sui giornali insieme all’ipotesi di legami con la camorra; l’inchiesta si abbatte su manager pubblici della sanità campana, suscitando scalpore, ma anche molti giudizi sommari. Un anno e mezzo dopo lo scenario è radicalmente diverso. Per la Minicucci è disposta l’archiviazione: non c’è nemmeno bisogno del processo. L’inchiesta va avanti per altre posizioni, ma il bersaglio grosso è mancato.
O forse non lo è: perché un’archiviazione che arriva a distanza di un anno e mezzo è comunque una mezza condanna, per l’indagato. Che non vede intaccata solo la sua reputazione, ma anche indebolita la sua stessa azione amministrativa, come ha raccontato la dottoressa Minicucci su questo giornale: come si fa a bandire altre gare, a stringere accordi con i sindacati e a gestire l’intera struttura organizzativa quando grava su di te l’ombra pesante di collusione con la camorra?
Ora, è chiaro che rientra nella fisiologia dell’attività di indagine, così come dell’ordinario svolgimento processuale, che non tutti gli indagati vengano rinviati a giudizio, e che non tutti gli imputati vengano condannati. Ma le dimensioni del fenomeno sembrano suggerire altro. Che vi sia cioè del metodo in questa follia. Perché infatti tenere nel cassetto un avviso di garanzia, quando si può dare maggiore visibilità e clamore all’indagine? Perché non sparare comunque, una salva di avvisi a raffica, tanto qualcosa alla fine rimarrà comunque impigliato nella rete della giustizia? L’avviso, del resto, è a tutela dell’indagato, che deve essere informato dell’attività investigativa che si svolge sul suo conto: è a fin di bene. Poi però accade esattamente il contrario. L’indagato è molto più spesso rovinato che non tutelato dall’avviso di garanzia, e la distanza temporale dalla prima notizia sull’ennesimo caso clamoroso dilata a dismisura il fumus di colpevolezza, che dura giorni e settimane e mesi, mentre l’informazione che molto tempo dopo accompagna l’archiviazione o l’assoluzione regge, se va bene, un solo giorno sui giornali.
Si vogliono con questo fermare le indagini, mettere le briglie ai pubblici ministeri, gridare «tana, liberi tutti»? Vogliamo insomma fare un favore ai ladri, prendendocela con le guardie? No, vogliamo due cose. La prima: che si prendano sul serio i numeri della giustizia, soprattutto quelli che riguardano l’abnormità delle sue fasi preliminari e cautelari, perché non siano più gestiti nei termini odiosi di una pena anticipata. La seconda: che buttar lì un avviso di garanzia, tanto poi si vedrà, non sia la prassi degli uffici giudiziari, in nome di un meccanico ossequio all’«atto dovuto». C’è voluta – due mesi fa – una circolare di Pignatone, il capo della procura di Roma, per richiamare a una maggiore sobrietà nell’uso dello strumento, soprattutto quando esso dispiega i suoi effetti, ben prima di qualunque serio accertamento, sulla vita pubblica. Ma una circolare non fa primavera, e ogni volta pare di stare daccapo.
«Ho sempre continuato a lavorare, anche dopo l’avviso di garanzia», ha dichiarato la dottoressa Minicucci, dando involontariamente alle sue parole il senso di un’impresa quasi eroica, come se restare al proprio posto, dopo l’apertura delle indagini, significasse farlo se non a dispetto dei santi, certo contro i sentimenti di un’opinione pubblica rancorosa, che manderebbe tutti in galera alla prima notifica di una Procura (cosa che purtroppo molto spesso i pm sanno bene, e non fanno nulla per scoraggiare). Ma io mi domando: che Paese è quello in cui diviene eroico quello che dovrebbe essere semplicemente normale?
(Il Mattino, 22 dicembre 2017)