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La democrazia e i giochi pericolosi

alfano

L’idea di Angelino Alfano, di rinviare il referendum costituzionale, non ha fatto molta strada. Il ministro dell’Interno l’aveva avanzata con molta prudenza, sostenendo che c’era soltanto, da parte del governo, una disponibilità a valutare l’ipotesi nel caso in cui le opposizioni avessero avanzato una richiesta in tal senso. Ma le opposizioni hanno comunicato subito, a stretto giro di posta, la loro posizione: non se ne parla nemmeno. E la cosa è finita là.

Come poteva essere altrimenti? Come si poteva immaginare che i Salvini, i Grillo e i Brunetta chiedessero per favore di lasciar perdere, e che dall’altra parte Renzi, quello che ha cominciato tutto con lo slogan “Adesso”, si risolvesse per il rinvio della data? Solo chi non ha seguito i due anni di navigazione del governo Renzi, e chi, prima ancora, non ricorda che questa legislatura è partita, sotto l’egida dell’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, con il mandato esplicito di realizzare le riforme, può credere che dopo i numerosi passaggi parlamentari, dopo il voto di Camera e Senato, dopo l’indizione del referendum, dopo l’apertura della campagna elettorale, sia ancora possibile fermare il treno in corsa.

Angelino Alfano lo ha pensato per davvero? Difficile a credersi. Più probabilmente, ha pensato – o ha dato voce a chi pensa – che l’eventualità di una vittoria del No rappresenta un pericolo troppo grande che il Paese non può correre, e che dunque è necessario trovare una via d’uscita. O perlomeno prendere tempo, procrastinare, e usare i margini concessi dal rinvio del voto per una precisa manovra politica. Se infatti per far passare il referendum – questo è il ragionamento che circola in certi ambienti – bisogna scindere il suo esito dagli altri temi che nel corso della campagna si sono ad esso sovrapposti – la legge elettorale, la sorte del governo e della legislatura, il destino del premier – e se a questo fine non basta la correzione di rotta, impressa sul piano della comunicazione nelle ultime settimane, bisogna evidentemente fare di più.

Si è già data disponibilità a cambiare la legge elettorale? In effetti, è un’esigenza formulata a chiare lettere anche dal Presidente Napolitano, che Renzi stesso ha finito con l’accogliere nella Direzione nazionale del suo partito. Ma ecco: siccome non basta ancora, siccome i sondaggi rimangono sul filo e danno anzi il Sì un passo indietro, bisogna mostrare una più grande disponibilità: a superare anche il governo Renzi, se fosse necessario, per avere in cambio il sì alla riforma. Ecco allora che prende corpo l’ipotesi: un rinvio, dettato dall’emergenza terremoto, e qualche mese per costruire un diverso scenario politico in cui non sia più Renzi l’unico dominus della situazione. Un modo per cuocerlo a fuoco lento, o semplicemente per creare le condizioni perché passi la mano. In maniera indolore o traumatica si vedrà, ma intanto si sarà trovata una maniera per decantare, e al limite depoliticizzare il voto sulla riforma.

Non occorre attribuire tutti questi pensieri al ministro Alfano. È sufficiente, per comprenderne l’esternazione, tenere presente che il suo interesse e l’interesse del suo partito è quello di portare a termine questa legislatura, perché la fine anticipata rappresenterebbe la fine anche di Ncd. Un minuto dopo il No, Alfano sarebbe spazzato via. Renzi no: si giocherebbe la sua partita alle politiche, ma Alfano a quale santo potrebbe votarsi? Da una parte avrebbe il trionfo bacchico dei Grillo e dei Salvini a togliergli ogni spazio, e dall’altra avrebbe un partito democratico pronto a chiedere correzioni di rotta a sinistra.

Ma soprattutto Alfano non avrebbe (e non ha) i voti. Lo spazio della politica in cui si muove, in cui continua a muoversi, non è quello della legittimazione popolare, ma è quello dell’accordo di palazzo, tutto interno alle trame politiche che vengono tessute fuori dal confronto franco e aperto con gli elettori. È  a loro, invece, che tocca decidere se affidare alla riforma costituzionale il futuro del Paese, ed è naturale che a porre questa domanda sia il governo nato sostanzialmente a questo scopo.

Del resto, uno dei significati della riforma non è forse il compimento di una transizione costituzionale che esponga con chiarezza governo e Parlamento al giudizio del corpo elettorale? E non è dunque in palese contraddizione con il verso stesso della riforma l’ipotesi ventilata da Angelino Alfano il Temporeggiatore? Mentre si sottolinea che la riforma è indispensabile per dare alla politica più speditezza, si cercano strategie più o meno confessate per troncare e per sopire, come il Padre Provinciale dei Promessi Sposi. Ma quello, si sa, era un personaggio secondario. E forse anche l’esile trama imbastita da Alfano ha dietro di sé protagonisti innominati.

(Il Mattino, 3 novembre 2016)

Il Presidente e l’eversore

ImmagineSono trascorsi poco più di tre mesi dalla dichiarazione del 13 agosto, e sul Colle nessuno ha cambiato idea: «di qualsiasi sentenza definitiva, e del conseguente obbligo di applicarla, non può che prendersi atto». Nulla, nel comportamento di Silvio Berlusconi, mostra invece che il Cavaliere voglia prenderne atto. Nonostante il principio della legalità, nonostante il rispetto dovuto alle istituzioni, nonostante la nota del Quirinale. Le parole che il Cavaliere ha usato venerdì, con maggiore veemenza del solito, per esigere – non chiedere ma addirittura esigere – la grazia lo dimostrano. Ma le precisazioni diramate ieri dall’ufficio stampa del Quirinale non riguardano la materia, già oggetto del comunicato di agosto. Già allora, infatti, Napolitano aveva scritto che sebbene il Presidente della Repubblica possa compiere un atto di clemenza anche in assenza di domanda, non può «prescindere da specifiche norme di legge, né dalla giurisprudenza e dalle consuetudini costituzionali nonché dalla prassi seguita in precedenza». Ora, nessuno, in precedenza, si era mai spinto al punto di pretendere di essere graziato. Né alcuno è mai stato graziato ancor prima di aver cominciato a scontare la pena, gravato peraltro da numerose altre pendenze giudiziarie. Le condizioni per un atto di clemenza, dunque, allo stato non sussistono. Ma le parole con cui Berlusconi getta benzina sul fuoco, «prive di ogni misura nei contenuti e nei toni» – come si sottolinea con preoccupazione dal Quirinale – aggravano ulteriormente il quadro. La novità non riguarda dunque il profilo giuridico della vicenda che coinvolge il Cavaliere: quella è chiara da tempo e attende solo di essere completata con la decadenza dal Senato e l’esecuzione della pena; riguarda invece il livello dello scontro politico, che Berlusconi alza minacciosamente, con parole irricevibili. «Non è accettabile che vengano ventilate forme di ritorsione ai danni del funzionamento delle istituzioni democratiche» aveva scritto Giorgio Napolitano il 13 agosto. Ma quel che ha detto l’altro ieri Berlusconi, che si starebbe compiendo un «colpo di Stato» a suo danno e che per questo bisogna reagire con una manifestazione di piazza, è precisamente una simile, inaccettabile ritorsione, che può addirittura mettere in pericolo la tenuta del quadro democratico. Di qui l’invito pacato ma fermissimo con cui si invita il Cavaliere a rimanere ben dentro la legalità, a non prendere decisioni o adottare iniziative che possano situarsi al di fuori della legge.

Il Cavaliere, in verità, si è già posto fuori della legge almeno una volta, dal momento che pesa su di lui una condanna passata in giudicato. Pretendere ora di cancellarla, sovvertirla, rinviarla, bypassarla, o in qualunque altra maniera si voglia dire, significa mettersi un’altra volta contro l’ordinamento giuridico del nostro paese, contro un verdetto definitivo della magistratura e contro gli italiani, visto che il rispetto delle leggi è a presidio e a garanzia di tutti.

Eppure non c’è verso. In ogni modo Silvio Berlusconi cerca di allontanare da sé l’appuntamento con la decadenza. Ieri il grand’uomo ha giudicato «umiliante» l’affidamento ai servizi sociali. Eppure, nella civiltà giuridica moderna la pena, lungi dall’essere semplicemente afflittiva, è al contrario proprio la via attraverso la quale il reo guadagna nuovamente dignità e rispettabilità sociale. È evidente che Silvio Berlusconi non vuole o non sa percorrere quella via, e forse non vuole più neppure ritrovare quella rispettabilità. Ed è un peccato che le bandiere di un partito politico, della neonata Forza Italia, siano levate in alto solo per fargli da nascondiglio.

(L’Unità, 25 novembre 2013)

Il Conclave e l’Italia sospesa

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Lo spirito soffia dove vuole, ma se volesse pure dare una mano all’Italia, con l’elezione del nuovo Papa, agli italiani, laici o cattolici che siano, forse non dispiacerebbe. D’accordo: la Chiesa cattolica ha una missione universale, non soltanto nazionale, e i suoi fedeli sono sparsi in tutti i continenti, e l’Europa non è più così centrale come un tempo e l’Italia lo è ancora meno. E poi i tempi di un’istituzione bimillenaria non si misurano sul piede della cronaca o dell’attualità. E soprattutto la sua sola e unica domanda – la più angosciosa, la più drammatica – non può che essere la domanda del Vangelo: «quando il Figlio dell’uomo tornerà, troverà ancora fede sulla terra?». Un Papa lo si fa per quello, perché il Figlio dell’uomo possa trovare ancora servi fedeli al suo ritorno. Sulla terra, non solo in quella piccola, alquanto malandata penisoletta che è l’Italia.

Ma questa volta il Conclave cade anche in un altro contesto: nel bel mezzo di una grave crisi economica e sociale, che dura da anni, a cui si è sommata una ancora più acuta crisi politica da cui non sappiamo se e quando l’Italia saprà uscire. Per questo se un soffio dello Spirito lambisse anche l’altra sponda del Tevere neppure l’ateo più accanito, forse, potrebbe dispiacersene.

Non è facile. Quando Friedrich Nietzsche spiegò cosa mai fosse il nichilismo, l’ospite inquietante che secondo lui ci avrebbe tenuto compagnia per un paio di secoli almeno (Nietzsche scriveva alla fine dell’800, dunque pure col nichilismo siamo ancora a metà del guado), provò a descriverla come quella situazione nella quale «l’uomo rotola via dal centro verso la x». E in effetti, mai come in questi giorni  di questa caduta non si vede il punto di arresto. Mai come in questa fase l’Italia sembra aver perduto stabilità e centralità, tanto rispetto al contesto europeo e internazionale quanto rispetto al suo stesso destino storico, che non sa più decifrare. Mai come in questa congiuntura, mentre un settennato volge al termine, e una nuova legislatura fatica a incominciare, e non c’è nessuno che abbia qualcosa più di un’ipotesi arrischiata sul futuro prossimo venturo, si sente la mancanza di certezze, e forse anche il bisogno di qualche rassicurazione. Così si aspetta la fumata bianca per poter pensare: almeno questa è fatta, qualcosa finalmente comincia ad andare per il verso giusto.

Non si tratta solo di psicologismo spicciolo: c’è effettivamente nel Paese una sorta di sospensione, di finta calma, di surreale immobilità. Persino i mercati finanziari sembrano attendere gli eventi, invece di tentare di determinarli con la solita, frenetica aggressività. Forse al paese è accaduto veramente di ritrovarsi sospeso in quella grande bonaccia delle Antille che raccontò Italo Calvino: senza un alito di vento verso una qualunque direzione, la nave dei corsari che rimane ferma per mesi, a fronteggiare da lungi i galeoni dei Papisti, in un’asfissiante bonaccia. Il fatto è che se domani, se nei prossimi giorni (ma presto, per carità!) dal comignolo di San Pietro venisse fuori un filo di fumo bianco, vorrebbe dire che almeno la barca di San Pietro ha ritrovato il suo capitano ed ha ripreso il mare.

La parabola marinara di Calvino era rivolta anzitutto contro l’immobilismo del PCI di Togliatti (che infatti la prese a male). Questa volta si tratta però, più gravemente, dello stallo dell’intero sistema politico, finito in un pauroso buco di vento.

Intendiamoci: neanche per la Chiesa la navigazione potrà essere tranquilla. Quando l’allora cardinale Joseph Ratzinger tenne la sua ultima omelia, prima che si chiudessero le porte del Conclave che lo scelse papa, parlò con inusitata determinazione della «sporcizia della Chiesa», da cui bisognava liberarsi. Dopo sono venuti gli scandali, lo Ior, Vatileaks, la pedofilia, il maggiordomo infedele e la riapertura del caso Orlandi, l’acuirsi della crisi delle vocazioni e gli scontri all’interno della Curia: infine, le inaudite dimissioni del Papa. Anche Ratzinger aveva usato una parabola marinara: «spesso, Signore, la tua Chiesa ci sembra una barca che sta per affondare, una barca che fa acqua da tutte le parti». Ma Bemedetto XVI ha lasciato, e mettere la barca in condizione di affrontare nuovamente il mare è il compito del futuro Papa: un nuovo Pontefice potrebbe averne la forza, essere il legno al quale i credenti potranno aggrapparsi.

E l’Italia? Quando l’Italia potrà salpare nuovamente, da dove potrà ripartire? Dalla saggezza di Napolitano? Sicuramente, ma ha soltanto un mese di mandato davanti a sé. Dai partiti? Ma sono investiti da un ciclone ancora più impetuoso di quello che li travolse con Tangentopoli. Dal Movimento 5 Stelle? Ma sembra lontanissimo da una qualunque idea di governo, e finanche dalle consuetudini parlamentari. Da un nuovo spirito pubblico, allora?

Ecco: se lo Spirito, che soffia dove vuole, dopo aver lasciato la Cappella Sistina mandasse qualche sbuffo pure dalle nostre parti e facesse circolare un po’ di aria nuova, di idee e di forze nuove, forse anche l’Italia potrebbe riprendere il vento.

Il Messaggero, 12.03.2013

Ultima chance per i partiti o è suicidio

La selva di proposte di riforma della legge elettorale somiglia sempre più ad un’altra famosa selva: quella del canto tredicesimo dell’Inferno. «Non rami schietti, ma nodosi e ‘nvolti», scriveva Dante, ed in effetti: trovatela voi una proposta di legge che non  sia «‘nvolta», involuta cioè, complessa e tortuosa come non mai. Soglie di sbarramento, premi al partito o alla coalizione fissati un po’ più su o un po’ più giù, e circoscrizioni e collegi e preferenze e turni unici o doppi turni: non si può dire che la materia non offra spine velenose ed aspri sterpi, tra i quali sembra proprio che non si riesca ad avanzare di un solo passo. E anche al cittadino italiano, che come il Poeta si è messo per un simile bosco, vien fatto di esclamare: «Io sentia d’ogne parte trarre guai». Non c’è nessuno, infatti, che non mandi alti lai per l’orribile Porcellum, anche se poi non si capisce, come nella selva dantesca, chi diavolo sia a lamentarsi, visto che passano gli anni e i mesi e il Porcellum è sempre lì, a farsi beffe dei propositi di riforma. «Cred’io ch’ei credette ch’io credesse», scrive allora l’Alighieri, e anche se non pensava al balletto di dichiarazioni e controdichiarazioni sulla materia elettorale, la cosa sembra che stia proprio così, fra l’uno e l’altro dei leader della strana maggioranza che si palleggiano le responsabilità, in un gioco sempre più incomprensibile (o forse fin troppo comprensibile) di tatticismi e convenienze, proprie ed altrui.

Eppure una cosa è certa: la riforma elettorale s’ha da fare. Dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano all’ultimo dei cittadini, è convinzione di tutti che non si possa andare al voto con l’attuale legge. Se i partiti non pensano di dover togliere dal tavolo l’argomento che questa legge rimette nelle mani di cinque o sei persone la scelta dell’intera rappresentanza nazionale, trasformando di fatto un organismo elettivo in un’assemblea di nominati, né prevede una soglia minima oltre la quale assegnare un premio in seggi, consentendo così a formazioni anche assai lontane dal 50% dei suffragi di diventare maggioranze parlamentari, vuol dire che non avvertono abbastanza il problema, che pure denunciano, di una perdita di credibilità della politica.

C’era un impegno a cambiare: va mantenuto. Ma si discute di date ed election day: il Pdl vuole accorpare voto regionale e voto nazionale, il Pd non intende accettare uno slittamento in avanti del voto regionale. Se però la soluzione fosse di anticipare il voto nazionale, potrebbero chiudersi definitivamente gli spazi per la riforma del Porcellum. Il Pdl otterrebbe di scongiurare il temuto effetto di trascinamento sulle politiche dio un voto regionale negativo. Il Pd otterrebbe di avvicinare il passaggio di consegne, nell’ipotesi, accreditata dai sondaggi, di una sua vittoria nelle urne. Ma l’Italia avrebbe ancora, per la terza legislatura consecutiva, una legge elettorale suina.

Ora, è vero che una legge elettorale non ha rango costituzionale, ma è difficile scindere il giudizio sul sistema politico – sulla sua moralità, sul suo prestigio, sulla sua funzione di rappresentanza, sulla capacità di determinare indirizzi istituzionali e di programma – dal giudizio sul sistema di voto. Lasciando le cose come stanno, non avremmo il primo provvedimento verso l’agognata terza Repubblica, ma l’ennesimo stallo in cui ci ha precipitati la seconda. E i partiti, invece di avviare il loro riscatto, procurerebbero ancora l’impressione di essere finanche disposti  a mandare a casa il governo Monti , pur di tutelare il loro proprio tornaconto. (E Grillo, nel frattempo, continuerebbe a ridersela alla grande).

Verrebbe voglia, in tale ipotesi, di continuare con la fosca similitudine dantesca. Perché la selva di cui parla Dante è la selva dei suicidi. E di suicidio politico c’è il rischio che si debba parlare. Nella Commedia, a coloro che si tolgono la vita viene inflitta la pena di vedere le spoglie mortali appese ai rami, senza che essi possano rientrare in possesso dei loro corpi. Continuando di questo passo, la tragedia è che delle istituzioni democratiche potrebbero non restare che morte spoglie. E la politica, ben lungi dal tornare in possesso della sua funzione, potrebbe essere costretta ad un ruolo sempre più marginale: se non nel Parlamento, certo presso la grande maggioranza dei cittadini.

(Il Mattino, 17 novembre 2012)

Grillo-Di Pietro l’ultima faida dei due tribuni

Sotto la gragnuola di insulti rivolti da Beppe Grillo all’indirizzo del “corteo di salme” che avrebbe celebrato la Resistenza, è  forse il caso di citare a nostra volta: “Cari amici, allontanarsi il più possibile da ogni manifestazione politica è stato il più terribile risultato di un’opera di diseducazione ventennale, che è riuscita a inchiodare in molti di noi dei pregiudizi, fondamentale quello della «sporcizia» della politica.”: sono le parole di Giacomo Ulivi, anni 19, fucilato il 10 novembre 1944, ricordate da Giorgio Napolitano in occasione del 25 aprile. Sono parole che lasciano il segno, e che è merito del Presidente della Repubblica avere riproposto in un momento così delicato per il nostro Paese, per la sua classe politica e per i partiti. Sono parole necessarie: non per assolvere i partiti politici dalle loro responsabilità, che ci sono tutte, ma al contrario perché se le assumano nuovamente, così come seppero assumersele in momenti ancora più difficili di quelli che stiamo attraversando. Parole che contengono anche la risposta alla domanda che dalle colonne de Il Fatto ha formulato Antonio Di Pietro. Piccato dal richiamo del Presidente, che invitava a non dare ascolto ai demagoghi di turno, spaventato forse al pensiero che gli stia per toccare in sorte di passare il turno al demagogo più demagogo di lui, ossia a Grillo, il leader dell’Idv si è chiesto se fosse antipolitica il referendum sull’acqua o la proposta di abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, cioè le campagne in cui ha voluto impegnare il suo partito. E mentre se lo chiedeva con finta ingenuità, non trovava di meglio che denunciare come supremo pericolo per il paese non la demagogia, il populismo o l’antipolitica, bensì i partiti, i veri “traditori della Resistenza” che andrebbero cacciati “a calci nel sedere”. Vale a dire: metto lì due proposte, ma i voti me li conquisto dando loro il preciso mandato di coltivare il pregiudizio sulla sporcizia della politica.

Come del resto Grillo, con il quale Di Pietro deve sentirsi in corsa. Anche Grillo ha le sue brave proposte: l’uscita dall’euro, ad esempio. E anche lui le butta lì tra un insulto e l’altro, con l’intenzione precisa di delegittimare la classe politica tutta quanta, indiscriminatamente, immaginando persino, non è chiaro se per ignoranza o per disprezzo, che i partigiani prenderebbero oggi la mitraglia contro il Parlamento eletto, che lui giudica, con fine sapienza giuridica, “peggio di quello fascista”.

Ma cacciamoli pure, i partiti: cosa ci dovremmo mettere al loro posto? “Rifiutarli in quanto tali – si chiede il Presidente – dove mai può portare”? O Di Pietro e Grillo immaginano di governare il paese a colpi di manette, referendum popolari e scomuniche a mezzo blog? Nel discorso di Napolitano, non c’era solo una sottolineatura forte e convinta, a norma di Costituzione, del ruolo decisivo dei partiti, ma anche l’invito pressante a fare le riforme, nella consapevolezza della dimensione europea dei problemi che abbiamo dinanzi. Ma per il comico genovese basta uscire dall’euro, et voilà.

Per il resto, quel che gli interessa è alimentare l’illusione che se potessimo liberarci della classe politica saremmo tutti più ricchi, sani e belli, quando invece non solo non ci ritroveremmo affatto più ricchi, ma di sicuro sarebbe impoverita l’articolazione sociale, politica e istituzionale del Paese, con grave nocumento per la sua tenuta democratica.

Napolitano sta provando da qualche mese a indicare la via, spronando partiti e parti sociali a cercare insieme le soluzioni per riprendere la strada della crescita: non solo economica, si vorrebbe aggiungere, ma anche civile. E mentre prova così a favorire un rinnovato clima di fiducia e di leale collaborazione, Di Pietro e Grillo si danno di gomito e cercano di aizzare sentimenti contrari. Tanto il Presidente invita a abbandonare le campagne contro i partiti in quanto tali, tanto i due grandi moralizzatori le conducono e le cavalcano.

Che allora qualcuno spieghi loro perlomeno questo: che del metodo democratico richiesto dalla Costituzione perché i partiti concorrino a determinare la politica nazionale, nei loro personalissimi movimenti e partiti c’è, chissà perché, poca, pochissima traccia. Di sicuro meno di quanta ce ne sia nei partiti che tanto disprezzano.

Il Mattino, 27 aprile 2012