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La verità storica parla da sé

Torno su un argomento che ho già affrontato qualche anno fa («Left Wing», La sinistra che ha paura del relativismo, 27 marzo 2006)

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Vorrei provare a togliere un po’ di evidenza alla diffusa convinzione che l’introduzione del reato di negazionismo sia un atto dovuto, oppure una misura di civiltà, e in ogni caso una misura auspicabile. Dopo il caso dei funerali del boia delle fosse Ardeatine, e nell’anniversario del rastrellamento del ghetto di Roma, può sembrare decisamente inopportuno imbastire una simile discussione, e tuttavia vorrei provarci lo stesso, convinto come sono di poter sostenere la mia tesi a onore della democrazia, e non in spregio della verità o della morale. Preciso subito cosa sia in discussione: non l’apologia o l’istigazione, che l’emendamento presentato da Felice Casson (Pd) tratta come aggravanti, ma il semplice fatto di «negare l’esistenza di crimini di genocidio o contro l’umanità». Il tema è dunque se debba essere considerato un reato, punibile con la reclusione fino a cinque anni, chi nutrisse ad esempio l’opinione che le camere a gas non sono mai esistite.

A tal proposito, mi sia consentito accantonare la questione, pur rilevante, di come le società contemporanee tendano a «penalizzare», a sottomettere cioè a norme penali,  una quota via via crescente di comportamenti, con risultati spesso assai discutibili. Vorrei prendere infatti la cosa da un altro lato, dal lato del rapporto, in democrazia, fra verità e opinione. Qualche anno fa la condanna dello storico inglese David Irving a tre anni di detenzione, in Austria, per aver sostenuto che le camere a gas non sono mai esistite, sollevò infatti, a questo riguardo, un vivace dibattito, fra quanti consideravano giusta la condanna e quanti invece la criticavano, in nome della fondamentale libertà di opinione, che intendevano dovesse estendersi anche ad opinioni non solo scomode ma addirittura repellenti come quella difesa da Irving, e tanto più repellenti quanto più ammantate di presunta scientificità. Altrettanto repellente – non posso non notarlo – è stato l’atteggiamento fintamente critico esibito solo pochi giorni fa da Piergiorgio Odifreddi, in questi orrendi termini: «non entro nello specifico delle camere a gas, perché di esse “so” appunto soltanto ciò che mi è stato fornito dal “ministero della propaganda” alleato nel dopoguerra. e non avendo mai fatto ricerche al proposito, e non essendo comunque uno storico, non posso far altro che “uniformarmi” all’opinione comune”». In Italia, la filosofa Luisa Muraro fece osservare a suo tempo che, come a scuola non accettiamo che uno studente usi il «secondo me» per fatti storici assodati, così non dobbiamo accettare che nel dibattito pubblico si introduca ogni e qualsiasi opinione, con la medesima auto-assolutoria clausola. Allo stesso modo, aggiungo, non accetteremmo uno studentello che, in stile Odifreddi, si rifiutasse, che so, di affermare, temendo la propaganda «latina», che Cesare passò il Rubicone, non avendo mai fatto ricerche in prima persona. Come dunque tuteliamo e insegniamo la verità nella sede scolastica, così non dovremmo rinunciarvi neppure nel più ampio spazio pubblico, in nome di una libertà laica ma sin troppo rinunciataria: «Si ha paura di dare esca a una concezione autoritaria e fanatica della verità – scriveva la Muraro – ma si deve anche avere paura di lasciare la verità esposta all’uso demagogico e strumentale, e di finire così tutti nel relativismo e nell’indifferenza».

Ecco allora il punto che vorrei sostenere: non c’è ragione di pensare che la libertà di opinione, non assistita dalla norma penale sanzionatoria, ci esponga tutti a un relativismo indifferente e arrendevole. Si può essere meno paurosi e più fiduciosi nella capacità della democrazia di relegare ai margini opinioni come quelle di Irving (o di Odifreddi). In linea di fatto è proprio quel che fa: anche senza la sanzione penale, non tutte le opinioni ricevono uguale accoglienza. È un fatto importante, che dovrebbe stare a cuore a chiunque abbia una concezione robusta della democrazia, come di quel regime che non si affida semplicemente alla conta delle opinioni, ma che proprio attraverso quella conta seleziona verità.  La democrazia non ha cioè solo un fondamento negativo (liberale): nessuno possiede la verità, per questo tutte le opinioni sono lecite; ne ha anche uno positivo: tutti, insieme, scambiandoci opinioni, restringiamo progressivamente lo spazio del falso e camminiamo verso la verità. È la mancanza di questa fiducia (ed eventualmente degli istituti e delle formazioni politiche e sociali che debbono nutrirla) a rendere imbelle una democrazia, e inerme il carattere dell’homo democraticus. Ma, in tal caso, state pur certi che non sarà una norma penale a proteggerlo dalla falsità e dalla menzogna.

(«Il Mattino», 17 ottobre 2013  –  Lo stesso articolo è anche su «Il Messaggero», con titolo Negazionismo, lite sulla legge. Qualche dubbio sul nuovo reato)

Negazionismo demolito dai quattro scatti di Alex

“Urgente. Inviate il più rapidamente possibile due rullini di pellicola in metallo per macchina fotografica 6×9. Possiamo fare foto”: possiamo fotografare l’orrore, possiamo inviare scatti da Birkenau. Possiamo, perché lo abbiamo fatto: Alex, un ebreo greco membro dei Sonderkommando – le squadre speciali che gasavano i detenuti del campo di sterminio – nascosto proprio dentro le camere a gas appena svuotate, è riuscito a fotografare le fosse di incinerazione e i suoi compagni di lavoro mentre si muovono macabri fra i cadaveri. Il biglietto della resistenza polacca e i quattro scatti di Alex sono giunti fino a noi, infilati in un tubetto di pasta dentifricia. Noi, perciò, lo sappiamo: le camere a gas sono esistite, lo sterminio di massa è stato compiuto. E in verità esiste ormai una documentazione imponente: non solo i quattro pezzi di pellicola strappati all’inferno, come li ha definiti Didi-Huberman, ma documenti, testimonianze, ritrovamenti. Non solo non c’è spazio alcuno per il dubbio, ma non c’è modo di considerare una semplice opinione quella di chi, nonostante tutto, nega la Shoah.

Contro il negazionismo Donatella Di Cesare ha  scritto il suo ultimo libro, teso e fermo, Se Auschwitz è nulla, per richiamare l’attenzione su un fenomeno che non ha nulla di intellettualmente presentabile, nulla di storicamente valido, nulla di politicamente accettabile, e che tuttavia non cessa di presentarsi in forme che non offendono solo la memoria delle vittime, ma minacciano l’identità stessa dell’Europa democratica: ricostituitasi, come dice Di Cesare, “sulla cenere, su un luogo, fragile e friabile, come le pagine dei libri dati ai roghi”.

Ma come fanno a negare coloro che negano? Jean Francois Lyotard lo ha spiegato esponendo l’ignobile sofisma del negazionista Faurisson, il quale aveva scritto: “Ho cercato, invano, un solo ex deportato capace di provare che aveva realmente visto, con i suoi occhi, una camera a gas”. Ecco come fa, il buon Faurisson: per avere visto e provare che le camere davano la morte, occorre essere morti. Se si è morti, si può testimoniare che quelle che si sono viste sono effettivamente camere a gas, che è Ziklon B il gas che vi viene iniettato, che sono forni crematori quelli in cui le vittime vengono bruciate. La testimonianza del sopravvissuto, in quanto è un sopravvissuto, non è probante e non basta; la sua memoria non vale.

E invece vale. Vale ed è la cosa più preziosa. Vale anzitutto per smascherare quelli come Faurisson, o come David Irving, gente che sotto una lacca di rispettabilità scientifica non si limita a instillare dubbi, ma finisce con l’assecondare di fatto il progetto genocidiario di uno spazio judenrein, depurato dagli ebrei.

Cosa infatti negano coloro che negano, se non che vi siano tracce dei crimini commessi? Essi negano cioè proprio quello che i nazisti volevano cancellare. Nessuno avrebbe mai dovuto sapere. Nel negare l’accaduto, i negazionisti – accusa Di Cesare – proseguono l’opera: “sorvolano i lager per accertarsi che la terra si sia chiusa definitivamente e il fumo si sia disperso”. Ogni domanda sulla memoria della Shoah deve dunque partire dal fatto che, serbandola, si impedisce che svanisca anche la cenere di coloro che passarono per i camini. Per questo, abbiamo la risposta alla domanda di Adorno se sia possibile poesia dopo Auschwitz. E sappiamo anche se davvero Auschwitz sia stato un orrore così grande da essere indicibile. “La lotta contro i negazionisti sarebbe già persa, se si concedesse l’indicibilità di Auschwitz”, scrive infatti Di Cesare. E dire Auschwitz, spiegare, comprendere, non vuol dire né giustificare né banalizzare o relativizzare, ma ricordare e vigilare.

La vigilanza deve però essere affidata alla memoria collettiva, e non semplicemente al ricordo individuale. Perché la memoria non è solo la registrazione obiettiva dei fatti, ma anche il debito di giustizia nei confronti di coloro che sono morti, e che purtroppo, come diceva Benjamin, neppure da morti possono sentirsi al riparo dall’affronto dell’oblio.

Perché negano, infatti, coloro che negano? Non certo per stabilire come davvero andarono le cose, ma per farle andare ancora oggi in una certa maniera. Il negazionismo non è un incomprensibile rigurgito del passato; è anche un pericolo nel presente. Cosa ha spinto difatti Ahmadinejad a organizzare una conferenza sull’Olocausto, se non l’intenzione di togliere a Israele la religione della memoria, e minarne così la legittimità? Ma noi sappiamo: Auschwitz è esistita, Birkenau è esistita. E lo sterminio di ebrei (di zingari, di omosessuali, handicappati, nemici politici) chiama non Israele ma l’Europa intera, tutti noi, l’umanità stessa, a ricordare e tramandare per poter ancora vivere con dignità. Noi lo sappiamo: ci sono le foto, e ci siamo noi.

L’Unità, 27 gennaio 2011

M'ingerisco

M’ingerisco solo un momento negli affari della Chiesa, a proposito della revoca della scomunica dei quattro vescovi lefebvriani. Tutti a prendersela col povero Williamson, che in materie che non impegnano la sua autorità di vescovo ha idee storicamente un po’ ardite e alquanto negazioniste, o col Papa, che giustamente non chiede conto di queste arditezze perché non c’entrano nulla con la comunione della Chiesa appena ritrovata.
Io no. Io ho letto la remissione della scomunica: è tutto in ordine. Fellay riconosce il primato di Pietro, e il successore di Pietro revoca conseguentemente la scomunica. Molto bene: è la storia della pecorella smarrita, suppongo.

Ora però mi piacerebbe solo sapere, a margine, che giudizio dia l’attuale Pontefice di uno dei momenti più significativi (più ‘spirituali’) del papato di Wojtyla. Ecco quello che ne pensava (e, forse, ne pensi ancora) mons. Fellay, il capo dei lefebvriani (o, più rispettosamente, il Superiore Generale della Fraternita’ Sacerdotale San Pio X):

"Il Papa Giovanni Paolo II convoca le grandi religioni del mondo, e in particolare i musulmani, ad una grande riunione di preghiera ad Assisi, nello spirito della prima riunione che si tenne nel 1986 per la pace. 
Questo avvenimento provoca la nostra profonda indignazione e la nostra riprovazione.
Perché offende Dio e il suo primo comandamento.
Perché nega l’unicità della Chiesa e della sua missione salvifica.
Perché conduce i fedeli direttamente all’errore dell’indifferentismo.
Perché inganna gli sventurati infedeli e i seguaci delle altre religioni".
 
Fellay non ha dubbi: "le religioni che rifiutano la Sua divinità esplicitamente, come il Giudaismo e l’Islam, sono destinate al fallimento nelle loro preghiere, a causa di un errore cosí fondamentale". Perciò conclude: " Una cosa è certa: non v’è niente di meglio per provocare la collera di Dio".
Non mi è chiaro ora se l’errore fondamentale di Wojtyla non c’è rischio che la Chiesa commetta ancora, con Benedetto XVI, o se invece Fellay non pensi più che di errore fondamentale si trattava. In ogni caso, ritrovata la comunione, Dio non è più in collera con nessuno dei due: né col Papa né con Fellay.
(Oppure lo è: con tutti e due?)