Forse è stata la fine dei grandi racconti. Oppure il tramonto di ogni utopismo e la prevalenza di una ragione cinica e disincantata: sta di fatto che il Sessantotto appare oggi lontanissimo dai quadri culturali dell’epoca attuale. E certo è più facile trovare condivisione intorno ai giudizi sferzanti di un Raymond Aron sulla «maratona delle chiacchiere» o sui «rivoluzionari da aula magna», che non emozionarsi al pensiero di quegli anni formidabili, per dirla con un campione della nostalgia sessantottina, Mario Capanna.
Può darsi che non sia soltanto la distanza storica, ma un rattrappimento effettivo degli spazi della politica o delle ambizioni teoriche, certo è che molto di quel sussulto rivoluzionario appare oggi quasi incomprensibile, nonostante l’affabulazione sessantottesca ne abbia a lungo rimandato l’eco, sempre più sbiadendo lo spontaneismo, il velleitarismo, l’estremismo, l’egualitarismo radicale, il dilettantismo. Ecco quel che, nel fatto, accadeva: una società profondamente trasformata nel giro dei due decenni che seguirono la fine del conflitto mondiale sperimentava un nuovo benessere, ma rifiutava al contempo le istituzioni politiche, sociali ed economiche che lo avevano reso possibile – la democrazia, i partiti, l’università, la fabbrica – in cui riconosceva solo tratti repressivi e autoritari.
E tanto bastò per fare la rivoluzione. O almeno per provarci per qualche mese. La critica definitiva della società repressiva, comunque, ebbe i suoi profeti. Primo fra tutti Herbert Marcuse, il filosofo dell’eros e della «liberazione di una nuova sensibilità» che nel luglio del ’67, agli studenti della Libera Università di Berlino, già spiegava come nuovi, liberi bisogni vitali sarebbero sorti dalla «eliminazione degli orrori della industrializzazione e della commercializzazione capitalistica, dalla totale ricostruzione delle città e dalla restaurazione della natura».
Vasto programma. Al cui confronto, certo, riesce troppo limitato quello che oggi si offre ai cittadini-utenti della rete, alle prese non più con lo sproposito dell’immaginazione al potere, o con l’iperbolico «non lavorate!» del situazionista Guy Debord, ma con il più modesto numero di like ai post. Allora si voleva che qualunque cosa fosse alla portata di chiunque («vogliamo tutto!»), oggi è Amazon che suggerisce la stessa mira.
Ma la stella di Marcuse brillò altissima, in una confusa costellazione nella quale – insieme all’anarchismo, al libertarismo, al maoismo, al «Che» e a Ho Chi Minh – avevano potuto incontrarsi Friedrich Nietzsche e Karl Marx, grazie soprattutto al libro che Gilles Deleuze aveva dato alle stampe già nel 1962: «Nietzsche e la filosofia». Il filosofo di Dioniso serviva per andare oltre la concezione marxiana dell’alienazione e oltre pure le teorie freudiane dell’inconscio, e denunciare così in tutte le forme della società borghese, pubbliche e private, nient’altro che una corazza di violenza della quale liberarsi.
In realtà la violenza – quella vera – arrivò dopo, negli anni Settanta. Da una più radicale democratizzazione degli spazi sociali al proposito di abbattere gli istituti della democrazia liberale il passo fu, purtroppo, assai breve. La mitologizzazione del Maggio francese ha di fatto reciso i legami con quello che ci fu prima, e con quello che ci fu dopo. Ma almeno in Italia il ’68 coprì un arco di lotte decennale, «l’esplodere e l’espandersi di una insubordinazione proletaria, operaia e studentesca, popolare ed intellettuale», così come l’ha ricordata uno dei suoi protagonisti, Toni Negri. Che il ’68 se lo ritrova ancora nella testa e nelle gambe, quando dice che «non si può più pensare, né vivere, come si pensava o si viveva prima».
E però, mentre Negri esalta la rivoluzione delle forme di vita (o più modestamente dei costumi) promossa dal ’68, escono libriccini come «Il Sessantotto realizzato da Mediaset», di Valerio Magrelli, o come «Berlusconi o il ’68 realizzato», di Mario Perniola, che a quella rivoluzione danno tutt’altro significato, e esito: l’anti-intellettualismo, la completa deregolamentazione del comportamento individuale, un’istanza desiderante non sottoponibile a censura alcuna, il rifiuto del principio della competenza, l’ostilità verso la cultura «ufficiale», di maggioranza e di opposizione (si pensi ai seni sventolati dinanzi a un intimidito e timidissimo Theodore Adorno). Tutte cose che, ben lungi dall’annunziare la fine del capitalismo, hanno se mai affievolito lo spirito civico di una cittadinanza democratica autenticamente critica e razionale. Forse, la talpa della rivoluzione quella volta non ha scavato bene.
(Il Messaggero e Il Mattino, 31 dicembre 2017)