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Il fascino delle utopie naufragato alla prova del realismo

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Forse è stata la fine dei grandi racconti. Oppure il tramonto di ogni utopismo e la prevalenza di una ragione cinica e disincantata: sta di fatto che il Sessantotto appare oggi lontanissimo dai quadri culturali dell’epoca attuale. E certo è più facile trovare condivisione intorno ai giudizi sferzanti di un Raymond Aron sulla «maratona delle chiacchiere» o sui «rivoluzionari da aula magna», che non emozionarsi al pensiero di quegli anni formidabili, per dirla con un campione della nostalgia sessantottina, Mario Capanna.

Può darsi che non sia soltanto la distanza storica, ma un rattrappimento effettivo degli spazi della politica o delle ambizioni teoriche, certo è che molto di quel sussulto rivoluzionario appare oggi quasi incomprensibile, nonostante l’affabulazione sessantottesca ne abbia a lungo rimandato l’eco, sempre più sbiadendo lo spontaneismo, il velleitarismo, l’estremismo, l’egualitarismo radicale, il dilettantismo. Ecco quel che, nel fatto, accadeva: una società profondamente trasformata nel giro dei due decenni che seguirono la fine del conflitto mondiale sperimentava un nuovo benessere, ma rifiutava al contempo le istituzioni politiche, sociali ed economiche che lo avevano reso possibile – la democrazia, i partiti, l’università, la fabbrica – in cui riconosceva solo tratti repressivi e autoritari.

E tanto bastò per fare la rivoluzione. O almeno per provarci per qualche mese. La critica definitiva della società repressiva, comunque, ebbe i suoi profeti. Primo fra tutti Herbert Marcuse, il filosofo dell’eros e della «liberazione di una nuova sensibilità» che nel luglio del ’67, agli studenti della Libera Università di Berlino, già spiegava come nuovi, liberi bisogni vitali sarebbero sorti dalla «eliminazione degli orrori della industrializzazione e della commercializzazione capitalistica, dalla totale ricostruzione delle città e dalla restaurazione della natura».

Vasto programma. Al cui confronto, certo, riesce troppo limitato quello che oggi si offre ai cittadini-utenti della rete, alle prese non più con lo sproposito dell’immaginazione al potere, o con l’iperbolico «non lavorate!» del situazionista Guy Debord, ma con il più modesto numero di like ai post. Allora si voleva che qualunque cosa fosse alla portata di chiunque («vogliamo tutto!»), oggi è Amazon che suggerisce la stessa mira.

Ma la stella di Marcuse brillò altissima, in una confusa costellazione nella quale – insieme all’anarchismo, al libertarismo, al maoismo, al «Che» e a Ho Chi Minh – avevano potuto incontrarsi Friedrich Nietzsche e Karl Marx, grazie soprattutto al libro che Gilles Deleuze aveva dato alle stampe già nel 1962: «Nietzsche e la filosofia». Il filosofo di Dioniso serviva per andare oltre la concezione marxiana dell’alienazione e oltre pure le teorie freudiane dell’inconscio, e denunciare così in tutte le forme della società borghese, pubbliche e private, nient’altro che una corazza di violenza della quale liberarsi.

In realtà la violenza – quella vera – arrivò dopo, negli anni Settanta. Da una più radicale democratizzazione degli spazi sociali al proposito di abbattere gli istituti della democrazia liberale il passo fu, purtroppo, assai breve. La mitologizzazione del Maggio francese ha di fatto reciso i legami con quello che ci fu prima, e con quello che ci fu dopo. Ma almeno in Italia il ’68 coprì un arco di lotte decennale, «l’esplodere e l’espandersi di una insubordinazione proletaria, operaia e studentesca, popolare ed intellettuale», così come l’ha ricordata uno dei suoi protagonisti, Toni Negri. Che il ’68 se lo ritrova ancora nella testa e nelle gambe, quando dice che «non si può più pensare, né vivere, come si pensava o si viveva prima».

E però, mentre Negri esalta la rivoluzione delle forme di vita (o più modestamente dei costumi) promossa dal ’68, escono libriccini come «Il Sessantotto realizzato da Mediaset», di Valerio Magrelli, o come «Berlusconi o il ’68 realizzato», di Mario Perniola, che a quella rivoluzione danno tutt’altro significato, e esito:  l’anti-intellettualismo, la completa deregolamentazione del comportamento individuale, un’istanza desiderante non sottoponibile a censura alcuna, il rifiuto del principio della competenza, l’ostilità verso la cultura «ufficiale», di maggioranza e di opposizione (si pensi ai seni sventolati dinanzi a un intimidito e timidissimo Theodore Adorno). Tutte cose che, ben lungi dall’annunziare la fine del capitalismo, hanno se mai affievolito lo spirito civico di una cittadinanza democratica autenticamente critica e razionale. Forse, la talpa della rivoluzione quella volta non ha scavato bene.

(Il Messaggero Il Mattino, 31 dicembre 2017)

Viaggio intorno all’uomo, inseguendo l’etica

Paolozzi

Eduardo Paolozzi, The Philosopher (1957)

«Il tema di questo libro è una pratica di resistenza». Non è vero, dunque, come invece recita il titolo del romanzo di Walter Siti, che resistere non serve a niente. Eugenio Mazzarella, nel suo ultimo saggio su «L’uomo che deve rimanere. La smoralizzazionne del mondo (Quodlibet, € 20), invita a contrastare, anzitutto con i mezzi intellettuali della riflessione, l’avvento di «un altro uomo; un uomo senza l’uomo che fin qui siamo stati».

Non capita di frequente, soprattutto nel panorama italiano, di imbattersi in un libro che dichiara apertamente di tenere un orientamento «conservatore». C’è una sorta di pudore, o forse di imbarazzo, che circonda questa parola, soprattutto nel campo del pensiero: si incontrano moderati o liberali, ma molto pochi sono quelli che invece si dicono schiettamente conservatori. Qui però non è in gioco una conservazione sul piano della dottrina sociale o politica, ma su un terreno più fondamentale, che è quello che riguarda la stessa specie umana, la sua condizione antropologica che certo non può essere ricondotta a un’immodificabile natura, ma neppure – sostiene Mazzarella – essere travolta dalla totale culturalizzazione – e, ormai, tecnicizzazione e artificializzazione –  del dato naturale. Questo è, appunto, il terreno sul quale Mazzarella prova a offrire argomenti a difesa dell’uomo, dei suoi tradizionali assetti antropologici, del campo dei significati in cui si è finora riconosciuto in quanto uomo.

I fenomeni che vengono presi in considerazione sono molti: riguardano certo la profonda trasformazione degli ordinamenti sociali, sempre più plasmati da una «individualizzazione mercatoria» che non riconosce più alcuna istanza superiore all’individuo e ai suoi desideri, ma chiamano in causa soprattutto la nuova capacità di intervento tecnologico su ciò che una volta era considerato l’invariante biologico della specie homo sapiens sapiens. E coinvolgono, infine, la rivoluzione dei costumi, l’«atomizzazione desiderante» che minaccia di spezzare definitivamente il rapporto fra sessualità e filiazione e di cancellare, insieme al primato dell’unione eterosessuale, la cellula costitutiva della associazione umana, così come l’antropologia culturale (Levi Strauss, in particolare) ha saputo consegnarcela.

Mazzarella chiama dunque «smoralizzazione» del mondo non la crisi dei valori: quel che è minacciato non sono infatti i valori, ma la possibilità stessa che si formi un ethos, un costume collettivo, degli abiti sociali che non possono mai essere il risultato di scelte puramente individuali. Ecco la tesi di fondo del libro, che dall’antropologia di Plessner alla fantascienza di Philip Dick, passando per la grande tradizione del pensiero filosofico (filtrata soprattutto da Kant, Nietzsche e Hiedegger), viene declinata con finezza di analisi e di prospettive: «L’accumunazione sociale non è mai l’ex post, ma l’ex ante dell’agire degli individui».

L’Autore non si nasconde che il terreno sul quale siamo è segnato già da un secolo dalla profezia di Nietzsche sul nichilismo della nostra epoca. E sa che se c’è una cosa alla quale si ribella la volontà di potenza (che del nichilismo costituisce il fondo ontologico) è proprio il peso del passato, l’immutabilità del «così fu»: come potrà allora resistere la posizione, o la presupposizione, di ciò che è «ex ante» (la «previetà comunitaria»), di ciò che viene prima della libertà dell’uomo? Di fronte al rischio di una perdita del mondo e dell’uomo come lo abbiamo conosciuto, Mazzarella non esita a mostrare tutto il suo scetticismo verso le magnifiche sorti e progressive della tecnica e del mercato. E però è pur sempre a una decisione che rimette in ultimo il compito di tenersi stretti a ciò che, come uomini, siamo storicamente divenuti. A una decisione, non a un destino. A una scelta della ragione, certo, ma non ad una qualche necessità, razionale o no che sia. A una forma superiore di conservazione della specie, non però in nome di una sua naturale fissità. È sufficiente? Può bastare? Difficile dirlo. E difficile è anche stabilire se il carattere irreversibile della mutazione che la specie umana starebbe per affrontare sia una minaccia o non anche un’opportunità (o entrambe le cose). Certo è che il libro ha il merito di non rendere banali nessuno degli interrogativi che nel dibattito pubblico affiorano sempre più spesso, in relazioni a questioni dirimenti come le unioni civili o le nuove tecniche di fecondazione artificiale. Questioni che non possono essere affrontate in nome dell’entusiasmo tecnofilico per tutto ciò che è nuovo, e dell’anatema verso tutto ciò che è passato – uomo antiquato compreso –, ma neanche possono essere respinte per la paura tecnofobica verso tutto ciò che comporta cambiamenti, anche radicali. Altrimenti anche i mutamenti indotti dalla Rete, pure quelli capaci di incidere profondamente sulla forma e le condizioni della comunità umana, dovrebbero essere guardati con orrore. Ma che il paesaggio naturale dell’umano stia sempre più finendo sullo sfondo, fin quasi a scomparire, questo è un tema che Mazzarella ha ragione di porre con forza, invitando la politica, non solo la filosofia, a qualche supplemento di riflessione in più.

(Il Mattino, 17 luglio 2017)

Zarone, lo sguardo e il quadernetto del filosofo

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La filosofia è sempre stata divisa fra oralità e scrittura. C’è una ragione: non c’è magistero che possa esercitarsi fuori del rapporto vivo e diretto fra maestro e allievo. Così è stato anche con Giuseppe Zarone, scomparso tre giorni fa all’età di 77 anni. Non so se sia il suo libro più importante, ma «Metafisica e senso morale», pubblicato sul finire degli anni Ottanta, serba di sicuro la traccia più fedele dell’insegnamento che Zarone teneva sulla cattedra di filosofia morale dell’università di Salerno. Con un quadernetto scritto fittamente, dal quale sollevava lo sguardo luminoso per continue digressioni e commenti, in ore lunghe e tese. Per chiunque si sia laureato in filosofia nell’Ateneo salernitano, quelle lezioni costituivano un passaggio fondamentale, persino decisivo: è difficile incontrare studenti e colleghi che dalla fine degli anni Settanta in poi abbiano frequentato quelle aule, che non ne serbino indelebile il ricordo. Nel percorso che Zarone intraprese in quegli anni – sempre più lontano dalle prime indagini storico-politiche («Bernstein e Weber», «Crisi e critica dello Stato»), sempre più votato verso indagini di carattere speculativo, che in lui si tingevano di una fortissima tensione religiosa («Pensiero e verità», «Il discorso e la parola. Parabole del senso tra Atene e Gerusalemme») – c’è anche, ne sono convinto, una traiettoria significativa: per un verso della storia culturale di Salerno, la cui scena pubblica perse progressivamente molti dei suoi migliori fermenti intellettuali; per altro verso della cultura filosofica italiana, nelle cui vene presero a circolare molto meno Gramsci, molto meno Marx, e molto più Nietzsche e Heidegger.

Rispetto a protagonisti celebrati di quella stagione, Zarone aveva un’ambizione e un desiderio in più: quella di sottrarsi al «démone» dello scrittore, che si esibisce nella pagina come un funambolo sulla corda. Sapeva benissimo di rischiare in questo modo l’indifferenza o l’oblio. Ma era convinto che ai libri dovesse toccare «il dovere dell’anonimato».

A quel paradossale e impossibile dovere Zarone si attenne sempre di più, negli anni. Cercando di sottrarsi per quanto possibile ai vincoli della comunità scientifica, come alle pesanti costrizioni accademiche, e di costruire (insieme a uno degli autori più amati negli ultimi anni, Franz Rosenzweig), il profilo di un uomo «metaetico», alla cui solitudine esistenziale e elevazione interiore – scrisse in un saggio – «la stessa morte fisica non aggiunge più nulla, e lascia del tutto irrisolto l’enigma del vivere e del morire».

Ora, sull’estremo limitare di una vita, credo che sia giusto infrangere questo dovere da parte di chi lo ha sentito come un maestro. Vi sono, nel discorso pubblico, «i lόgoi scientifici e le chiacchiere comuni»: è ancora possibile la parola della filosofia? Zarone credo ne dubitasse, ma, al contempo, riteneva che essa fosse necessaria come l’aria. La cercava nella tradizione del pensiero, ma anche fra i poeti, gli scrittori, i mistici, con un’apertura di orizzonte sorprendente e, per uno studente, persino entusiasmante. Per chiunque volesse non semplicemente imparare la filosofia, ma imparare a filosofare, quella ricerca, ovunque portasse, è stata essenziale.

(Il Mattino, 3 giugno 2017)

Papa e Apple, le fedi che parlano ai giovani

Parlando a Firenze, ieri Papa Francesco ha detto: «Mi piace una Chiesa italiana inquieta, sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati agli imperfetti». Parlando ieri a Milano, all’inaugurazione dell’anno accademico della Bocconi, Tim Cook, il numero uno della Apple, ha detto: «Siamo qui per lasciare il mondo migliore di come l’abbiamo trovato». E l’una e l’altra parola – la parola sull’imperfezione e quella sul perfezionamento – sono risuonate ricche di significato, ed eloquenti, cioè capaci di parlare davvero alla platea che ascoltava. Papa Francesco ha parlato di umiltà, di disinteresse, di beatitudine: i tratti di un messaggio che danno ancora senso, secondo il Pontefice, alla vita cristiana, e che recuperano il loro valore solo se la Chiesa – ha spiegato Francesco – fa opera di pulizia al suo interno. Tim Cook ha toccato le questioni ambientali – il cambiamento climatico, l’uso delle energie rinnovabili –, poi la lotta alle discriminazioni, infine il tema della privacy, cruciale per un’azienda come la Apple, che maneggia una mole impressionante di profili e dati personali. Sono temi che fanno, tutti insieme, il catalogo del nuovo millennio, come si potrebbe dire con qualche enfasi. Senza impegnare invece un millennio intero, sono sicuramente temi che si agitano nell’opinione pubblica, fra le nuove generazioni, in molti mondi in cui non arrivano più, o arrivano stanche e vuote di significato, le parole della politica.

È un fatto: queste parole provengono da fedi che ancora alimentano moltitudini di uomini, la fede religiosa e la fede tecnologica. Non stanno sullo stesso piano, non hanno lo stesso contenuto, ma sono vissute entrambe come fedi, nel senso almeno che riscuotono fiducia, che si mantiene ancora la loro capacità di parlare del futuro dell’umanità. La fede nella politica e nella storia è invece molto più appannata, e anzi indietreggia sempre più. Cosa può cambiare il corso del mondo? Un tempo si sarebbe messo nel novero delle forze che fanno la storia anche la politica. Oggi, invece, pochi sono disposti a scommettere, o a investire sulla forza dei partiti politici e degli Stati nazionali (o delle comunità di Stati). E cosa può cambiare il cuore dell’uomo? Finite o quasi le grandi divise ideologiche, sembra che non rimanga altro che la fede religiosa in un qualche Dio trascendente.

È notevole peraltro che tanto il Papa di Roma quanto il capo dell’azienda di Cupertino mostrino di voler guardare a un «bene più alto» declinando anzitutto i temi della sostenibilità ambientale. Di nuovo: la conversione «verde» degli stili di vita, dei comportamenti individuali e collettivi, è avvertita come più urgente, e dunque come più vicina alle esigenze degli uomini di oggi, rispetto ai discorsi marcati da un forte contenuto sociale e politico. Il Papa ha pubblicato un’enciclica sull’ambiente che certo non trascura di parlare dell’ingiustizia o della povertà, ma che raggiunge con la forza della novità i fedeli quando parla della cura della casa comune, dell’inquinamento o dello spreco delle risorse ambientali. E Tim Cook, dal canto suo, pur realizzando con la sua azienda enormi profitti, riesce credibile ed entusiasma un pubblico giovanile quando si mostra preoccupato del futuro del pianeta. Come se, di nuovo, riserve di futuro fossero depositate solo nel grembo della Terra. E quindi non nelle città, non nei profani palazzi della politica, ma nei vecchi e nuovi templi della religione e della tecnologia.

Poco più di cent’anni fa, Friedrich Nietzsche scriveva che la fede nella verità, il fuoco accesso da Platone due millenni e mezzo orsono, si era ormai estinto, e che «l’ospite inquietante» dei secoli avvenire sarebbe stato il nichilismo. Questa diagnosi non è affatto estranea al nostro tempo. Se il filosofo diceva che nichilismo significa che manca la risposta al perché, manca il senso, non vuol dire però che non cresca, proprio su questa mancanza di senso, una impellente necessità di credere. Ad alimentarla non è più il progetto dispiegatosi con la modernità – fatto di diritti, libertà, emancipazione, uguaglianza – ma un altro impasto, legato contemporaneamente alla madre natura e a Dio Padre. Quel che una volta c’era di mezzo – il tempo della storia – prosegue con molto affanno, forse in attesa di rimettersi in moto sotto l’urto di altre potenze che solo ora si affacciano, o forse tornano ad affacciarsi, sulla scena del mondo. Ma prima  che questo accada, leader spirituali rimangono il Pontefice della Chiesa di Roma e il leader del marchio più carismatico in circolazione. Si può dire magari, con qualche cinismo che, lo vogliano o no, uno riempie di spiritualità la realtà del capitalismo, l’altra finisce col nascondere sotto lo spirito, un buon numero di affari. Però funzionano, mentre tutto il resto stenta parecchio a funzionare.

(Il Mattino, 11 novembre 2015)

Il Conclave e l’Italia sospesa

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Lo spirito soffia dove vuole, ma se volesse pure dare una mano all’Italia, con l’elezione del nuovo Papa, agli italiani, laici o cattolici che siano, forse non dispiacerebbe. D’accordo: la Chiesa cattolica ha una missione universale, non soltanto nazionale, e i suoi fedeli sono sparsi in tutti i continenti, e l’Europa non è più così centrale come un tempo e l’Italia lo è ancora meno. E poi i tempi di un’istituzione bimillenaria non si misurano sul piede della cronaca o dell’attualità. E soprattutto la sua sola e unica domanda – la più angosciosa, la più drammatica – non può che essere la domanda del Vangelo: «quando il Figlio dell’uomo tornerà, troverà ancora fede sulla terra?». Un Papa lo si fa per quello, perché il Figlio dell’uomo possa trovare ancora servi fedeli al suo ritorno. Sulla terra, non solo in quella piccola, alquanto malandata penisoletta che è l’Italia.

Ma questa volta il Conclave cade anche in un altro contesto: nel bel mezzo di una grave crisi economica e sociale, che dura da anni, a cui si è sommata una ancora più acuta crisi politica da cui non sappiamo se e quando l’Italia saprà uscire. Per questo se un soffio dello Spirito lambisse anche l’altra sponda del Tevere neppure l’ateo più accanito, forse, potrebbe dispiacersene.

Non è facile. Quando Friedrich Nietzsche spiegò cosa mai fosse il nichilismo, l’ospite inquietante che secondo lui ci avrebbe tenuto compagnia per un paio di secoli almeno (Nietzsche scriveva alla fine dell’800, dunque pure col nichilismo siamo ancora a metà del guado), provò a descriverla come quella situazione nella quale «l’uomo rotola via dal centro verso la x». E in effetti, mai come in questi giorni  di questa caduta non si vede il punto di arresto. Mai come in questa fase l’Italia sembra aver perduto stabilità e centralità, tanto rispetto al contesto europeo e internazionale quanto rispetto al suo stesso destino storico, che non sa più decifrare. Mai come in questa congiuntura, mentre un settennato volge al termine, e una nuova legislatura fatica a incominciare, e non c’è nessuno che abbia qualcosa più di un’ipotesi arrischiata sul futuro prossimo venturo, si sente la mancanza di certezze, e forse anche il bisogno di qualche rassicurazione. Così si aspetta la fumata bianca per poter pensare: almeno questa è fatta, qualcosa finalmente comincia ad andare per il verso giusto.

Non si tratta solo di psicologismo spicciolo: c’è effettivamente nel Paese una sorta di sospensione, di finta calma, di surreale immobilità. Persino i mercati finanziari sembrano attendere gli eventi, invece di tentare di determinarli con la solita, frenetica aggressività. Forse al paese è accaduto veramente di ritrovarsi sospeso in quella grande bonaccia delle Antille che raccontò Italo Calvino: senza un alito di vento verso una qualunque direzione, la nave dei corsari che rimane ferma per mesi, a fronteggiare da lungi i galeoni dei Papisti, in un’asfissiante bonaccia. Il fatto è che se domani, se nei prossimi giorni (ma presto, per carità!) dal comignolo di San Pietro venisse fuori un filo di fumo bianco, vorrebbe dire che almeno la barca di San Pietro ha ritrovato il suo capitano ed ha ripreso il mare.

La parabola marinara di Calvino era rivolta anzitutto contro l’immobilismo del PCI di Togliatti (che infatti la prese a male). Questa volta si tratta però, più gravemente, dello stallo dell’intero sistema politico, finito in un pauroso buco di vento.

Intendiamoci: neanche per la Chiesa la navigazione potrà essere tranquilla. Quando l’allora cardinale Joseph Ratzinger tenne la sua ultima omelia, prima che si chiudessero le porte del Conclave che lo scelse papa, parlò con inusitata determinazione della «sporcizia della Chiesa», da cui bisognava liberarsi. Dopo sono venuti gli scandali, lo Ior, Vatileaks, la pedofilia, il maggiordomo infedele e la riapertura del caso Orlandi, l’acuirsi della crisi delle vocazioni e gli scontri all’interno della Curia: infine, le inaudite dimissioni del Papa. Anche Ratzinger aveva usato una parabola marinara: «spesso, Signore, la tua Chiesa ci sembra una barca che sta per affondare, una barca che fa acqua da tutte le parti». Ma Bemedetto XVI ha lasciato, e mettere la barca in condizione di affrontare nuovamente il mare è il compito del futuro Papa: un nuovo Pontefice potrebbe averne la forza, essere il legno al quale i credenti potranno aggrapparsi.

E l’Italia? Quando l’Italia potrà salpare nuovamente, da dove potrà ripartire? Dalla saggezza di Napolitano? Sicuramente, ma ha soltanto un mese di mandato davanti a sé. Dai partiti? Ma sono investiti da un ciclone ancora più impetuoso di quello che li travolse con Tangentopoli. Dal Movimento 5 Stelle? Ma sembra lontanissimo da una qualunque idea di governo, e finanche dalle consuetudini parlamentari. Da un nuovo spirito pubblico, allora?

Ecco: se lo Spirito, che soffia dove vuole, dopo aver lasciato la Cappella Sistina mandasse qualche sbuffo pure dalle nostre parti e facesse circolare un po’ di aria nuova, di idee e di forze nuove, forse anche l’Italia potrebbe riprendere il vento.

Il Messaggero, 12.03.2013

Realismo fuori dalla realtà

Dunque la storia sarebbe andata così: a un certo punto, verso la fine del Settecento, mentre in Europa si sta per fare la rivoluzione, la filosofia compie una «svolta trascendentale», e smette di credere che là fuori ci siano cose. Da allora, alberi o fontane, ciabatte o satelliti non sono più cose, per i filosofi, ma soltanto «dati di senso, fenomeni, apparenze». Sulle prime si continua a credere che le cose sussistano, però invisibili e inaccessibili: di sotto ai fenomeni, al di là delle apparenze, dietro ai dati sensibili. Poi, però, i filosofi si accorgono che li si lascia fare (pochi protestano, il mondo è in subbuglio, le rivoluzioni politiche si accavallano a quelle industriali), e allora tentano il colpaccio… (continua sul blog dell’Unità🙂

L’unità, 23 settembre 2012

Spinoza. La politica e il moderno

E’ uscito il fascicolo 1/11 della rivista Il Pensiero (ESI), disponibile in libreria, dedicato a Spinoza. La politica e il moderno, e da me curato. Dentro vi trovate: B. De Giovanni, Spinoza e Hegel. Dialogo sul moderno; M. Adinolfi, Res quae finitae sunt. Qualche riflessione sui fondamenti ontologici dei concetti politici spinoziani; F. Pellecchia, Essenza dell’amore nell’Etica di Spinoza; Ch. Ramond, Sedizione, ribellisione e insubordinazione nella filosofia politica di Spinoza; C. Sini, Dall’etica di Spinoza a Nietzsche: profezie di un’etica futura? (e inoltre A. Gatto, Di un’impossibile confessione. Il soggetto cartesiano e la libera creazione delle verità eterne, V. Vitiello, De Trinitate. In dialogo con Piero Coda.

Qui sotto inserisco la premessa che ho scritto per la presentazione del fascicolo:

“Essere spinoziani, è l’inizio essenziale del filosofare”, così sentenziava Hegel, nelle lezioni di storia della filosofia. Celebre ma velenoso complimento, dal momento che per Hegel l’inizio è appunto soltanto un inizio: manchevole di tutto ciò che dall’inizio viene. E manchevole fin dall’inizio, visto che fin dalla prima definizione della sostanza, fin dal concetto “veramente speculativo” di causa sui, Spinoza manca per Hegel di svolgere quel che nell’inizio è contenuto.  Resta vero però che per il filosofo di Stoccarda lo spinozismo non ha mai cessato di essere una posizione fondamentale del pensiero, “un punto talmente importante della filosofia moderna – così riteneva – che in realtà si può dire: o tu sei spinoziano, o non sei affatto filosofo”.

Non sorprende dunque che tutta la storia della filosofia moderna, nonostante anatemi e maledizioni, non abbia mai smesso di misurarsi con Spinoza: da Leibniz, che secondo Hegel rappresentava “l’altro lato del centro spinoziano, cioè l’esser per sé, la monade”, l’individualità, insomma, di contro all’essere in sé dell’unica sostanza , a Kant, che non sembra aver scritto la Critica della ragion pratica per altre ragioni che non fossero la  più rigorosa confutazione dello spinozismo; dal giovane Marx, che ricopiava diligentemente Spinoza nei suoi quaderni di appunti, a Nietzsche, che si entusiasmò alla scoperta di avere nell’ebreo di Amsterdam una gran “razza di precursore”.

Anche il ‘900 non ha mancato di cimentarsi col suo pensiero, anche grazie a un significativo accrescimento degli studi storiografici: dai lavori quasi pioneristici di H. A. Wolfson e L. Robinson sull’Etica sino ai due grossi volumi sistematici di Martial Gueroult su Dio e l’anima; dall’opera classica di Paul Vernière sulla fortuna di Spinoza nel pensiero francese prima della Rivoluzione, alle più recenti ricerche di E. M. Curley o di Y. Yovel (ma anche, in Italia, ai lavori di P. Di Vona, P. Cristofolini, F. Mignini, E. Giancotti e altri). A partire dagli anni Sessanta emergono anche nuove, robuste interpretazioni filosofiche, soprattutto in terra francese. Basti pensare ai testi deleuziani su Spinoza e l’espressionismo in filosofia, o alle nuove letture di Alexandre Matheron su individuo e comunità ed Étienne Balibar sul transindividuale in Spinoza, ma anche al libro di Antonio Negri sull’ontologia sovversiva dell’olandese.

Questa sorta di Spinoza-Renaissance, che data grosso modo dalla fine degli anni Sessanta e coincide almeno in Italia con una certa crisi del mainstream storicista, è in effetti segnata dall’attitudine a presentare il pensiero spinoziano come un’alternativa all’hegelismo. In odio alla dialettica, ma anche come rimedio agli sdilinquimenti post-moderni, Spinoza è parso offrire un modello di pensiero capace di collocarsi in un mondo finalmente copernicano, ‘più grande’ di qualunque coordinata critico-trascedentale o esistenziale-negativa, e in grado pure di catturare quella “commistione fra argomentazione razionale e scuola di vita”, come ha scritto M. E. Scribano, ossia fra ontologia ed etica, che sembra riprendere un altro tratto fondamentale delle preoccupazioni della filosofia contemporanea – quella, almeno, non isterilitasi in inutili formalismi.

Nel fascicolo che presentiamo al lettore qualcosa di questo ampio fascio di problemi e prospettive si può forse cogliere, anche se con accenti di misurata sorvegliatezza e secondo percorsi a volte anche critici rispetto a certe abitudini interpretative, classiche o moderne che siano. È quel che si coglie anzitutto nel saggio che apre il fascicolo. Biagio De Giovanni torna infatti proprio sul confronto fra Spinoza ed Hegel: non però per riproporre lo schema tradizionale di un superamento del primo nel secondo – secondo l’interpretazione suggerita da Hegel stesso e accolta dall’idealismo italiano, da Spaventa a Gentile – ma neppure per disegnare un’opposizione ineludibile tra i due, come nella lettura di Pierre Macherey e in generale in quella linea del marxismo francese, di stampo althusseriano, che mira a riconnettere Marx a Spinoza ‘saltando’ a piè pari la mediazione hegeliana, bensì per presentarli insieme, come “due rappresentazioni della crisi del moderno”, due “filosofi del negativo, della lotta fra adeguato e inadeguato che mai ha termine, e, in forme assai diverse, della potenza del negativo che si porta dietro l’irrequietezza della vita, la quale comprende dentro di sé anche l’esperienza della morte”.

Di un cammino decisamente fuori della tradizione onto-teologica, in particolare nella sua configurazione moderna, parla invece Carlo Sini, che nel primato spinoziano dell’etica vede profilarsi “il destino ultimo della metafisica, ovvero il suo definitivo superamento”, in virtù della crisi dell’ordinamento morale del mondo, di stampo platonico-cristiano, che si profila già in Spinoza e trova infine in Nietzsche il suo definitivo annuncio. Quel primato, l’esigenza pratica di liberazione si svolge nel luogo della teoria solo per “quel tanto che, nonostante la finitudine umana, è indispensabile e sufficiente sapere per un vivere saggio e «adeguato», o adeguatamente felice”.

Non è dunque lo Spinoza consueto quello che così si profila, lo Spinoza del Pantheismusstreit acceso da Jacobi contro Lessing, lo Spinoza che cancella il finito nell’unica sostanza e s’acquieta in un finale sapere assoluto, bensì quello che dal finito e nel finito, secondo dunque la capacità e la misura del ‘modo’, si es-pone con serenità al movimento della vita infinita.

Completano la sezione monografica del fascicolo i saggi di Ramond, Pellecchia e Adinolfi, che toccano punti sensibili dell’attuale confronto con il pensiero spinoziano. Con gli strumenti dell’analisi testuale, Charles Ramond polemizza apertamente con l’idea di Spinoza teorico della rivoluzione, e approda a un’idea della democrazia formale ed esteriore, nient’affatto deleuziano “regno della potenza intensiva”, che contrasta apertamente l’ontologia politica della multitudo. Nel testo di Pellecchia viene invece affrontato uno degli assi portanti dell’antropologia spinoziana, quello che si fonda sulla passione dell’amore, e sul progetto etico di trasformazione che lo conduce sino alla sua dislocazione nella figura culminante dell’amor Dei intellectualis. Lo scrivente, infine, prova a saggiare teoreticamente le forme del rapporto tra ontologia e politica, con particolare riguardo all’infrastruttura concettuale impiegata da Balibar per introdurre la nozione del transindividuale, in un tempo in cui torna forse a riproporsi l’esigenza di connettere la politica con spezzoni di teoria generale della realtà o della storia. Il volume è completato da una lettura di Descartes, volta a saggiare limiti e condizioni dell’”esorcismo” con il quale il cogito, inaugurando la modernità, ha provato ad assicurare se stesso contro la potentia Dei, un movimento di pensiero antipodale rispetto al de Deo con cui comincia Spinoza, che pure non poté non formare il suo linguaggio proprio nel confronto con Descartes – suo contemporaneo capitale, per dirla con Henri Gouhier.

Tutto ciò, naturalmente, con le cautele del caso. È noto che il motto che Spinoza scelse come sigillo della propria corrispondenza recava appunto la parola “caute”. Con la quale forse il pensatore olandese si riferiva meno alla propria attitudine a procedere cautamente – sulla falsariga del larvatus prodeo cartesiano – che all’invito a maneggiare il suo pensiero con tutte le precauzioni necessarie. Non solo perché gravava su di lui il sospetto di ogni possibile nefandezza, tanto che in vita poté pubblicare soltanto i giovanili Principi della filosofia di Cartesio, e, anonimo, il Trattato teologico-politico, ma perché la sua filosofia, ossia l’Ethica, quella filosofia che, sola, intendeva fosse vera e che però sapeva costituire una sfida aperta alla “religione costituita”, non smette ancora oggi di provocare il pensiero.

 

Di fronte a un pensiero così

Lunghissimo articolo di Vito Mancuso, addirittura con escursioni di politica internazionale, che è però rapidamente riassumibile, grosso modo, così: Nietzsche è il padre spirituale del nostro tempo; per Nietzsche non c’è peggior nemico del cristianesimo; la teologia deve pensare all’altezza di Nietzsche, senza inganni e senza infingimenti; si fa questo quando si pensa che il mondo è forza, e nient’altro che forza, e che è vano pensare di chiamarsene fuori, anche se ciò non vuol dire soltanto rendersi ad essa.

E fin qui. Poi però Mancuso dice pure che uno che ha portato Nietzsche nel cristianesimo è Bonhoeffer, e che il suo problema era vedere, certo, la forza, la forza anonima, ma per ritrovare dentro di essa (non di fronte, non fuori), la provvidenza personale, il tu. Scoprire quindi che la forza più grande è l’amore. "Di fronte a un pensiero così, Nietzsche non avrebbe accusato il cristianesimo di menzogna", scrive Mancuso. Ma davvero Nietzsche non avrebbe considerato menzognera la proposizione di Mancuso, che la più grande forza è l’amore (l’amore cristiano, I suppose)? Sicuro che questa conversione dell’esso in un tu non sarebbe accusata di menzogna sol perché il tu, anziché stare di fronte, sopra o al di là, sta proprio dentro le viscere della storia?

Temo proprio che ci sia poco da stare sicuri.