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I pentiti degli effetti del «No»

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Nell’editoriale di ieri sul Mattino il professor Giovanni Verde ha tratto il bilancio di questo mese trascorso dal referendum del 4 dicembre. Le sue parole hanno il pregio della franchezza. «Quando mi sono speso per il No non era questo ciò che volevo», ha scritto. Non voleva il professor Verde le dimissioni di Matteo Renzi, e il lento scivolamento del Paese all’indietro, verso un quadro politico che sembra indirizzato a cancellare tutti i motivi di rottura introdotti dal governo guidato dall’«arrogante» segretario del Pd.

Quel che però colpisce, nel leggere l’articolo, è la relativa sorpresa che accusa solo oggi, quando era ben chiaro, già prima del voto, che il successo del No avrebbe comportato esattamente questo. La mia valutazione del merito della riforma era opposta, perché non ravvisavo nessun attentato alla democrazia, nessuna involuzione autoritaria, nessuno pericoloso squilibrio fra i poteri costituzionali nel disegno di legge Boschi. Però non è sui contenuti della riforma che vale la pena oggi discutere, bensì sulla situazione politica che la vittoria del No ha determinato. Se vi era un fronte riformatore che sosteneva il nuovo disegno costituzionale, era evidente che la sua sconfitta lo avrebbe indebolito complessivamente: non solo non si sarebbero fatte subito (in pochi mesi! In pochi settimane! In pochi giorni!) la riforma del bicameralismo e la riduzione del numero dei parlamentari, per rendere più snello il nostro sistema istituzionale, ma la corrente di risacca avrebbe trascinato il Paese con sé, nella direzione opposta a quella perseguita dall’esecutivo. È quello che sta accadendo. Sono sicuro che alcune misure prese – sul lavoro, sulla scuola, sul sistema bancario, sulla pubblica amministrazione, sul fisco, sulle politiche europee – potevano essere discutibili, ma quel che ora si fa avanti non è tanto la necessità di correggere questo o quel provvedimento, quanto piuttosto la volontà di marcare con un segno negativo quelle politiche, come se l’idea stessa di procedere in una direzione riformatrice andasse riveduta e corretta. D’improvviso, appare arrischiata l’idea stessa di sfidare le mille corporazioni che frenano l’Italia. Basti vedere come Michele Salvati (che pure ha votato Sì) sente lo spirare del vento e la triplice lezione che viene dal referendum: rassegnarsi alle grandi coalizioni, salvare il salvabile di questi anni di governo, rinunciare al vaglio popolare per i cambiamenti costituzionali. Di fatto, è – sempre con le migliori intenzioni – la rinuncia a pensare che il consenso popolare possa arridere a politiche di stampo riformatore. Che era ed è il senso della sfida di Renzi.

Verde (non solo lui) sembra ritenere che il segretario del Pd ha compiuto un errore colossale, legando la sua sorte a quella delle riforme costituzionali. Visto l’esito, è difficile dargli torto, se si guarda al personale destino di Renzi, oggi più incerto che mai. Ma se invece si guarda al progetto complessivo, è difficile negare che non ci si poteva voltare dall’altra parte, o nascondersi dietro una presunta neutralità delle riforme, come se non bisognasse assumersene la piena responsabilità politica. Non è che Renzi abbia perso la pazienza e abbia deciso all’improvviso di intestarsi le riforme: è andato al governo portando avanti quelle idee, enunciandole nel suo programma. I tempi sono stati sbagliati (non voglio dire sfortunati), perché la mancata crescita del Paese ha reso poco attraente una prospettiva di cambiamento affidata al solo veicolo della riforma costituzionale, ma non si è trattata di un’improvvisa alzata di ingegno, ed è singolare che il giorno dopo quel voto molte anime belle si dolgano e si battano il petto. Sono quelli che volevano bocciare le riforme, senza dare una botta a Renzi, e quelli che volevano dare una botta a Renzi, pazienza se di mezzo ci sarebbero andate le riforme. Il risultato è diverso da quello che si aspettavano, ma non occorre scomodare l’astuzia della ragione di hegeliana memoria per scoprire che la storia ha una sua oggettività, contro cui poco possono i pii desideri dei professori di diritto. Fa sorridere vedere ora Vladimiro Zagrebelsky e Nadia Urbinati avere dubbi sulla possibilità che la loro sapienza politica e costituzionale possa accasarsi fra i grillini. Per dirne una soltanto: l’idea, tecnicamente eversiva, del mandato parlamentare imperativo non è un’invenzione ad uso dei giornali, come quella strampalata delle giurie popolari che stabiliscono la verità delle notizie. Questa, che spinge Zagrebelsky a prendere oggi allarmato la penna, è solo l’ultima trovata mediatica; quella, che meriterebbe ben altro allarme, è invece un pezzo del programma pentastellato, e sta lì da ben prima del 4 dicembre.

La verità è che aveva ragione Umberto Saba, il poeta: siamo un Paese di fratricidi, roso da rivalità e campanilismi fra simili. Faceva, Saba, l’esempio di Romolo e Remo, Ferruccio e Maramaldo, Mussolini e i socialisti, Badoglio e Graziani «Gli italiani sono l’unico popolo – diceva – che abbiano, alla base della loro storia, o della loro leggenda, un fratricidio. Ma è solo col parricidio, con l’uccisione del vecchio, che si inizia una rivoluzione». Non è forse andata così, anche questa volta? Altro che rottamazione dei padri: non abbiamo assistito piuttosto a un fratricidio? Renzi viene ancora dipinto come un bullo, come un ducetto, come un apprendista stregone: ma non dai suoi avversari politici, dai suoi compagni di partito!

Siccome però, come diceva Keynes, l’inevitabile non accade mai, l’inatteso sempre, è meglio non fare previsioni su quel che succederà di qui in avanti: se la lenta ma costante spinta restauratrice prevarrà, o se invece assisteremo a un nuovo cambio di palcoscenico. Sarà bene però attrezzarsi, per non fare ancora una volta sfoggio soltanto del senno di poi.

(Il Mattino, 7 gennaio 2017)

Quelli che dicono no

sondaggi-referendum-costituzionale-1La pubblicazione dei sondaggi, a poco meno di un mese e mezzo dall’appuntamento elettorale, non consente di fare previsioni sull’esito della sfida. Il No perde lievemente terreno ma rimane davanti. I margini tra gli opposti schieramenti del Sì e del No sono tuttavia troppo esigui, perché sia ragionevole considerare già acquisito il risultato. La quota di indecisi è ancora troppo alta, e probabilmente rimarrà tale fino all’ultimo o quasi, visto che una buona fetta di elettori decide nella settimana immediatamente precedente il voto.

I dati disponibili sono tuttavia interessanti, perché riproducono, su un altro piano, una caratteristica strutturale del nostro Paese. L’Italia è un Paese diviso. Lo è stata storicamente e geograficamente, e continua ad esserlo anche nelle manifestazioni di voto sulla riforma costituzionale. I punti percentuali oscillano tra un istituto di sondaggio e l’altro, ma concordano nel delineare le aree anagrafiche, geografiche e sociali in cui vince il Sì oppure il No.

A votare per il No sono infatti in prevalenza i giovani, i meridionali, e i meno istruiti. Con qualche arrotondamento non arbitrario, si possono riunire tutte queste categorie sotto una voce comune: gli svantaggiati. A votare No sono quelle categorie di persone che si trovano in posizione di svantaggio. Se disponessimo di statistiche relative al reddito, avremmo molto probabilmente conferma di ciò (anche perché il gap tra Nord e Sud del paese è innanzitutto relativo alle condizioni economiche):il No cresce con il crescere dell’incertezza e della paura riguardo al futuro, che è tanto maggiore quanto più indietro ci si trova nella scala sociale, nella dotazione culturale, nel potere reale di acquisto. Ciò è particolarmente evidente in relazione ai livelli di istruzione: le analisi OCSE sul valore delle istituzioni educative assegnano ai laureati italiani un premio stipendiale, rispetto a chi si ferma alle superiori, pari a circa il 40%. I diplomati sono dunque più svantaggiati: e infatti votano No. E la percentuale del No cresce ulteriormente tra coloro che posseggono solo la licenza media o elementare.

Quanto ai giovani: il loro svantaggio, rispetto al termine opposto della coppia, agli anziani, c’è, anche se è di carattere dinamico, non statico. Gli uni temono per la pensione, ma sono pur sempre dentro un certo sistema di assicurazione sociale; gli altri non trovano lavoro, e temono che non godranno mai di valide tutele ed opportunità.

Gli svantaggiati, dunque. O anche: i perdenti. Nelle cui file vanno annoverati pure quelli che semplicemente rinunciano a giocarsi la partita (o magari a pensare che la vita sia una partita).

Ora, è chiaro che la fotografia dell’Italia scattata dai rilevamenti degli istituti demoscopici pone un problema non piccolo. Si può infatti intendere così: la sfida della modernizzazione istituzionale non viene raccolta da coloro che sono più indietro: non è per loro e non li riguarda. E dunque essi rischiano di entrare nel nuovo ordinamento repubblicano che la riforma si propone di disegnare solo come un peso, come una zavorra. Formano la parte di coloro che non sono parte del nuovo corso istituzionale. Il filosofo francese Jacques Rancière dà esattamente questa definizione della democrazia: è quel regime del quale partecipano coloro che non hanno alcuna parte nella partizione dei beni, delle cariche o degli onori. Da questo punto di vista, il disegno riformatore rischia davvero di restringere il circuito democratico: non già per il modo in cui regola i rapporti fra governo e Parlamento, o per il modo in cui si eleggerà il Presidente della Repubblica. Le preoccupazioni che si avanzano infatti su questo terreno sono oggettivamente infondate, a meno di non ritenere che avvicinarsi agli altri Paesi europei – che non hanno due Camere che votano la fiducia e hanno in genere poteri esecutivi più robusti di quelli di cui gode il nostro Presidente del Consiglio – configuri comunque una svolta autoritaria.

No, il punto non è questo, ma riguarda piuttosto la possibilità di riconoscimento sociale e politico che le istituzioni del Paese sono in grado di offrire. Certo: alla generalità dei cittadini; ma in particolare a coloro che, non godendo di privilegi censuali, familiari o intellettuali, affidano alla partecipazione politica la possibilità di un’affermazione personale e sociale.È questo il valore democratico dell’uguaglianza, che, evidentemente, la parte svantaggiata del Paese a tutt’oggi non considera che si avvicini grazie alla riforma.

Nel diffondersi di così profondi sentimenti di sfiducia c’è sicuramente una grande responsabilità della classe politica. Non solo italiana ma europea, perché dinamiche simili si registrano anche nel resto del continente, e lo stesso voto di giugno sulla Brexit ne è parso segnato.

La modernizzazione – si dirà –ha i suoi vinti e i suoi vincitori. Ed è così, più o meno ineluttabilmente. Ma i pilastri su cui ha poggiato il progetto moderno formano ancora oggi il suo perimetro. Sono ancora la secolarizzazione, l’individualismo, il mercato, la civilizzazione, l’autonomia della sfera pubblica, la sovranità popolare a determinare l’immaginario sociale moderno, per dirla con Charles Taylor. La differenza vera sembra farla, dunque, non già un mutamento nell’autocomprensione del mondo e di noi stessi, quanto piuttosto l’assenza di un vero investimento, reale e simbolico, sulla politica. Le trasformazioni potenti del mondo sembrano tutte consegnate alla forza impetuosa della tecnologia e dell’economia – o forse consegnate, e perciò alienate, nell’unica ambito capace di rivoluzioni: quello rutilante dello spettacolo – mentre poco o nulla ci si aspetta da una nuova elezione, o più radicalmente, dallo stabilirsi di un nuovo ordine politico. Il No sembra caricarsi dunque di questo significato, ed è davvero la sfida più grande per i sostenitori del Sì: dimostrare che la riforma può essere il principio di un cambiamento reale, in grado di ridare speranza anche a settori marginali della società. Non, insomma, la mossa giocata su una scacchiera di cui gli svantaggiati non comprendono, oppure non vogliono comprendere, le regole del gioco.

Il Mattino, 23 ottobre 2016 (uscito col titolo Perché i giovani hanno paura di cambiare)

Il referendum decisivo per il futuro

272175433-giocare-a-carte-carta-da-gioco-tavolo-da-gioco-pokerE di nuovo ieri il premier Matteo Renzi ha ribadito, parlando in chiusura della festa nazionale del partito democratico, a Catania, la disponibilità a rivedere la legge elettorale. Lo aveva detto anche il giorno prima, ed era sembrato che fossero quelle le parole più importanti del suo intervento a tutto campo. Se le si guarda dal punto di vista della lotta politica – e dal punto di vista più limitato della lotta politica all’interno della maggioranza – lo sono indubbiamente. La minoranza del Pd, con Cuperlo e Speranza, continua a chiedere modifiche dell’Italicum. Lo stesso fanno i centristi, da Alfano a Casini. Quando dunque Renzi si dichiara disponibile a intervenire sulla legge, parla innanzitutto a questi settori. Quando però prova a rilanciare l’iniziativa politica, parla a tutti gli italiani. E allora le parole più importanti divengono altre: «una riforma elettorale si cambia in 3-5 mesi, una riforma costituzionale no». Non sarà un diamante, e non sarà per sempre, ma una riforma costituzionale dell’ampiezza di quella in discussione ha, non può non avere l’ambizione di durare per un bel pezzo. Abbiano o no ragione quelli per i quali l’Italicum non è il vestito giusto per l’attuale sistema politico tripolare – e tra di loro c’è anche il presidente emerito Napolitano, primo sponsor delle riforme – è persino ragionevole mostrare disponibilità sul terreno della legge elettorale, per portare a casa un risultato molto più durevole sul terreno delle riforme.

Un risultato, cerca di dire Renzi, capace di futuro. Tutto il discorso di Catania di ieri aveva questo significato. Dalla parte del sì sta il futuro del paese, dalla parte del no stanno i fallimenti della seconda Repubblica. Sta il passato, sta un’altra stagione della vita politica italiana ormai conclusa. E ovviamente sta Massimo D’Alema – sceso in campo come leader del no alla riforma – che più di tutti la incarna. Renzi prova a rilanciare l’iniziativa politica, a raccontare le riforme del suo governo (le unioni civili, la scuola, il jobsact) e i buoni propositi per l’anno venturo (primo fra tutti la riduzione delle tasse).

Ma soprattutto torna ad essere quello che sta davanti, con gli altri ad inseguire. Complici infatti le difficoltà dei Cinquestelle – ancora incartati con il caso Roma e i dolori della sindaca Raggi –, complici le guerre intestine nel centrodestra – con l’investitura di Parisi, voluta dal Cavaliere ma osteggiata dalla dirigenza del partito –, il presidente del Consiglio torna a dare le carte. A mettersi al centro degli equilibri e delle prospettive di governo del Paese. Tutto però dipende dalla capacità di apparire non come quello che vuol sfangarla, sopravvivendo alle forche caudine del referendum, ma come quello che cambia l’Italia. Il viatico è dunque la legge elettorale («sia che la Corte costituzionale dica sì, sia che dica no»), ma l’orizzonte è l’Italia del futuro. La prima è la polpetta che i partiti devono dividersi (se ci riescono, il che non è affatto scontato), ma il secondo è l’elemento davvero decisivo di cui ci si deve impadronire. La vittoria al referendum è insomma legata, per Renzi, alla possibilità di allestire uno scenario che coinvolga tutto il paese e non solo le sue classi dirigenti, che rimangono incerte spaventate o divise dal salto in un nuovo sistema politico-istituzionale.

Al premier, del resto, non manca il dinamismo per condurre questi due mesi, due mesi e mezzo di campagna elettorale all’attacco, su più fronti. Cercando sponde internazionali. Girando per l’Italia. Parlando a tutto campo. Mettendo anche un po’ di furbizia nell’orientare l’attività politico-parlamentare delle prossime settimane (vedi alla voce: legge di stabilità). E aprendo canali di comunicazione anche là dove, fino a poco tempo fa, si era al muro contro muro. A Napoli è così. Oggi il premier è in Campania, per una serie di appuntamenti in cui non gli mancherà certo il modo di confermare, insieme all’attenzione per il Mezzogiorno portata avanti con i patti per il Sud, questa nuova linea dialogante. E in serata, per l’evento organizzato da «il Mattino», siederà nel palco reale del San Carlo insieme al sindaco Luigi De Magistris. Certo, è una serata di gala, non un incontro istituzionale. Ma è, o può essere anche l’occasione per mostrare di avere il vento nelle vele anche alla città più «derenzizzata» d’Italia. A cui stasera in fondo si tornerà a chiedere se convenga continuare il gioco comunardo della repubblica indipendente, o unire il proprio destino a quello del resto del Paese.

(Il Mattino, 12 settembre 2016)