Archivi tag: obama

La notte più lunga d’America. La continuità contro lo choc

johns-flags-570-379.jpgQuando Percival Everett è venuto in Italia, due anni fa, per presentare il suo ultimo libro, gli hanno chiesto di Obama. Domanda inevitabile: Everett è uno dei più interessanti scrittori americani viventi e, guarda un po’, è nero. E continua a capitargli quello che ha raccontato in uno dei suoi romanzi, il quasi autobiografico «Erasure», «Cancellazione»: uno scrittore afroamericano non riesce a sfondare perché si ostina a non scrivere le storie che ci si aspetta dai neri. E cioè: violenza, emarginazione urbana,schiavismo e profondo Sud, soul e diritti civili.

Neanche Obama ha fatto quello che ci aspetta da un nero: è diventato presidente degli Stati Uniti d’America. Per questo, forse, la sera della prima, storica elezione – quella del 2008 – esordì con queste parole: «Se c’è qualcuno lì fuori che ancora dubita che l’America sia un posto dove tutto è possibile, questa notte è la vostra risposta».

Naturalmente, se tutto è possibile, è anche possibile che solo otto anni dopo quella stessa America scelga, in un’altra notte, colma di incertezze e paure, il miliardario Donald Trump. Che non solo non è afroamericano, come i suoi capelli non smettono di dimostrare, ma è le mille miglia lontano da tutto ciò che poteva significa l’elezione di Obama alla testa della prima nazione del mondo.

E forse aveva ragione Everett, che alla domanda pensoso rispose: «Che un nero sia stato eletto alla presidenza è un segno che il paese è comunque cambiato, anche se sul piano politico ci sono ancora resistenze. Ma non necessariamente la sua elezione ha potuto cancellare cento anni di oppressione e discriminazione razziale. Esattamente come, se accadrà in futuro, l’elezione di una donna alla Casa Bianca non eliminerà né potrebbe eliminare il sessismo».

Due anni fa, Percival Everett non tirava a indovinare, formulando l’ipotesi di una donna alla Casa Bianca. Eletta al Senato quando era ancora la First Lady, Hillary ha dovuto cedere una prima volta il passo a Obama, che l’aveva sconfitta alle primarie, ma non per questoera uscita di scena. Né si è ritirata, nel 2013, dopo aver lasciato la carica di Segretario di Stato.

Perché è vero quel che è stato costantemente ripetuto nel corso di quest’ultima campagna elettorale: la Clinton è espressione dell’establishment, e Donald Trump non è arrivato sino al punto che tutto, stanotte, è possibile, se non avesse potuto sollevare, alta e muggente, l’ondata di insofferenza nei confronti dei politici di Washington.

Così oggi la partita è sorprendentemente aperta. Il miliardario sembrava, all’inizio, un personaggio improbabile. Uno che vuole tirare su un muro,«grandissimo e bellissimo», per dividere gli Stati Uniti dal Messico e fermare i flussi migratori non è quel che si dice il più presidenziale dei candidati possibili. Senza dire delle battute a sfondo sessuale o delle dichiarazioni avventurose come quelle su Obama musulmano.

È chiaro però che il giudizio che da questa parte dell’Atlantico si dà dell’America è spesso falsato da costruzioni ideologiche, da miti e narrazioni che in fondo ci presentano di quel Paese il volto più europeo (e più rassicurante). Così scegliamo di vedere dell’America New York e San Francisco, le battaglie per i diritti civili e il faro del mondo libero, la cultura laica e progressista dei campus americani e, certo, i grandi studios hollywoodianie la Silicon Valley. Del resto, gli Accademici svedesi, pure loro: non hanno dato il premio Nobel della letteratura a Bob Dylan, il menestrello del rock?

E però l’America è anche altro. Ci sono le coste e i grandi laghi, ma pure le montagne e le aree desertiche. I grattacieli e i marciapiedi delle metropoli urbane, ma pure le stazioni di servizio e e le tavole calde in mezzo al nulla.

Prendete allora una cartina e dispiegatela su un tavolo. Cominciate pure dalla costa orientale, dagli Stati del New England: lì prevale l’America liberal che vota democratico, prevale il voto istruito, e una mentalità aperta e cosmopolita. Ma se cominciate a spostarvi nel Midwest, la partita si fa subito più incerta. Negli Stati rurali è davanti il voto repubblicano, ed è decisamente meno ovvio, da quelle parti, che sia giusto aprire le porte agli immigrati (ma anche concedere il diritto di abortire). Stessa storia se vi spostate ancora più ad ovest. Lungo la costa del Pacifico, dove trionfa la new economy, si vota a maggioranza per l’Asinello democratico, ma nelle aree interne, più conservatrici, è tutta un’altra musica. Lì non è certo il massimo presentarsi come un avvocato newyorkese donna (Hillary) mentre fa effetto avere soldi, fare il macho, e abbracciare il potente partito delle armi (Trump).

I cambiamenti demografici (con conseguenti effetti elettorali) si fanno invece sentire soprattutto nel sud degli Stati Uniti. In Arizona, ad esempio, e in Texas. La popolazione ispanica, che a metà del secolo scorso valeva il 3% della popolazione, salirà nel 2050 al 30%: sono questi latinos che forse decideranno il voto. Perché Arizona e Texas sono stati tradizionalmente repubblicani, ma proprio il crescente peso delle minoranze e dei gruppi etnici, forte anche nei maggiori centri urbani del Paese, potrebbe cambiare il risultato finale. Trump ci ha messo ovviamente del suo,aprendo la sua corsa alla Casa Bianca con l’accusa rivolta alle autorità messicane di rovesciare sul suolo americano trafficanti e stupratori. Come se fosse sul set de «L’’infernale Quinlan», il film capolavoro di Orson Welles ambientato al confine tra Messico e Stati Uniti.In verità, Trump ne assume anche la parte: quella del poliziotto spiccio e dai modi autoritari, che serve la giustizia a modo suo, fabbricando prove false, se necessario, pur di acciuffare i colpevoli. (È, però, azzeccandoci).

Ma la domanda è: questi ispano-americani – e le minoranze etniche in genere – voteranno contro Trump offesi dalla sua political uncorrectness e dai provvedimenti annunciati contro gli immigrati irregolari, oppure prevarranno le preoccupazioni di carattere economico, la mancanza di lavoro, l’incertezza sul futuro? In fondo, non si può essere stanchi all’idea di doversi spingere sempre più avanti, soprattutto se non è più chiaro verso dove?

Se così fosse, avrebbero ragione quelli che scomodano la parola nichilismo a proposito del «secolo americano»,del suo inveramento nei processi di finanziarizzazione dell’economia, nell’esplosione delle tecnologie informatiche, nel trionfo della società dello spettacolo: si capirebbe perché Trump possa rappresentare agli occhi di molti il ritorno a un’America forte, sana, autentica, che sa quel che vuole e che si fa rispettare.

Quello che forse è mancato ad Obama, agli occhi di molti americani. La sua ritrosia ad usare l’«hard power», che negli ultimi tempi ha dovuto sempre più confrontarsi col protagonismo crescente della Russia di Putin, ha finito per consegnare l’immagine di un Paese incerto sul da farsi, un’America più che paziente riluttante, più che prudente rinunciataria.

Il paradosso è che dei due candidati, Trump è quello più isolazionista, pronto a riaggiornare la dottrina Monroe – quella dell’America agli americani – mentre Clinton è, secondo il filosofo e psicanalista sloveno Zizek, che ha a lungo insegnato negli States, il prototipo perfetto dell’interventismo democratico, dell’idealismo a cui però sono i droni killer ad aprire la strada.

Di paradosso in paradosso, Zizek capovolge tutta la nostra  maniera di guardare alla scena americana. Invece di parteggiare per i buoni, per il nero Obama e per la donna Hillary; invece di stare dalla parte dell’America liberal, che lotta per i diritti e contro le ingiustizie sociali, Zizek sta con il cattivo, con Trump, sta con gli «incazzati neri» che si sono stufati del riformismo inconcludente e moraleggiante che non cambia veramente le cose. Zizek si sa, è un leninista non pentito, per il quale il comunismo continua ad essere il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente, mentre democratici, progressisti e riformisti di ogni specienon aboliscono proprio nulla, e coprono anzi  una realtà fatta di diseguaglianze crescenti. Zizek, insomma, è per la scossa, per lo choc, quella che secondo molti neppure il primo Presidente nero eletto otto anni fa ha saputo dare, accendendo speranze in certa parte deluse.

Ebbene, non è detto che stanotte non accada davvero qualcosa del genere.

Ma anche se si tirerà il fiato e si penserà che l’abbiamo scampata bella, il segnale è arrivato forte e chiaro anche da questa parte dell’oceano.

(Il Mattino, 8 novembre 2016)

Le armi e le lobby più forti di Obama

1998.1.275

La strage di San Bernardino, in California, è solo l’ennesima, futile strage. L’ennesimo episodio di follia, a leggere sbigottiti le cronache, se alla follia dobbiamo ricondurre un’esplosione di violenza insensata, cieca, priva di scopo. Questa volta in un centro disabili, altrove volte in una scuola, oppure in un supermarket: posti di vita ordinari, trasformati improvvisamente in poligoni di tiro.

Una violenza insensata, però armata secondo la legge. Le armi che hanno sparato ieri sono con ogni probabilità legalmente detenute dai killer, come tutte quelle che hanno fatto vittime negli States in episodi tragicamente simili. Non più tardi di due mesi fa, il Presidente Obama tenne un discorso – qualcuno li ha contati: il quindicesimo dopo un eccidio causato da armi da fuoco – e ammise sconsolatamente che quei discorsi, così come i servizi televisivi che li accompagnano, e le frasi che si dicono nei giorni successivi, sono tutte cose ormai «di routine». Due anni fa, nel 2013, dopo l’ennesima strage, Obama si era invece presentato alla stampa e al Congresso, insieme al vice Presidente Joe Biden, dicendosi determinato a far approvare un piano dettagliato: divieto di vendite per le armi con maggiore potenza di fuoco, limitazione delle possibilità d’acquisto in base a precedenti penali o alla presenza di determinate patologie, campagna di informazione: cose così, di buon senso. Non sono passate. E francamente è difficile ipotizzare che Obama riesca ora, nell’ultimo anno di Presidenza, a farle passare. Se ci riuscisse, certo lui passerebbe alla storia. Incerto e titubante in politica estera, vincerebbe la partita più difficile, contro il pericolo massimo: garantire la sicurezza degli americani dagli americani stessi. Sono loro, infatti, che lasciano più vittime sul selciato. O tra i banchi di scuola, in mezzo agli scaffali di un supermarket, dietro le auto in un parcheggio.

Per temere però che Obama non ci riuscirà neanche questa volta è sufficiente dare un’occhiata agli spot pubblicitari della National Rifle Association, la potentissima lobby delle armi. Oppure consultare i sondaggi, dai quali emerge che la maggioranza degli americani continua a ritenere che sia più sicuro vivere con una pistola in tasca, anche se per la medesima esigenza di sicurezza in tasca la pistola ce l’ha anche il tuo vicino. Quanto agli spot: libertà, sicurezza, armi, condita da richiami ai padri della Patria e alla Costituzione: da questa potente retorica non si sfugge. I grandi spazi e l’uomo che li percorre confidando solo sulla canna del proprio fucile, o sul calcio della propria pistola, rimangono miti fondativi della libertà americana.

Già, la Costituzione degli Stati Uniti d’America, quella che gli americani non cambiano mai. Il secondo emendamento dice: «essendo necessaria alla sicurezza di uno Stato libero una milizia ben organizzata, il diritto dei cittadini di detenere e portare armi non potrà essere infranto». Vuol dire: se c’è un esercito, allora ci deve essere per ogni cittadino la possibilità di armarsi. Per la Costituzione americana nessun cittadino cede insomma allo Stato il diritto a difendersi da sé, visto che dallo Stato, dalla sua stessa milizia deve potersi difendere . È come se non vi fosse alcun monopolio della violenza legittima, come invece recita la canonica definizione di Max Weber. Nessun monopolio: ogni cittadino, all’occorrenza, può sparare.

Lo scorso giugno Obama aveva mostrato di voler gettare la spugna: «non prevedo – aveva detto – che questo Congresso adotterà alcuna iniziativa legislativa. E non prevedo alcuna azione incisiva fino a quando il popolo americano non percepirà un sufficiente senso di urgenza che li porti a dire: Questo non e’ normale, questo è qualcosa che possiamo cambiare e lo faremo».

Difficile che i morti di ieri spingeranno il popolo americano a cambiare idea. Quanto al suo Presidente, sarà purtroppo costretto a rilasciare dichiarazione di routine.

(Il Mattino, 3 dicembre 2015)

La tortura svelata

È lecito torturare? È lecito privare un detenuto del sonno, è lecito denudarlo, è lecito restringerlo in uno spazio limitato e buio, e lasciare che nell’oscurità sia tormentato da invisibili insetti? È lecito procurargli la sensazione dell’annegamento, oppure schiaffeggiarlo ripetutamente, colpirlo all’addome, e sbatterlo con violenza contro un muro? Sono lecite le “tecniche avanzate” usate dalla Cia negli interrogatori dei presunti terroristi di Al Qaeda? A quanto pare dai documenti che il Presidente Obama ha reso pubblici, durante l’Amministrazione Bush simili pratiche venivano ritenute lecite, dal momento che, diversamente dalla tortura vera e propria, la quale comporta, secondo le convenzioni internazionali, l’afflizione di un “grave dolore fisico o sofferenza mentale”, le pratiche minuziosamente descritte nei documenti segreti dell’intelligence comportavano sì privazioni, umiliazioni o dolori fisici ridotti, ma nessun dolore grave o “danno mentale prolungato”.
La via burocratica alla tortura di Stato prevedeva dunque che venissero rispettate le forme legali, con l’accorto aiuto delle formalistiche interpretazioni del Dipartimento di Giustizia americano, capace di discettare sulla durata e l’intensità del dolore inflitto o dell’offesa patita, pur di accordare ipocritamente le necessità della lotta al terrorismo islamico con il crisma del diritto.
In realtà, è dal tempo in cui si è affermata la sovranità dello Stato moderno, dunque molto prima che esso assumesse le caratteristiche di un ordinamento liberaldemocratico, rispettoso dei diritti umani fondamentali, che si stringe il nodo che anche Obama ha dovuto sciogliere: se cioè si possa, quando gli affari di Stato lo richiedono, adottare per la salvezza della res pubblica una morale più larga e grossolana della morale valida invece per i “privati”, sudditi prima cittadini poi.
La storia ha però cercato di dare una risposta, nella misura almeno in cui il suo corso è descrivibile, sotto il profilo politico-giuridico, come il tentativo di incapsulare e assorbire il grumo di nuda forza che pure resiste alla sua integrale giuridicizzazione: e ogni volta che si strappa la tela che il diritto ha faticosamente tessuto, la sconnessione fra politica e diritto si ripresenta e si mostra nei suoi crudi lineamenti il “volto demoniaco del potere”.
Obama ha portato allo scoperto il “piccolo, sporco segreto” della democrazia americana. Il quale era segreto, certo, ma solo fino a un certo punto: non perché si fosse vista la carta intestata su cui erano descritti i metodi sbrigativi adottati dalla Cia, ma perché si conosceva, e bene, il risvolto pubblico di simili condotte: l’unilateralismo, la dottrina della guerra preventiva, l’idea che, quando è in gioco la sicurezza nazionale, né il diritto internazionale né gli organismi sovranazionali, né gli interessi e le politiche di altri paesi, per quanto amici, possono limitare il raggio d’azione degli USA. Togliere il segreto sulle “pratiche avanzate” della Cia è un gesto del tutto coerente con la nuova stagione della politica estera americana, e ne rafforza la credibilità.
Per coloro che amano definirsi realisti, la decisione di Obama è stata una mossa avventata, che indebolisce l’azione di contrasto al terrorismo. Per tutti gli altri, è stato invece un atto di grande fiducia nelle risorse di un paese democratico. E in quanto questo atto è accompagnata da una politica e ne costituisce un tassello, non è affatto il comportamento ingenuo di un’anima bella.
La politica è precisamente quel che serve per non farsi mettere dinanzi al dilemma che giustifica ogni abuso, per non rimanere ipnotizzati dall’alternativa: o la salvezza dello Stato o il rispetto dei diritti umani. Quando ci si infila in una simile aporia (e soprattutto quando la si costruisce a bella posta, come a volte purtroppo capita), allora si rischia di non avere più nessuna ragione per limitare l’impiego della forza e resistere alla limitazione dei diritti che l’asprezza del conflitto può comportare.
Naturalmente, si può ritenere che la democrazia sia in ultima istanza disarmata rispetto ai suoi nemici, che non hanno l’impaccio di un’opinione pubblica dinanzi a cui rendere ragione dei propri atti, né una coscienza giuridica alla quale rispondere; ma la democrazia è precisamente quella cosa che gli uomini hanno inventato per allontanare da loro le istanze ultime. Come ogni impresa umana, anche la democrazia può fallire, ma rinunciare al rispetto delle sue forme e delle sue garanzie, accettare la tortura non è fallire: è capitolare.

La democrazia americana

Da dove vengono fuori, i presidenti degli Stati Uniti d’America? L’ultimo di essi Barack Hussein Obama, viene da un padre keniota e da una madre emigrata dal Kansas alle Hawaii, e poi trasferitasi in Indonesia. Ma in realtà viene da più lontano ancora. Viene dalle stive di una baleniera, che sfidava il grande Oceano un secolo e mezzo fa circa, e di cui si racconta nel cap. 34 del «libro malvagio» di Hermann Melville, Moby Dick.
È mezzogiorno. Il capitano Achab scende in coperta. Solo dopo che si è spenta l’eco profonda dei suoi passi e tutto, di sotto, è silenzio, scende anche il primo ufficiale; poi è la volta del secondo, poi il terzo. Al tavolo, il pasto viene consumato secondo le regole del più inflessibile cerimoniale: prima viene servito il capitano; dopo di lui tocca al primo ufficiale; poi il secondo, poi il terzo. Così ogni volta, a ogni portata. Alla fine del pranzo avviene il contrario: prima lascia la cabina il terzo ufficiale; poi il secondo, poi il primo. Infine Achab, libero di sedere ancora a tavola o di far ritorno sul ponte. Solo a quel punto, la tovaglia di tela viene ripulita e tocca finalmente ai tre ramponieri.
E la scena muta.. Scrive Melville: «La completa, spensierata mancanza di remore, la disinvoltura e la democrazia fin eccessiva di quei compagni di grado inferiore, i ramponieri, era in strano contrasto con la soggezione a mala pena tollerabile e gli indicibili e invisibili dispotismi propri della mensa del capitano".
Eccola la democrazia americana, illustrata meglio di quanto non possano fare le poesie di Whitman o le analisi politiche di Tocqueville, le canzoni di Springsteen o i western di John Ford. Meglio anche dei discorsi del Presidente Lincoln, che appena eletto Obama ha voluto ricordare. Eccola sedersi a tavola e mangiare senza particolari etichette, dopo che la vecchia e aristocratica Europa – così come doveva apparire a un americano dell’800 – ha lasciato la cabina: una ciurma di uomini privi di soggezioni, schietti e spicci nei modi, liberi da vincoli artificiosi, insofferenti verso ogni forma di subordinazione, empirici e pragmatici, sicuri del fatto loro, aperti e fiduciosi in se stessi, che mangiano tanto rumorosamente quanto silenzioso era stato il pasto degli ufficiali.
Su quella ciurma una dignità democratica senza fine si irradia da Dio stesso, «il grande e solo Dio centro e circonferenza di ogni democrazia»: sono ancora parole di Melville, ma si potrebbero trovare nei discorsi di Obama, carichi come sono di uno senso religioso, che pure suona lontanissimo da ogni forma di bigottismo o di clericalismo di stampo europeo. In quelle parole si confondono concretezza e idealismo, in una mistura caratteristica della più americana di tutte le filosofie, il pragmatismo. Il suo fondatore, Peirce, gran filosofo ma pessimo inventore di parole, forgiò neologismi come agapismo e agapasticismo (da agape, l’amore cristiano), pur di insufflare uno spirito religioso nella storia, nella politica e nel cosmo intero.
Quelle parole, quei discorsi parlano di un’America «creata dalle genti di tutte le nazioni. Non puoi versare una sola goccia di sangue americano senza versare quello del mondo intero»: di nuovo è una citazione di Melville, e di nuovo sembra di risentire le parole con le quali Obama ha ringraziato gli americani, tutti: «vecchi e giovani, ricchi e poveri, democratici, repubblicani, neri, bianchi, ispanici, asiatici, nativi americani, gay, eterosessuali, disabili e non disabili». Ha ringraziato l’America, «il Paese dove tutto è possibile», e l’entusiasmo e la fiducia che il giovane Presidente nero è in grado di suscitare è tale, che nessuno avverte il senso potenzialmente minaccioso che, sotto altre longitudini, quelle stesse parole avrebbero.
Come del resto quelle di Melville: cosa vuol dire infatti che per versare una goccia di sangue americano occorre versare quelle del mondo intero? Non è per amore del paradosso che va notata la cosa, ma per misurare tuta la distanza che separa lo spirito americano da quello europeo, e che inutilmente i leader nostrani cercano di accorciare. Se un leader italiano dicesse che nel nostro paese tutto è possibile, noi non ne trarremmo affatto motivo di speranza; e se un leader tedesco dicesse che non si può versare sangue tedesco senza versare il sangue del mondo intero, nessuno dormirebbe sonni tranquilli.
Il fatto è che le democrazie europee non hanno la rude franchezza di una democrazia di ramponieri: non mostrano, senza snaturarsi come democrazie, un volto aggressivo o addirittura imperiale, come a volte è accaduto all’America, ma non riescono neppure a inventare nuove, storiche uguaglianze senza bagnarle nel sangue di una rivoluzione.
Nel suo libro, Melville fa dire alla voce narrante, Ismael, che una baleniera è stata il suo college di Yale o la sua Harvard; Barack Obama, che ad Harvard ha avuto una borsa, potrebbe ben dire, per converso, che quella è stata la sua baleniera, l’inizio del suo straordinario viaggio nella democrazia americana.. E che da lì è partito per conquistare non la Balena, ma, almeno, la Casa Bianca. Non è la nostra casa, ma non è poco.

Nel mare aperto si può affondare

“Sono convinto che soprattutto oggi la politica debba essere veloce e aperta com’è la società, e debba coltivare l’ambizione di conquistare non le "casematte" degli interessi particolari […], ma il "mare aperto" di un’opinione pubblica nella quale convivono condizioni sociali diverse nel corso di una stessa vita, nella quale abitano più dubbi che certezze, più disponibilità che identità blindate”: sono parole di Walter Veltroni, e si leggono nella Prefazione al libro di Barack Obama, L’audacia della speranza, pubblicato lo scorso anno, quando ancora il 14 aprile non era, almeno nelle sue proporzioni, immaginabile. La convinzione che l’allora Sindaco di Roma manifestava a proposito di ciò che la politica deve essere ha avuto poi modo di tradursi in una dolorosa sfida politica ed elettorale. A causa di una congiuntura particolare, il partito democratico ha dovuto mettere necessariamente in campo la velocità e l’apertura auspicate da Veltroni, e presentarsi alle elezioni ancor prima che del partito si costruisse l’intera architettura. A causa poi di un risultato non brillante, ha dovuto all’indomani del voto chiedere per sé anche un altro aggettivo: non solo veloce nelle decisioni e aperto nelle candidature, ma anche paziente e lungimirante nel disegnare una prospettiva politica che superasse il 2008, per fissare l’appuntamento con la vittoria un po’ più in là negli anni – anche se intanto il ballottaggio alle Comunali di Roma incombe, e nessuno può dire più, come il poeta, “io sol combatterò, procomberò sol io”. Comunque vadano le cose nella capitale, il partito democratico ha effettivamente accarezzato, con la sua guida nuova di zecca, l’idea secondo la quale la politica, per esser “bella” (un altro aggettivo che Veltroni ha dispensato negli anni a piene mani), deve alleggerirsi del peso degli interessi particolari e, così liberata, rendersi piacevole anzitutto agli occhi dell’opinione pubblica che si esprime sui grandi giornali.
Solo che gli interessi particolari capita che coincidano a volte con gli interessi reali, fin quasi ad essere la stessa cosa, come il successo della Lega sembra avere dimostrato in maniera lampante. Tutto si può pensare della Lega, meno infatti che sia un partito veloce e aperto. Tutto si può dire di essa meno che goda di particolare favore presso l’opinione pubblica. Tutto, infine, le si può attribuire, meno la propensione a lasciarsi abitare dai dubbi: se non è blindata la sua identità, non si può dire quale lo sarebbe. La Lega ha la stessa classe dirigente da qualche legislatura a questa parte, e lungi dall’inseguire novità ripropone la stessa ricetta, convincente o no che sia, praticamente da quando è nata. Naturalmente, col senno di poi riesce facile dire che il successo elettorale della Lega fa giustizia di molte chiacchiere sulla crisi dei partiti, sui nuovi modelli di organizzazione degli interessi, leggeri e privi o quasi di una solida struttura territoriale, sulla predominanza della rappresentazione mediatica rispetto alla rappresentanza reale degli interessi.
In realtà, come erano sbagliate prima le infatuazioni per la modernità liquida e le identità plurali, così è sbagliato rimpiangere adesso i solidi partiti della prima Repubblica e prendere la loro tetragona identità a modello. Che però si possano lasciar perdere le robuste casematte per approfittare dell’aleatorio favore di vento di cui si gode in mare aperto si è rivelato, alla prova dei fatti, un errore. E lo è ancor più se si considera che non vi è motivo alcuno per rimanere intrappolati in una simile contrapposizione: come se gli interessi particolari si dovessero vergognare di sé e non lasciarsi rappresentare alla luce del sole, e d’altra parte l’opinione pubblica non fosse innervata da interessi molto particolari che spiegano a volte più di ogni altra cosa la direzione e i salti di vento.
Chissà, comunque, cosa avrà pensato Obama, della prefazione. Dopo la vittoria di Hillary Clinton alle primarie in Pennsylvania, però, si ripresenta anche al di là dell’oceano la preoccupazione che il candidato affascinante, che ha tutte le ragioni per piacere, che gode di buona stampa, che ha le simpatie di Hollywood, che parla in nome del nuovo, della velocità e della leggerezza, e che infine ha maggiore capacità di parlare al futuro e alle nuove generazioni, possa essere, al presente, elettoralmente debole. La Clinton, di cui si riconoscono competenza e serietà per considerarle però prerogative da establishment – roba vecchia, quindi – ha in realtà preso più voti di Obama in quegli Stati che potrebbero fare la differenza contro McCain. È da vedere se il partito democratico originale, quello americano, sia più o meno paziente e lungimirante di quello nostrano, e se sia disposto a mettere da parte la preoccupazione di vincere le prossime elezioni presidenziali, per rimontare però fiduciosamente più in là.

Serie

Ad esempio:

Barack Obama ti ha insegnato un trucco per ricordare le tabelline; Barack Obama ha pianto di nascosto quando è nato tuo figlio; Barack Obama ha fatto quel viaggio in Australia che sognavi da una vita. Quando è tornato ti ha detto che non era niente di che; Barack Obama ti ha mandato una cartolina con su scritto "vacanza stupenda, manchi solo tu!"; Barack Obama, con te, può essere se stesso.

Gli stessi che curano da anni la celebrata serie del cattivissimo Chuck Norris, sotto lo slogan "Yes, he can" si sono messi a fare la serie del buonissimo Barack.

Left Wing

Il nuovo numero di Left Wing ha molte cose interessanti: due articoli su obamismi vari, in particolare, che dicono cose che di solito non trovate sui giornali, e un articolo sul caso Moro, la cui prima caratteristica, dal punto di vista della storia nazionale,è la necessità che sia appunto un caso, possibilmente irrisolto.

Un punto di vista abbastanza precisamente opposto a quello di Francesco Cundari è quello del Ministero dell’Informazione di Radio Cafoscari. Io la penso senza molti dubbi come Francesco, però segnalo lo stesso questa singolare necessità di una sacra rappresentazione dell’affaire, che mi sembra valere meno come ricostruzione storica che come ricostruzione di certi costumi di noi italiani. (Tra i pregi dell’articolo di Left Wing, metto anche l’avere ricordato quanto recitino in una rappresentazione anche coloro che di solito credono di riservarsi per sé solo il ruolo di quelli che assistono, e magari fustigano).

La meglio gioventù

Troppo facile. Siccome si sa che le biografie dei candidati alla Casa Bianca vengono rivoltate come un guanto, Obama ha giocato d’anticipo e confessato che lui, da giovinotto, ha fatto uso di marijuana, alcol, e a volte persino cocaina. Testimoni dell’epoca confermano tuttavia che la droga non ha giocato alcun ruolo importante nella sua vita. Ma i cronisti del New York Times sono veri segugi, a loro non la si fa, e così, scavando ben a fondo nel suo passato, hanno scoperto che Obama, durante gli anni del college, sembrava interessato a pensatori come Nietzsche, Sartre o Freud.

Nietzsche, Sartre o Freud!. A me pare evidente che il tarlo del nichilismo stia per divorare il cuore dell’America.

(Però, capirai: si fosse entusiasmato per Kant o per Hegel, tanto di cappello. Ma un giovinotto che si interessa a Nietzsche si trova facilmente anche in provincia di Frosinone).

Dammi sei parole

Bella iniziativa del Corriere, che nelle pagine della cultura ripropone il leggendario romanzo in sei parole di Ernest Hemingway: For sale: baby shoes, never worn (In vendita: scarpette neonato, mai usate). Ci sono anche altri esempi illustri (di Margaret Atwood, di Bruce Sterling, di Dave Eggers). Larry Smith ha aperto un sito, dove è possibile mandare il proprio romanzo breve. Per ora, Smith ne ha fatto un libro, uscito ieri in USA.

Non mi voglio sottrarre. E ci provo. In lingua originale: I care, We can, They win. (Sta anche su Left Wing)