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La sfida: tornare una vera comunità
A distanza di un mese, la fotografia del partito democratico che è restituita dal voto congressuale è chiara: in città vince Nicola Oddati; in provincia, è invece davanti il neo-segretario Costa. La frattura non potrebbe essere più netta. E non potrebbe rendere più acuto il paradosso di un partito guidato da un segretario in minoranza in tutti i quartieri della città, dal Vomero a Poggioreale. Il suo lavoro comincia subito in salita, dunque – se comincia, perché il contenzioso sull’esito del congresso aperto dinanzi alla magistratura è ancora in piedi.
Le elezioni, d’altra parte, sono alle porte, e non è ben chiaro come il Pd arriverà al cruciale appuntamento. Non è ovviamente in gioco solo la formazione dei gruppi dirigenti, ma anche, anzi soprattutto, la selezione delle candidature. Che non verrà affidata alle primarie, come nel 2013, ma alle decisioni dei vertici, e dunque il tema della loro legittimazione è decisivo. E però può succedere di tutto: che si arrivi al giudizio del Tribunale; che il congresso finisca gambe all’aria; che il risultato ne venga confermato; che con uno scatto di improvvisa ragionevolezza si riesca a trovare un accordo che eviti il provvedimento del giudice.
Ma non c’è solo il Pd. O per meglio dire: la fotografia del voto democrat può essere presa come un’indicazione più generale, che viene confermata a Napoli come altrove: che cioè la città e il suo hinterland viaggiano ormai lungo linee divergenti. Un libro di Pareg Khanna, “Connectography”, ha di recente tracciato la mappa del mondo a partire dalle città: sono le città, infatti, che trainano il mondo, sono le città i nodi reali dell’economia globale. Le città e non gli Stati, la cui funzione regolatrice ed equilibratrice mostra ormai la corda. Le città però dovrebbe significare: le aree metropolitane e il loro retroterra, sempre più connesse funzionalmente e simbolicamente con i capoluoghi.
Napoli però è molto lontano da questo modello di sviluppo. La separazione fra città e provincia dovrebbe essere ricucita dalle istituzioni dell’area metropolitana, ma le istituzioni dell’area metropolitana non hanno ancora cominciato a funzionare. Napoli e l’area vasta non viaggiano affatto all’unisono, né socialmente né politicamente. E anche nel partito democratico si riproduce la spaccatura, non solo nell’espressione del voto ma anche nelle condotte politiche: in città il Pd tiene un atteggiamento intransigente nei confronti di De Magistris e conduce un’opposizione senza sconti; in provincia, invece, tiene un atteggiamento ufficialmente “responsabile” e non disdegna accomodamenti con il Sindaco.
È difficile capire, in queste condizioni, che Pd sarà: un partito fieramente avversario del mondo arancione, che d’altra parte ha cercato in queste settimane un dialogo ravvicinato con la nuova formazione di sinistra, i Liberi ed Uguali di Pietro Grasso, oppure un partito disponibile al compromesso, in cambio di qualche quota di sottoporre nella gestione dell’ente metropolitano? Un partito in cerca di nuovi collegamenti con la società civile, o un partito dominato ancora dalle scelte dei capibastone? Un partito capace di interpretare le sfide della modernizzazione, delle forze più dinamiche della città, o un partito preoccupato di conservare quote sempre più residuali di consenso? Un partito capace di ritrovare il senso di una comunità politica, o un partito costretto ancora una volta a fare intervenire altre istanze per regolarne la vita interna, che si tratti di un giudice o di un commissario?
Non tutti questi dilemmi corrono ovviamente lungo la linea di separazione fra città e provincia, ma tutti però sono ostacolati, nella loro soluzione, da linee di divisione che si approfondiscono fino all’incomunicabilità, e che rendono difficile assegnare al partito democratico il titolo di interlocutore affidabile per la costruzione di un progetto politico che coinvolga tutta la cintura partenopea.
Eppure non vi sarebbe altro modo di pensare la città, da parte di una classe dirigente all’altezza dei suoi compiti, se almeno si vuole che nelle mappe delle nuove connessioni globali compaia, in futuro, anche Napoli.
(Il Mattino, 18 dicembre 2017)
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Se Roma decide per Napoli divisa
“O si ripristinano le regole, o in qualità di presidente nazionale interesserò io gli organismi di garanzia a tutela del partito nazionale”. Dunque, secondo il Presidente nazionale del partito democratico, Matteo Orfini, nel pd napoletano le regole non ci sono, o non vengono osservate. Se fino a ieri era forse ancora possibile considerare regolare l’andamento a singhiozzo del congresso provinciale – mezzo celebrato mezzo no, una domenica sì e l’altra pure – oggi lo è molto meno, visto che regolare non appare nemmeno al presidente del partito. Purtroppo non è una novità: tra primarie annullate, primarie contestate , ricorsi al tribunale e commissariamenti di federazione, va così, ormai, da un buon numero di anni. Mancava la nascita del gemello diverso, e ora c’è pure quello, con Nicola Oddati che ieri ha tenuto a battesimo “Passione democratica”. Sigla: Pd. Che è come dire che del neo-segretario Costa, uscito vincitore dalla conta dimezzata delle settimane scorse, non c’è da parte di Oddati (e dei Cozzolino, Impegno, Marciano, Buonavitacola che lo hanno sostenuto) alcun riconoscimento. Ci sono invece le carte bollate, cioè la certificazione che il Pd partenopeo, allo stato, può essere definito in molti modi, ma non come una comunità politica. Si vedrà nei prossimi giorni se le parole forti di Orfini approderanno all’unico esito possibile in queste condizioni, cioè all’ennesimo commissariamento (sempre che non arrivi prima un giudice a decidere per tutti), ma una cosa è certa: un partito precipitato all’11% che si divive in due, come una mela, vede le sue chance di ripartire ridotte al lumicino.
Del resto, fare della materia del congresso la sua conformità alle regole è confessare implicitamente che altra materia, allo stato, non v’è.
Eppure ci sarebbe, e come se ci sarebbe. Nel Parlamento, il Pd si è fatto interprete delle richieste formulate dall’Anci di venire incontro ai comuni in predissesto. Tra gli emendamenti presentati a firma democrat ve ne sono alcuni che consentirebbero a De Magistris di tirare il fiato: di avere ulteriore accesso al fondo di rotazione per coprire debiti fuori bilancio, di allungare i termini di rateizzazione dei debiti erariali e previdenziali del Comune e delle sue partecipate, di utilizzare ulteriori anticipazioni di liquidità. Orbene, si può capire lo spirito diciamo pure istituzionale con cui l’Anci si è mossa, al fianco dei comuni sull’orlo del baratro (tra i quali c’è Napoli); un po’ meno si capisce come mai sia il Pd a farsene zelante interprete, spingendosi sino al punto di firmare emendamenti calzati su misura sui conti di Palazzo San Giacomo. Ancor meno si capisce l’annuncio del governo di voler intervenire a favore degli enti locali in predissesto: se questo significherà, per De Magistris, vedersi riconosciuta la possibilità di presentare un piano di equilibrio sostitutivo di quello sonoramente bocciato non da un ragioniere di passaggio ma dalla Corte dei Conti (e per il sindaco sarebbe la salvezza, almeno sul piano formale), allora l’incomprensibilità sarà totale. Il Pd controlla infatti tutte le caselle: guida l’Anci, guida il governo, ha i suoi parlamentari che presentano gli emendamenti. L’unica casella che non compare in questo surreale gioco di sponda è quella napoletana. In consiglio comunale la occupa Valeria Valente, che però conduce, praticamente in solitaria, la sua battaglia di segno diametralmente opposto sui conti disastrati del Comune, ma la sua voce evidentemente non arriva a Roma. Cioè non arriva la voce del Pd napoletano, che invece di fare su questa roba un congresso, e prendere una chiara posizione politica, si attorciglia su se stesso, si dilania tra correnti, si consuma in diatribe senza fine.
Di cui, diciamo la verità, nulla o quasi arriva all’opinione pubblica. Che certo non vuol sapere come finirà la conta interna e chi deciderà le candidature al Parlamento (la vera posta in gioco nella estenuante lotta di potere in corso), ma qual è il profilo politico del partito democratico a Napoli. E conseguentemente qual è la posizione del Pd su De Magistris, e se e a quali condizioni dargli una mano: per salvare lui o per salvare la città? Per cambiarne gli indirizzi e condizionarne le politiche o per contrattare un po’ di sottogoverno?
Ma niente: l’oggetto del contendere sono le regole, le tessere, le date, le poltrone. E intanto Roma decide su Napoli senza alcuna reale interlocuzione con gli attuali dirigenti del Pd napoletano. Un giudizio più spietato sulla loro rilevanza non si potrebbe dare.
(Il Mattino, 24 novembre 2017)
La lotta per la leadership e la tregua necessaria
De Luca si chiama fuori. La partita del congresso non è ancora chiusa, ma la piega che ha preso spinge il Presidente della Regione a mettere la maggiore distanza possibile fra sé e le complicate vicende del partito democratico napoletano. Che ha tenuto un congresso a metà, che un’altra metà celebrerà domenica prossima – o più probabilmente non celebrerà affatto, lasciando così aperta la diatriba fra le parti in lizza – che ha visto prese di posizioni diverse e in diretto conflitto di dirigenti nazionali, che probabilmente avrà una coda lunga di polemiche e ricorsi, a meno che non si trovi una soluzione politica che consenta a tutti di rinfoderare le spade.
Ma nel post pubblicato ieri su Facebook De Luca ha chiarito che con tutto questo lui non c’entra e non vuole entrarci, e che è altro ciò per cui si era speso: una soluzione unitaria, che andasse oltre le divisioni fra ex-Ds e ex-Margherita, e oltre anche i nomi attualmente in campo (Costa, Oddati, Ederoclite). La mediazione non è riuscita e l’«ipotesi individuata» da De Luca (Pasquale Granata) non è passata. Ma, nel nascondere dietro una eufemistica formula impersonale («si è ritenuto di non accedere») i nomi di chi non ha voluto l’accordo (Casillo e Topo) il comunicato del governatore butta là una frase che non lascia molto adito a dubbi. Scrive infatti De Luca che il suo obiettivo era quello di «rendere percepibile l’immagine e la funzione di un PD che appare evanescente». Ora, il partito evanescente è il partito finora saldamente nelle mani di Casillo, che tiene da qualche anno le chiavi della federazione napoletana. De Luca non vuole essere tirato in ballo, smentisce tutte le illazioni sul suo conto, smentisce di aver parlato con Roma, smentisce di aver fatto pressioni perché Roma mandasse un candidato, smentisce di aver avuto un candidato in questa contesa. Ma non rinuncia, senza tuttavia far nomi, a un giudizio assai severo sul suo principale avversario politico dentro il Pd.
Ora, se la necessità di stare alla larga dal clima avvelenato in cui si è avvitato il percorso congressuale viene comprensibilmente dal ruolo che De Luca riveste in quanto presidente della Regione, tanto più nella fase che si apre adesso. In cui il congresso rischia di prendere la via delle carte bollate, è altrettanto comprensibile che la fatica di starci invece dentro, in un modo o nell’altro, non gli verrà risparmiata. Non si è acceduto all’ipotesi unitaria – da parte di Casillo e degli ex democristiani – perché il congresso costoro lo volevano vincere. E lo volevano vincere perché volevano limitare la supremazia politica di De Luca in Regione. Non c’è un’altra ragione: c’è invece una lotta politica, anche aspra, che passa sicuramente attraverso i nomi dei candidati, ma che punta direttamente a Palazzo Santa Lucia, lo voglia o no De Luca.
Del resto, che uomini a lui vicinissimi come il vicepresidente della Regione, Fulvio Bonavitacola, si siano impegnati al fianco di Nicola Oddati, è cosa a tutti nota. Certo, De Luca è stato molto rigoroso nell’imporsi una formale equidistanza. Ma volente o nolente De Luca – forse più nolente che volente –questo congresso lo si sta celebrando per un solo motivo: per segnare un punto contro De Luca.
Il gioco non può però essere condotto fino a un punto di rottura, perché le elezioni politiche sono prossime e non dovrebbe convenire a nessuno tirare ancora la corda: un equilibrio deve essere trovato. In questo senso, è ragionevole attendersi che invece di inasprire ulteriormente gli animi, Roma provi effettivamente a trovare una soluzione concordata, che non suoni come una sconfitta per nessuno. Il comunicato di De Luca è un passo in questa direzione. Vuol dire infatti: non sono io ad avere voluto lo scontro, e non sarò neppure io a impegnarmi in prima persona per il superamento dell’impasse che con tutta probabilità si determinerà dopo il 19 novembre, quando il congresso rimarrà ufficialmente monco della parte che sostiene Oddati. In questo modo, è lasciato più spazio perché Roma trovi il modo di far scoppiare la pace: o almeno una tregua, fino alle prossime elezioni.
Ma si sa: non sempre i percorsi più ragionevoli sono quelli che la politica è poi effettivamente in grado di percorrere.
(Il Mattino, 15 novembre 2017)
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La diaspora che sa di passato
Lo scenario è in movimento, ed è fresca di stampa una legge elettorale che suggerisce di coalizzarsi anche solo in vista delle elezioni, giusto il tempo necessario per conquistare uno scranno parlamentare. Tutte le soluzioni sono dunque possibili. Vale a Roma e vale pure a Napoli, dove l’agitazione è da ultimo provocata dall’uscita di Antonio Bassolino, che ha abbandonato il partito democratico e ha ripreso a dialogare con il sindaco De Magistris. La motivazione risiede anzitutto nella vicenda personale di Bassolino, com’è chiaro dalle parole usate dalla moglie, l’onorevole democrat Annamaria Carloni: «Antonio non è stato rispettato sul piano politico e umano», «Contro Antonio è stato alzato un muro», «Antonio è stato maltrattato». Ma ci sono anche motivazioni politiche generali: Bassolino ritrova infatti la compagnia dei fuoriusciti del Pd, di tutti coloro cioè che pensano che il centrosinistra non può rinascere se Matteo Renzi non toglie il disturbo.
Quale centrosinistra può però rinascere, se i protagonisti di questa estenuante diaspora sono gli stessi che hanno navigato prima nell’Ulivo e poi nel Pd in tutti questi anni? Non ha un inevitabile sapore di passato, tutta questa discussione? E che c’entra Napoli, la città, con tutto questo? Bassolino va ad aggiungersi ai Bersani e ai D’Alema che hanno guidato la sinistra in Italia per non meno di un paio di decenni. Sbalzati di sella dalla nuova generazione democrat, oggi faticano a riconoscersi nel Pd a guida renziana, ma faticano ancor di più ad accorgersi di come la sinistra che vuole essere alternativa a Renzi, se ha numeri e idee per esistere, non sarà certo per riconoscersi in costoro. Non ha nessun motivo per farlo.
Visto dalla sinistra radicale, questo fantomatico nuovo centrosinistra che nascerebbe se solo Renzi si facesse da parte non è infatti altro che un imbroglio, un pannicello caldo, un cambio di facce ma non di politiche.
A Napoli la cosa prende un’evidenza palmare. Bassolino si avvicina a De Magistris – come del resto ha fatto Mdp in consiglio comunale – e comincia a ragionare di possibili candidature nei collegi uninominali. Dalle parti di Dema, e dei movimenti che appoggiano l’attuale giunta, in molti storcono il naso, per non dire di più: com’è possibile che la rivoluzione arancione torni indietro agli anni di Bassolino alla guida della città? Come può Bassolino rappresentare l’area degli insorgenti, dei benecomunisti, dei centri sociali?
Non può. Però si finge che sia possibile, perché De Magistris qualche interesse a dialogare con Bassolino ce l’ha. Si tratta di costruire una sponda politica per compiere la traversata in Parlamento. Un collegio uninominale è quel che ci vuole. Il progetto di mettere dentro tutti quelli che non ne vogliono sapere del Pd fa giusto al caso, il caso suo o forse meglio quello del fratello, Claudio. E cade pure al momento opportuno, mentre si accentuano le difficoltà dell’Amministrazione comunale, che continua a camminare sull’orlo del definitivo dissesto: la politica interviene insomma come arma di distrazione di massa.
La conversione di un’esperienza amministrativa in una prospettiva politica, buona per conquistare un seggio in qualche quartiere della città, resta però un’operazione complicata assai. Ma il Sindaco ci lavora da tempo, consapevole che la sua stagione a Palazzo San Giacomo sta per finire. E una presenza in Parlamento di Dema è il miglior viatico per tentare, più in là, la conquista della Regione. Tanto più se il campo democratico dovesse rimanere privo di una riconoscibile identità e di un vero progetto politico.
Perché è chiaro: tutte le fortune di De Magistris dipendono dalle sfortune e dai fallimenti dei democratici. È stato così fin dalla prima elezione a Sindaco, nel 2011, e continua ad esserlo ancora oggi. La stessa figura di Bassolino può essere usata per sottolineare le difficoltà in cui si dibatte il Pd. Ogni parola di Bassolino è infatti un implicito atto di accusa contro tutto quello che è venuto dopo di lui, contro le insufficienze e i balbettamenti della dirigenza piddina.
Per questo, il congresso provinciale che il Pd celebrerà fra poche settimane può avere un’importanza cruciale. A condizione, naturalmente, che venga giocato non solo per riempire le caselle in vista dei posizionamenti futuri in lista, ma per proporre un nuovo, credibile profilo del partito in città. In passato le occasioni sono fioccate, tra elezioni municipali e elezioni politiche, commissariamenti e segretari di nuovo conio. Ciononostante, mancandole sempre tutte, il Pd si trova allo stesso punto di prima: senza una chiara linea politica, e con molte difficoltà a suscitare attenzioni e passioni nella società civile.
Ora c’è una nuova prova, il congresso provinciale. La competizione fra Oddati, Costa e Ederoclite per la segreteria democratica deve però ancora decollare. Ma può farlo solo a condizione che il confronto venga sottratto ad una dinamica introflessa, solo per addetti ai lavori (ed esperti di tesseramento), se smette cioè di essere una vicenda tutta piegata sulle diatribe interne, e viene proposto invece alla città come occasione per tirare finalmente una linea e ripartire.
Bassolino e De Magistris simboleggiano, insieme, i nomi di ciò che il Pd non può più essere: da un lato, un’opposizione priva di nerbo e di credibilità in città; dall’altro, il cono d’ombra in cui il centrosinistra si è cacciato dopo la fine politica di Bassolino. Ma cosa il Pd può invece essere, lo si deve ancora capire. E se quei due si mandano segnali, è evidentemente perché c’è ancora un vuoto in cui possono provare a infilarsi, provando a prolungare storie già finite da un pezzo (nel caso di Bassolino) o a inventarne di nuove per non rispondere del proprio operato (nel caso di De Magistris).
In effetti, qualcuno che chiuda questo intermezzo – come nel film di Billy Wilder, «Irma la dolce» – promettendo finalmente di raccontare un’altra storia, ancora non c’è.
(Il Mattino, 5 novembre 2017)
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Come non ripetere gli errori e tornare a parlare alla città

R. Magritte, Time transfixed (1938)
Il bello comincia adesso, ora che ci sono i nomi dei candidati alla segreteria provinciale del partito democratico napoletano: Nicola Oddati, Massimo Costa, Tommaso Ederoclite. Il primo è sostenuto dall’area ex Ds, compreso il governatore De Luca; il secondo dall’area ex Margherita; il terzo dal Comitato Trenta, di quelli che hanno provato a non intrupparsi né con gli uni né con gli altri. Sarà congresso vero, con vinti e vincitori: le soluzioni unitarie sono naufragate, le mediazioni saltate, e da ultimo pure i comitati di saggi sono rimasti un pio desiderio. (Ma quando mai un partito è stato messo in mano a un comitato di saggi?).
Il bello comincia adesso, perché la vita interna del partito democratico napoletano non è stata, negli ultimi anni, un fulgido esempio di fair play politico. Il timore che anche questa volta il meccanismo si inceppi da qualche parte, e il congresso finisca per ricorsi e commissariamenti, è forte. Ma è pur vero che non si esce da uno stato di minorità politica se non per le vie politiche. E il congresso rimane la via maestra. I democratici hanno buon gioco a dire che sono ormai l’unico partito a celebrarli, a queste latitudini: hanno ragione. Resta però che di una celebrazione deve trattarsi, e non di una zuffa condotta senza esclusione di colpi. Altrimenti la scelta congressuale si rivelerà un micidiale boomerang per il partito.
Il bello comincia adesso anche perché è inedito se non il profilo dei fronti che si contrappongono, almeno uno dei protagonisti. Si deve certo cominciare col dire che da una parte stanno i Casillo e i Topo e le Armato, e dall’altra i Cozzolino e i Marciano e le Valente, democristiani gli uni e diessini gli altri, e tutti di lungo corso, ma la partita politica vede in campo un altro attore, non proprio l’ultimo della compagnia: Vincenzo De Luca, che finora non si era mai fatto tanto accosto al partito napoletano. Questa volta è andata diversamente: prima ha suggerito ipotesi unitarie, poi ha provato a favorirle, cercando la convergenza su un nome da lui stesso proposto; infine ha sostenuto la scelta di Oddati, che tra tutti i nomi circolati tra gli ex ds è sicuramente l’uomo a lui più vicino, oltre che quello di maggior peso. Tanto attivismo si spiega solo in un modo: De Luca non vuol subire il condizionamento crescente del partito napoletano, che rischia di mettere un’ipoteca sul futuro del governo regionale, non tanto in questa legislatura quanto nella prossima. Non fare la battaglia significa già perderla, lasciando il Pd in mano ai suoi avversari interni. E De Luca lo sa: per quanto non abbia mai lesinato le critiche al suo partito, ne ha sempre voluto mantenere ferreamente il controllo, nella sua Salerno. Forse non gli è servito molto per vincere le elezioni, ma gli è sicuramente utile per non avere sassi nelle scarpe. E che Napoli possa diventare per lui non un sasso, ma un macigno, se non prova a entrarci dentro, beh: quello è sicuro.
Il bello comincia adesso perché i numeri non sono così netti, da assicurare a tavolino la vittoria all’uno o all’altro. Ancora una volta c’è il rischio che gli organi di garanzia avranno parecchio lavoro da fare. A bocce ferme, gli ex della Margherita sono convinti di avere in mano la maggioranza del partito, ma si tratta di un margine esiguo, ed è possibile che alla fine si riveli essenziale la scelta della minoranza orlandiana. Che al momento sembra stare con Casillo e Topo, ma che ha sicuramente, in diversi suoi esponenti, maggiori affinità culturali, oltre che un retroterra comune di provenienza, con Nicola Oddati. Qualcosa, dunque, potrebbe spostarsi.
Il bello, e il difficile, comincia adesso, va detto infine pure questo, perché se per tre quarti un congresso è già deciso al momento del tesseramento, c’è almeno un ultimo quarto che si gioca fuori, tra i cittadini e con le parti della società a cui si vuol tornare a parlare. Dopo le primarie annullate, i ricorsi e i commissariamenti, i lanciafiamme mai usati, e il minimo storico toccato alle ultime elezioni comunali, o il partito democratico riprende a macinare iniziative, a costruire un progetto politico vero, a attirare nuove energie intellettuali, a recuperare credibilità tra i giovani, oppure non c’è candidato né governatore che tenga. E questo sarebbe un errore imperdonabile, in una fase in cui il clima politico comincia a cambiare, e la stella di De Magistris non manda più una luce pura e senza sbavature sull’orizzonte del lungomare liberato. Né tra i molti che, anzi, si affannano a capire da che parte bisogna voltarsi per rimettere in sesto la città.
(Il Mattino, 14 ottobre 2017)
Pd nel guado. Molti accordi, poca credibilità

C. Oldenburg, Smoke and Reflections (1975)
Nel Pd napoletano si sono prodotti due fatti nuovi nelle ultime settimane. Non si tratta di novità sconvolgenti, in grado di cambiare il volto a un partito che di cambiare volti qualche necessità ce l’avrebbe, però sono fatti nuovi, di cui occorre avere contezza se si vuol capire come il partito democratico si appresti a celebrare il congresso provinciale nella più importante città del Mezzogiorno.
Il primo fatto è il dialogo neanche troppo sotterraneo che un pezzo del Pd ha avviato con il Sindaco De Magistris, mentre un altro pezzo continua imperterrito a fare opposizione in consiglio comunale. Due partiti in uno. All’inizio, questa specie di “entente cordiale” è stata presentata come una nobile forma di sensibilità istituzionale, la quale avrebbe richiesto una qualche assunzione di responsabilità per consentire agli organismi della città metropolitana di funzionare. Che abbiano preso a funzionare rimane molto, molto opinabile. Ma, intanto, quella sensibilità si è tradotta in ben altra cosa, cioè in un accordo sugli staffisti da chiamare in servizio, il che ha francamente il sapore di una lottizzazione vecchia maniera. E il fatto nuovo finisce allora con l’essere per l’appunto il ritorno delle vecchie maniere, quelle degli accordi sotto banco e delle pratiche di sottogoverno. Ora, può darsi che il partito democratico non possa fare tabula rasa di un rapporto con la società napoletana fondato essenzialmente sulla gestione clientelare del potere. Può darsi che questa difficoltà non sia solo del Pd ma più in generale di tutta la politica nel Mezzogiorno, condannata a ripercorrere vecchie strade per non riuscire velleitaria e inconsistente. Così, quelli che vorrebbero mettere fuori gioco i signori delle tessere, i ras delle truppe cammellate, i mister centomila preferenze (come si diceva una volta, ed è vero che le preferenze diminuiscono, ma i mister: quelli rimangono) devono scontrarsi ogni volta con la realtà di un’organizzazione sempre meno comunità politica e sempre più somma di potentati, e rimandare quindi a data da destinarsi i buoni propositi (se li hanno). Certo è che, pure a voler essere realisti fino al cinismo e accettare la spregiudicatezza del gioco politico, non si può non constatare che questa coazione a ripetere rende del tutto incomprensibile il progetto del Pd: chi sono i democratici, a Napoli? Quale idea di città hanno? A quali parti della società si rivolgono? Come pensano di recuperare fiducia, autorevolezza, affidabilità, di reclutare e promuovere nuove energie, nuove intelligenze, formare una nuova classe dirigente? Domande inevase, al momento, che purtroppo non sono nemmeno in molti a porsi, da quelle parti.
L’altro fatto nuovo ha un nome: Vincenzo De Luca. Non è, anche questo, un nome nuovo, ma è nuovo il modo in cui il governatore sta seguendo la fase precongressuale. Non si espone in prima fila, fa muovere i suoi proconsoli, Fulvio Bonavitacola e Nicola Oddati, ma sembra interessato a giocare fino in fondo la partita, mentre in passato si limitava a guardarla quasi da spettatore, e comunque a non legare troppo le sue sorti a quelle del suo partito. Stavolta è diverso. Ci sarà un candidato deluchiano alla segreteria provinciale del Pd napoletano? È presto per dirlo. Di sicuro è cominciato un lavoro di ricucitura a sinistra, fra i rotti frantumi di quello che resta dell’area ex DS, che potrebbe avere un punto di approdo comune. Quale però sarà questo punto di approdo? Un nome che tiene in equilibrio le varie anime del partito (a volte vive, ma più spesso morte), oppure un nome che riesce a rivolgersi anche al resto della città? Un nome autorevole, forte, capace di decidere e di incidere, oppure un esecutore di decisioni prese altrove? Valgono insomma le domande di prima: un congresso che si divide secondo vecchie linee di appartenenza, e che non offre nient’altro che l’ennesima geometria di alleanze, parlerebbe infatti pochissimo alla città, che dai democrats non vuole sapere se sarà rottura o intesa fra gli ex DC di Casillo e Topo e gli ex DS più o meno federati da De Luca, ma che tipo di opposizione si vuol fare a De Magistris, quali sono gli assets sui quali puntare, come si difendono gli interessi di Napoli e del Mezzogiorno nella programmazione nazionale ed europea. Di più: prima ancora di sapere il ‘cosa’, si vuol sapere il ‘come’, perché il Pd a Napoli continua ad avere un enorme problema di credibilità, con l’aggravante che da anni ormai va riducendosi inesorabilmente il bacino elettorale del partito.
De Luca si è infilato nelle schermaglie congressuali napoletane perché teme che un partito in mano a Casillo e Topo condizionerebbe pesantemente il suo lavoro alla Regione. Se strada facendo trovasse qualche ragione in più per fare questa battaglia, allora, forse, si potrebbe produrre finalmente un terzo fatto nuovo, il più importante di tutti: che ad avere contezza dei fatti di queste ultime settimane vi sarebbe motivo per interessare una parte più ampia dell’opinione pubblica. Diversamente, il congresso provinciale del Pd scivolerebbe subito via dalla cronaca, e dalla storia di questa città.
(Il Mattino, 1° settembre 2017)
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