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Uniti si vince nei comuni ma non si governa

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Il dato è questo: il centrodestra ha vinto; il centrosinistra ha perso. Quanto ai Cinquestelle, hanno perso pure loro, ma siccome la loro sconfitta è maturata al primo turno, ieri è passata in secondo piano. Se è in questi termini che viene riassunto il risultato delle elezioni amministrative, colpisce che nessuno noti il paradosso che inficia buona parte delle interpretazioni circolate all’indomani del voto. Perché dalla vittoria del centrodestra si trae la lezione che quando va unito il centrodestra è ancora competitivo, ed è anzi in grado di espugnare roccaforti rosse come Genova, Pistoia o Sesto San Giovanni, la Stalingrado d’Italia. Mentre dalla sconfitta del centrosinistra si trae la lezione che il Pd di Renzi patisce l’isolamento in cui si è cacciato, rompendo a sinistra. Cioè, seguitemi: sia che si vinca, sia che si perda, la lezione è la stessa, che uniti si vince. Ma che lezione è questa, che viene comprovata da qualunque risultato? Non è una lezione, in realtà, ma è solo l’effetto di un sistema elettorale e di una partita locale che consentivano e anzi incentivavano il formarsi di coalizioni. Cambiate la legge elettorale, e soprattutto cambiate la posta in gioco, e non avrete più l’evidenza che oggi pare tanto indiscutibile quanto vuota di significato.

Sulla legge elettorale con la quale andremo al voto alle politiche non ci sono certezze, ma dopo il naufragio dell’accordo su un sistema simil-tedesco, è difficile immaginare che si trovi il modo di porvi mano (salvo piccoli aggiustamenti tecnici richieste per quel minimo di armonizzazione fra i sistemi delle due Camere che è possibile ottenere per decreto, su punti largamente condivisi). Cosa saranno allora le coalizioni che domenica vincevano o perdevano, quando non ci sarà nessun ballottaggio a dargli la spinta decisiva per conquistare il governo non di una città ma del Paese? Macron la rivoluzione del sistema politico l’ha fatta grazie al ballottaggio, qui da noi come la si farà? D’accordo, sono tempi volatili, in cui è possibile ipotizzare anche movimenti elettorali significativi, ma che centrosinistra e centrodestra ce la facciano da soli a conquistare la maggioranza è al momento ipotesi del terzo tipo. Quand’anche Berlusconi, Salvini e Meloni dovessero arrivare a un bel 35-40%, con quali altri pezzi arriverebbero più su, fino a quota 50,1%? Perché Salvini guarderebbe volentieri ai grillini, ma questi mai e poi mai accetterebbero di allearsi col Cavaliere. Il quale si volgerebbe invece verso il centro, ma vaglielo a spiegare a Salvini.

Quanto all’eventuale coalizione di centrosinistra, con o senza il vinavil di Prodi, ben difficilmente potrebbe aspirare a un risultato migliore. Prima dovrebbe mettere insieme una miriade di sigle di cui si è perso ormai il conto: da quelle parti il processo di riaggregazione non è ancora cominciato. Dopodiché, avendo tenuto dentro tutto e il contrario di tutto, con chi andrebbe a trattare un accordo di maggioranza, oltre il perimetro della sinistra? Una simile riedizione dell’Unione di prodiana memoria (dell’Unione, più che dell’Ulivo: il punto al quale era arrivata la frantumazione del centrosinistra prima del progetto dem era infatti l’Unione del 2006, e comprendeva almeno una dozzina di soggetti politici) sarebbe attraversata da un discrimine netto, fra quelli che un accordo coi moderati di centrodestra non lo farebbero mai, e quelli che in verità lo farebbero, avendolo peraltro già fatto.

Per correggere una così sconfortante rappresentazione dello scenario politico-elettorale – e soprattutto: per non lasciare che in questo guado ci rimanga in mezzo il Paese, lasciando che le forze populiste si ingrossino ancora, continuando a lucrarci su – c’è forse un solo modo: prendere sul serio la posta in gioco, l’altro elemento sul quale il voto di domenica, di carattere locale, non ha detto nulla. La posta in gioco è la posizione dell’Italia in Europa, e la capacità di regolare le questioni grandi dei prossimi anni – dall’economia all’immigrazione, dal lavoro alla difesa comune – passandole al setaccio del confronto europeo. È lì che si siederà il prossimo Presidente del Consiglio italiano: non in qualche Palazzo di città ma nei consigli dei Capi di Stato e di governo. Non solo, ma comunque si giudichino gli ultimi confronti elettorali nei paesi UE – dalla Brexit in poi –, è evidente che a deciderne l’esito, in un senso o nell’altro, è stata la posizione assunta rispetto agli impegni presi (o da prendere) con Bruxelles.

Che cosa allora significa oggi l’Europa, per l’Italia? Sarebbe bene che questa domanda, e le parole per istruirla, venissero prima della costruzione di coalizioni posticce, per cui succede che a destra festeggino uniti quelli che l’Euro affama il popolo e quelli che inneggiano al mercato unico, mentre dall’altra parte dovrebbero provare a rimettersi insieme quelli che non c’è spazio per la sinistra dentro questa Unione, e quelli che invece vogliono governarla insieme a Macron.

Sono proposte di fatto incompatibili. Le coalizioni di domenica scorsa – abbiano vinto o perso, come più vi piace – non hanno alcuna omogeneità rispetto alle grandi questioni europee ed internazionali. E se è vero che ha un costo riconoscerlo, è anche vero che solo affrontandolo si costruiscono profili politici credibili, che tornino ad essere attraenti per un elettorato stanco di vedere risse, balletti, polemiche e ripicche. Bisogna che i grandi partiti che intendono assumersi responsabilità di governo nel futuro prossimo declinino in termini chiari e forti le loro priorità, portando la sfida elettorale a un’altezza diversa da quella in cui si impelagano tutti i giorni, sforzandosi di offrire leadership, programmi e interpreti di una nuova stagione, e non semplicemente la riedizione di quelle vecchie.

Solo così quella ridicola discussione sulle sommatorie di partiti e percentuali retrocederà in secondo piano, e la scelta elettorale tornerà ad essere legata a un senso storico e politico generale, di medio-lungo periodo, che ridia significato e funzione a partiti, che nella mera gestione clientelare dell’esistente hanno ormai perduto ogni ragione d’essere e ogni legittimità.

(Il Mattino, 27 giugno 2017)

Franco Volpi

Non ho scritto nulla sulla morte di Franco Volpi. Rimedio oggi. Conoscevo Volpi, anche se superficialmente. Ero ancora studente quando lo vidi per la prima volta, ospite ad un convegno heideggeriano all’Università di Salerno: mi fece impressione l’autorevolezza che gli veniva riconosciuta, pur essendo ancora molto giovane (parlo di più di vent’anni fa, se non ricordo male). L’ultima volta che l’ho visto è stato a Napoli, in occasione della presentazione del romanzo di Feinmann L’ombra di Heidegger, tradotto da un mio grande amico e da un suo grande amico, Lucio Sessa. Romanzo che lessi in bozza, e di cui pure discutemmo un po’, con Lucio. E con il mio heideggerologo di fiducia, da cui sarei curioso di avere un parere, a proposito del testo che metto qui sotto (pubblicato sul Domenicale del Sole 24 Ore). Volpi si è nutrito di Heidegger per tanti anni, ne ha curato un bel po’ di roba, e colpisce che sia giunto a un bilancio così fallimentare. In verità, penso che questo bilancio Volpi lo avesse tratto da tempo: ricordo un suo saggio sulla riabilitazione della filosofia pratica, e ricordo che pensai allora che un tal saggio era abbastanza incompatibile con le vertigini e gli abissi dell’ultimo Heidegger.
Che Volpi non poteva amare. Lo dico senza conoscere per bene il suo lavoro di storico. Ma ne conosco l’opera fondamentale, quella su Heidegger e Aristotele. Vitiello, che stimava molto Volpi, leggeva Heidegger in maniera non opposta ma quasi: Essere e Tempo non è solo una riambientazione di concetti aristotelici, ma ha almeno due anime, una greca e una cristiana. Le vertigini e gli abissi dipendono essenzialmente da quest’ultima, che Vitiello ha finito col preferire. Volpi ha preferito l’altra.
Infine. Sono stato all’Università di Padova, lunedì scorso, per una chiacchierata. Ho visto alcune splendide persone di cui ho molto stima, e sono veramente felice di averle reincontrate. Ma c’era un clima di mestizia, in una città che mi ha sempre dato l’impressione di essere mesta fino alla depressione (ma forse è solo colpa della pioggia, che immancabilmente vi ho incontrato). Sarà per questo che Volpi aveva trovato quasi una seconda patria in Sud America?
Ai muri c’erano i saluti al professor Franco Volpi, e qui io lascio il mio.

I «Contributi alla filosofìa»? «Il diario di un naufragio. Avventurandosi troppo in là nei mari dell’Essere, il suo pensiero va a fondo»
L’esperienza di Nietzsche vuota le metafore di Heidegger, tarpa i suoi slanci, mina alle fondamenta la costruzione dei Contributi alla filosofia. È forse un caso che Heidegger ponga in esergo ai due volumi dedicati a Nietzsche (1961) una epigrafe tratta dall’Anticristo che corrisponde esattamente alla conclusione dei Contributi? Questi terminano con una "fuga" che tratta dell’ultimo Dio, il primo capitolo del Nietzsche si apre con la citazione: «Quasi due millenni e non un solo nuovo dio!».
Forse Heidegger non è più riuscito a risollevarsi filosoficamente dal de profundis di Nietzsche. Nella triste luce dell’esaurimento, l’Essere – quest’ospite solitamente fugace dei nostri pensieri – rimane per il grande Heidegger l’ultima chimera che valga la pena di sognare. Tutti i suoi sforzi mirano a quest’unica meta, l’Essere, ma i sentieri si sono interrotti. La sua intermittente sperimentazione filosofica e il suo "procedere tentoni" in questo sogno hanno prestato il fianco a critiche da far tremare i polsi. Heidegger rifiuta la razionalità moderna con lo stesso gesto sottomesso con cui ne riconosce il dominio, richiama la scienza che "non pensa" ai suoi limiti, demonizza la tecnica fingendo di accettarla come destino, fabbrica una visione del mondo catastrofìsta, azzarda tesi geopolitiche quanto meno avventurose – l’Europa stretta nella morsa tra americanismo e bolscevismo – soffiando sul mito greco-germanico dell’originario da riconquistare. Anche le sue geniali sperimentazioni linguistiche implodono, e assumono sempre più l’aspetto di funambolismi, anzi, di vaniloqui. Il suo uso dell’etimologia si rivela un abuso (…). La convinzione che la vera filosofia possa parlare soltanto in greco antico e tedesco (e il latino?), una iperbole. La sua celebrazione del ruolo del poeta, una sopravvalutazione. Le speranze da lui riposte nel pensiero poetante, una pia illusione. La sua antropologia della Lichtung, in cui l’uomo funge da pastore dell’Essere, una proposta irricevibile e impraticabile. Enigmatico non è tanto il pensiero dell’ultimo Heidegger, bensì l’ammirazione supina e spesso priva di spirito critica che gli è stata tributata e che ha prodotto tanta scolastica.
Certo, i comuni mortali spesso deridono le soluzioni del filosofo solo perché non capiscono i suoi problemi. Dunque non è affatto detto che queste critiche colgano nel segno. Ma se fosse così, allora i Contributi alla filosofia sarebbero allora davvero il diario di bordo di un naufragio. Per avventurarsi troppo in là nel mare dell’Essere, il pensiero di Heidegger va a fondo. Ma come quando a inabissarsi è un grande bastimento, lo spettacolo che si offre alla vista è sublime.