La notte della sua sconfitta, il miliardario Carl Paladino, esponente dei Tea Party, si è presentato dinanzi ai suoi sostenitori con una mazza da baseball arancione, lasciando intendere che l’avrebbe volentieri stampata sul grugno del vincitore, il democratico Andrew Cuomo, che dal 1° gennaio siede sulla poltrona che fu già di suo padre Mario: quella di governatore dello stato di New York. Due italo-americani se l’erano contesa, quella poltrona, ma a leggere gli articoli del New York Times all’indomani dell’Election Day di novembre scorso la partita aveva avuto poco o nulla a che fare con l’italianità dei due contendenti. In realtà, come spiega bene Maurizio Molinari nel suo ultimo libro su Gli italiani di New York (Laterza, p. 166, € 16), mentre Paladino rivendica in maniera fin troppo evidente le proprie origini – parla spesso e volentieri ad alta voce, usa frasi in italiano, mostra le sue preferenze per la cucina etnica – Cuomo lascia le proprie origini sullo sfondo e valorizza piuttosto il messaggio dell’integrazione, aiutato anche dall’essersi sposato (e poi separato) con una Kennedy. E così, anche se non per tutti gli elettori, per gli italiani di New York si è trattato quella notte di un vero e proprio “referendum sulla propria identità”: quanto è sentita? E soprattutto: come è sentita? Per essere italiani nella Grande Mela bisogna per forza calcare il timbro etnico fino alla caricatura, o è possibile mantenere un legame culturale forte senza diventare un personaggio dei Sopranos? A percorrere le pagine di Molinari, ricche di dati, aneddoti e testimonianze, tra uomini d’affari e cantanti di successo (sapevate che il vero nome di Lady Gaga è Stefani Joanne Angelina Germanotta?) fisici quantistici e ballerine di Broadway, si direbbe che la lotta contro gli stereotipi dagli italiani sia stata sostanzialmente vinta. Ma a 10 anni dall’11 settembre non ci si può non chiedere se si tratti di un caso a suo modo esemplare di integrazione riuscita, o se invece per un gruppo etnico che può difendere il proprio cibo o la propria religione senza più dare nell’occhio o finire nella macchietta, non ve ne siano altri la cui identità è ancora minacciata – o, peggio, è minacciosa. Gruppi che si trovano dalla parte sbagliata della globalizzazione e che reagiscono ai suoi strattoni con più aspre rivendicazioni identitarie. Michael Walzer aveva coniato la formula degli «americani col trattino» per riferirsi ai gruppi di ex-immigranti che, come gli italo-americani, avrebbero una doppia identità: un’identità politica, senza forti pretese culturali, compatibile con l’identità d’origine, non sbiadita ma rimasta per dir così al di qua del trattino. Che il trattino non indichi una semplice aggiunta sarebbe poi dimostrato dal fatto che anche l’identità etnica diventa in effetti specifica della realtà americana: com’è noto, gli italo-americani sono diversi dagli italiani, così come gli ispano-americani lo sono dagli spagnoli.
Ma quella formula funziona ancora? La notte della vittoria, Andrew Cuomo ha scandito le parole: “noi siamo uno Stato, noi siamo New York”, ponendole al di là e al di sopra di tutte le differenze. E forse, per New York come per l’intera America, non è tanto questione di formule o di trattini, quanto della forza politica necessaria a sostenerla. Ogni 11 settembre ne va probabilmente anche di questo.
(questo articolo è apparso su il Mattino il 20 settembre 2011)