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De Giovanni Accademico dei Lincei. «La filosofia come diritto alla politica»

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Il caffè amaro, i quadri del Seicento napoletano alle pareti, la presenza di un gatto silenzioso e invisibile da qualche parte in giro: Biagio De Giovanni mi fa accomodare nel suo bel salotto, e comincia a parlare. Oggi diventa accademico dei Lincei e la nomina prestigiosa è un’occasione per ripercorrere una vita di studi e di pensieri. «Io ho la passione per il parlare. Mi è capitato di recente di imbattermi in un pensiero di Benedetto Croce: “altro è lo scrivere, altro il parlare”. Anche per me è così», mi dice, e intanto io osservo che però questi suoi ultimi anni sono stati pienissimi di scrittura. E che scrittura. Sono usciti uno di seguito all’altro, negli ultimi anni: un dialogo a due voci con Marcello Montanari su Gramsci e il Novecento (“Sentieri interrotti”); uno studio sul pensiero moderno nei suoi esiti più alti (“Hegel e Spinoza. Dialogo sul Moderno”); un saggio teso e drammatico su Giovanni Gentile e Emanuele Severino (“Disputa sul divenire”); due grandi lavori al confine tra filosofia, politica e diritto, là dove si trova il centro degli interessi intellettuali di De Giovanni: “Alle origini della democrazia di massa” e “Elogio della sovranità”: non si può dire che in età avanzata il filosofo napoletano abbia rinunciato a pensare.

Così, faccio un po’ fatica a riportarlo indietro nel tempo, ai suoi inizi, agli anni trascorsi all’università di Bari, all’impegno politico, all’esperienza parlamentare a Strasburgo: la conversazione precipita di continuo sul presente, sull’Italia di oggi, sulla crisi della sinistra e l’avanzata del populismo, su Macron e sulla Germania. Ed è inevitabile che mi annunci l’uscita di un paio di libri: uno su Croce, in cui De Giovanni pubblica la prolusione tenuta all’Istituto di studi storici lo scorso anno; l’altro invece su Kelsen, Schmitt e le categorie della politica novecentesca.

Ma io sono qui, nella sua grande casa a Mergellina, in un pomeriggio quieto e raccolto, per fargli raccontare le stagioni di una vita lunga e intensa. Mi accorgo di avere più nostalgia io della sua vita che non lui stesso.

«La laurea in giurisprudenza? Io ho un libretto universitario da iscritto a filosofia. Ma mio padre, avvocato penalista, mi chiese se fossi proprio sicuro della mia passione. Se ti iscrivessi a giurisprudenza, mi disse, avresti qualche possibilità professionale in più. Io accolsi questo consiglio, avendo però comunque in testa di laurearmi in filosofia del diritto. A volta i padri riescono perfino a vedere lontano: da lì è cominciato tutto».

Gli studi di legge non sono infatti restati senza seguito: sono anzi ben dentro l’idea stessa che De Giovanni ha del lavoro filosofico: «Secondo me, il laureato in giurisprudenza, proprio perché ha cognizione del funzionamento dello Stato, finisce con l’avere un pensiero più concreto, senza eccessivi teoretismi. Qualche volta i filosofi peccano di astrattezza. Il laureato in giurisprudenza, rispetto al puro filosofo, ha in testa la polis, il senso dell’organizzazione della vita umana, e tende ad avere un pensiero più dentro le cose».

De Giovanni non sta parlando solo dei suoi primi interessi, di quel piccolo classico che è diventato ormai il suo primissimo libro, «La nullità nella logica del diritto», ripubblicato di recente. Sta parlando del rapporto fra filosofi e giuristi, della sottovalutazione del momento giuridico in tanta parte del pensiero novecentesco:

«Più che sottovalutazione, direi un enorme isolamento del diritto nella mera dimensione della coercizione, della violenza. C’è tutta una tradizione di pensiero che ha ridotto la giuridicità a questo. Il testo di Walter Benjamin su diritto e violenza è un riferimento centrale. Ma questo riduzionismo comincia prima, c’è già in Marx, e prosegue dopo, per esempio in Foucault. C’è qui tutto il dramma del Novecento, ci sono Kelsen e Schmmitt, i grandi apici del pensiero novecentesco, due visioni del mondo alternative e connesse.

«Io provo invece a inserire il diritto nel processo di civilizzazione della forza. E in questa idea del diritto non come violenza ma come grande ordinamento della vita io ho avuto in Giuseppe Capograssi un costante punto di riferimento. Personale all’origine e vivissimo ancora oggi».

Gli chiedo allora cosa pensi della costruzione biopolitica contemporanea, che di nuovo sembra tenersi assai lontana, nel pensare il mondo odierno, dall’impiego di una concettualità di tipo giuridico:

«Quello che mi lascia attonito sono le modalità attraverso le quali questa interpretazione in chiave biopolitica si fa distruttiva di tutta la storia della filosofia politica, di tutte le categorie fondative con le quali la filosofia politica moderna ha funzionato. È un vero strappo concettuale. Quando fai questa operazione, in una fase nella quale le discontinuità sono vive nella vita degli uomini e delle società, è vero: cogli qualcosa dello spirito del tempo; ma il moderno come io lo penso è un’altra cosa. La modernità resta un libro chiuso, o del tutto travisato, se lo pensi senza il suo momento giuridico. La dialettica tra politica e diritto, non intese come discipline ma come mondi vitali, è il nucleo essenziale dell’Occidente. È la vitaIità del mondo che nasce in questo nesso contrastato, oppositivo e aspro fra ordinamento giuridico e autonomia della decisione politica».

La filosofia del diritto, dunque, e il ricordo del primo maestro, il gentiliano Angelo Cammarata, che insegnò a Napoli nel dopoguerra per circa un decennio, e che con ironia tutta siciliana soleva dire a De Giovanni: «come sarebbe bella l’università senza gli studenti!». È così che dall’attualità delle dispute intellettuali di oggi cerco di precipitare di nuovo indietro nel tempo. Da Napoli a Bari: gli anni dell’insegnamento universitario, la scuola barese che si raccolse tra l’università, il partito comunista e la casa editrice De Donato, il ruolo di Gramsci nella cultura italiana:

«Bari per me è stato un incontro fortunatissimo. Il mio primo incarico risale al 1959: avevo 28 anni. Ero incaricato di storia delle dottrine politiche. La filosofia del diritto non si poteva toccare: era riservata ad Aldo Moro, che pur essendo penalista scriveva di teoria dello Stato e teneva i corsi di filosofia del diritto per non lasciarli a quel “branco di comunisti” che veniva da Napoli o da altre facoltà.

«Sono poi passato a insegnare filosofia morale, ma quegli anni sono stati una svolta, nella mia vita. A Bari ho conosciuto la politica. Ero un timido, un introverso, con molte paure di parlare in pubblico. Un po’ le vicende del ’68, un po’ l’incontro con Beppe Vacca, di cui seguii la tesi, mi cambiarono. Arcangelo De Castris, Franco De Felice, Beppe Vacca, gli incontri alla De Donato: si creò un’atmosfera che mi trascinò letteralmente a vivere la riflessione e lo studio a tavolino in una prospettiva diversa. E nel ’69 – dopo la scelta del PCI sulla Cecoslovacchia, quando mi sembrò, forse un po’ ingenuamente, che si stava allentando il rapporto con l’Unione Sovietica – entrai nel partito comunista. In seguito, ho dovuto considerare la mancata chiamata a Napoli, nel ’67, la mia più grande fortuna. Se fossi andato a Napoli, non avrei fatto un’esperienza di vita e di pensiero che, forse, non avrei potuto conquistare in altro modo. E a quella stagione appartiene anche il mio libro su Hegel, “Hegel e il tempo storico della società borghese” che fu per me uno spartiacque».

Dopo il libro su Hegel, del 1970, il libro su Marx, del ’76, sull’analisi delle classi ne Il Capitale: un libro assai meno fortunato:

«Ignorato da tutti! È che la congiuntura stava cambiando. Uscì “Krisis” di Massimo Cacciari, che cambiò profondamente lo scenario culturale italiano. Fu un contributo dirompente, quello di Cacciari: critica del marxismo, pensiero negativo, Nietzsche e Wittgenstein, un insieme di riferimenti che metteva in crisi anche lo sforzo del gruppo di gramsciani baresi dei quali io facevo parte, sia pure in dialettica con certe letture che giudicavo troppo chiuse».

Sulla questione Gramsci chiedo a De Giovanni di soffermarsi. Perché quando negli anni Settanta lascia Bari per Salerno e poi per Napoli, si allontana anche da quella fucina di riflessioni sul pensiero gramsciano:

«I miei ripensamenti sono stati abbastanza radicali. Nella mia vita ho avuto più discontinuità che continuità. Scarti a volte più umorali, a volte più riflessivi. Me lo ascrivo a merito, ma anche a demerito. Il gruppo barese, formato ancora oggi da miei carissimi amici, ha però trasformato nel tempo la riflessione su Gramsci in una forma per me troppo rigida. Io mi sono sentito sempre più lontano dalla cristallizzazione del gramscismo, dall’idea che il gramscismo potesse essere la chiave che apre tutte le porte. A partire dagli anni Ottanta, avvertivo l’esigenza di una via d’uscita».

Nasce così l’idea de “il Centauro”, la rivista diretta da De Giovanni dal 1981 al 1986. Solo sei anni, ma intensissimi («ma puoi fare con Cacciari una cosa che duri più di sei anni?», mi chiede scherzoso De Giovanni), aperti da un editoriale in cui il Direttore manifestava l’esigenza di “accogliere qualcosa che ponga in discussione i vincoli di tradizioni che si considerano già interamente pensate”. Non a caso in quella rivista scrissero tutti, meno gli amici gramsciani di Bari.

«Furono loro scettici nei confronti della mia scelta. Ma intanto veniva fuori un’altra generazione di pensieri, non solo di persone ed età. “il centauro nacque anche contro la volontà dei maggiorenti del partito. Accettarono la cosa solo quando di riviste ne vennero fuori due: da una parte “Laboratorio politico” di Mario Tronti, con dentro l’operaismo italiano; dall’altra “il Centauro”, che dirigevo io, che almeno avevo il merito di non avere niente in comune con l’operaismo. Fu comunque un’operazione molto aperta, antidogmatica, in cui Gramsci finì con con il perdere la centralità avuta negli anni precedenti».

E come finì, quella esperienza?

«Cacciari se la prese perché secondo lui in un mio scritto lo avevo confuso con il pensiero debole. In realtà, la nostra diversità aveva funzionato per qualche anno come collante, ma a un certo punto ci rendemmo conto che prolungare la cosa non aveva senso. Ricordo la riunione in casa di Giacomo Marramao, a Napoli. Io parlai della “linea della rivista”. Dal fondo si sentì una voce dire in veneziano: “se entra la linea esco io”. Era Cacciari. Aveva ragione. Avevamo contribuito a mostrare consapevolezza di una discontinuità e di una crisi. L’effetto c’era stato, almeno in certi ambienti culturali, e ci bastò quello».

Finisce “il Centauro”, nel 1986. Ma è ormai prossimo alla fine tutto un insieme di rapporti intensissimi fra vita intellettuale e vita politica, che avevano segnato l’esperienza italiana.

«In Italia c’era stata un fatto particolarissimo: un partito comunista senza paragoni nel resto d’Europa. Ricordo i comitati scientifici dell’Istituto Gramsci: Luporini, Badaloni, Franco Ferri… Discussioni sui destini del mondo, seminari politico-filosofici che rifluivano poi nel Comitato Centrale del partito. Avevi la sensazione – in parte vera, in parte no – di un’effettiva dialettica, retto da una struttura della storia che ormai non c’è più. La dirigenza del PCI poteva anche chiudersi, ma era colta, in grado di dialogare con il mondo della cultura. Palmiro Togliatti era uno che all’uscita del rapporto sui crimini di Stalin rispose su “Rinascita” con una sua traduzione dal tedesco di un frammento di Hegel ignoto ai più. Hegel diceva: anche il volto di un assassino è illuminato da un punto di luce. Cioè: la personalità umana non ha un solo lato, è sempre molto complicata. Tu capisci? Di Maio non conosce i congiuntivi, Togliatti traduceva Hegel dal tedesco. Sbagliando, facendo errori ciclopici: però era Togliatti».

A proposito di Togliatti, che dire dell’articolo in prima pagina sull’Unità, a venticinque anni dalla morte? Siamo nell’agosto dell’89. De Giovanni siede nella direzione nazionale del partito, fresco di elezione al Parlamento europeo. Ha pubblicato a inizio d’anno un libro, “La nottola di Minerva” che contiene già l’ambizione di una rottura con la tradizione continuista del PCI.

«Ma dei libri non si accorge nessuno. Quando mi chiamo il vicedirettore dell’Unità, Giancarlo Bosetti, io gli chiesi se avesse letto il libro. In verità mi disse di sì, che proprio per questo avevano pensato a me. Mi sentii più tranquillo e scrissi. L’articolo uscì in prima pagina, col titolo: «C’era una volta Togliatti e il comunismo reale». In quell’articolo dicevo che un mondo era finito. Successe l’ira di Dio. Mi ritrovai il pezzo in televisione. Duecento e più articoli. Fu ripreso persino dal Washington Post.

«A settembre, alla prima riunione della direzione nazionale, avvertii il gelo intorno a me. Giancarlo Pajetta, di solito scherzoso, a stento mi salutò. Mi misi sul fondo. Natta introdusse il discorso dicendo: “D’estate i compagni devono stare molto attenti a quel che dicono, perché possono avere dei colpi di sole”. Tempo sei mesi e fui fatto fuori dalla Direzione».

Era comunque cominciata la stagione dell’impegno europeo. Il Pci aveva abbandonato nel corso degli anni Ottanta le posizioni antieuropeiste. E nel decennio successivo appoggiò convintamente la scelta di Maastricht. De Giovanni trascorse dieci anni a Strasburgo. Non posso non chiedergli che cosa è successo all’Europa, da allora.

«È stato il momento più bello e illusorio: l’unificazione tedesca, l’allargamento a est, l’unione monetaria, la codecisione del Parlamento europeo, lo spazio Schengen. Tutto sembrava possibile. Io ebbi una grande esperienza come presidente della commissione istituzionale negli ultimi due anni e mezzo del mio secondo mandato, quando approvammo il Trattato di Amsterdam».

Perché però quel percorso si è arrestato? Perché alla Costituzione europea non si è mai arrivati?

«Perché la Germania si è unificata. Ma non sto dando una risposta antitedesca. È che l’unificazione della Germania ha scosso tutti gli equilibri. La Germania non si è chiamata fuori, non ha scelto il “Sonderweg”, ma non è riuscita ad assumere il ruolo di grande nazione europea. Questo elemento ha compromesso il vecchio equilibrio franco-tedesco e bloccato la possibilità di progredire. L’altro elemento che ha pesato è l’interpretazione della globalizzazione come un processo soft, come l’avvio del grande cosmopolitismo. Ne veniva la convinzione che non vi fosse più bisogno di politica. Quando poi ci si è scontrati con la durezza della globalizzazione, l’Europa non ha saputo dare risposte perché non aveva più dentro di sé la dimensione del conflitto politico».

Il pensiero di De Giovanni su questi temi è consegnato in particolare a due libri, “L’ambigua potenza dell’Europa” e “La filosofia e l’Europa moderna”, usciti alla fine di quella stagione, nei primi anni Duemila. Nel primo, in particolare, De Giovanni sosteneva che la sovranità statuale dovesse rimanere il perno della costruzione europea:

«Ne “L’ambigua potenza” davo ancora un’interpretazione ottimistica di questo processo. L’ineliminabilità della statualità, l’insufficienza del puro patriottismo della Costituzione di hambermasiana memoria: tutto questo è entrato in crisi. Da un lato rimane necessario, dall’altro è difficile se non impossibile. Nessuno mi farà pensare che la Commissione possa diventare all’improvviso il governo dell’Europa. Nessuno però mi riesce più a far capire come questa necessaria relazione fra gli Stati riesca ad essere creativa di spazi politici comuni. Chissà se dopo questa crisi drammatica l’Europa non sia costretta a rimettersi a pensare, a cercare un terreno meno friabile di costruzione dell’Unione».

L’esperienza nelle istituzioni comunitarie finisce nel ’99, quando, nonostante l’indicazione dell’allora segretario Veltroni, De Giovanni non viene rieletto. Le ragioni della mancata rielezione rimangono, per carità di patria, fuori dal taccuino. Il filosofo in lui rinato allo studio e alla ricerca preferisce cavarsela con una battura: «Ringrazio il Padreterno per non essere stato eletto, perché dopo quei dieci anni al Parlamento sono tornato a tempo pieno sui libri». Prima però di chiudere con il bisogno di filosofia che gli riempie le giornate, gli chiedo qualcosa sulla politica nazionale. Gli chiedo della questione meridionale. De Giovanni è tranchant:

«La questione meridionale è completamente fuori dalla cultura politica contemporanea. Il dualismo nasce rigorosamente all’interno di una nazione. Quando l’unità nazionale si incrina, e non ci sono più risorse per politiche distributive, finisce anche la questione meridionale. Vedi del resto la Catalogna: ormai le regioni ricche non guardano più le regioni povere».

E il Pd? De Giovanni ha ripreso la tessera, in controtendenza rispetto all’emorragia che il Pd ha subito negli ultimi tempi. Non è del resto la prima volta che De Giovanni va controcorrente. Si è iscritto al partito democratico per sostenere Renzi nelle primarie di quest’anno.

«Il rischio populistico è fortissimo. Sarà sbagliato, settario, ma io considero i Cinquestele una patologia della democrazia. E quindi il ruolo del partito democratico (sarà di destra, di sinistra: lasciamo perdere) non può che essere quello di punto di equilibrio per la difesa e lo sviluppo della democrazia rappresentativa e per un rapporto critico ma forte con l’Europa. È l’unico partito che può farlo. La centralità del Pd non deriva da astrazioni categoriali ma da compiti politici concreti, dalla necessità di deve combattere l’estremismo salviniano e la patologia populista. Che c’è a destra come a sinistra».

Sono trascorse più di due ore. Ho lasciato fuori da questo insufficiente resoconto gli anni salernitani, il velo di commozione con cui De Giovanni ricorda i libri splendidi di Roberto Racinaro, rettore a Salerno negli anni di Tangentopoli, finito in carcere e poi completamente assolto da ogni vicenda, ma distrutto moralmente e fisicamente. Ho lasciato fuori i rapporti con Napolitano, l’esperienza come Rettore all’Orientale di Napoli, l’incredibile storia del quadro di Caravaggio posseduto per un giorno soltanto, le pagine di Musil sull’Europa e sulla guerra – l’uomo che “straccia la sua esistenza al vento” – e infine i recenti, importanti discorsi di Macron. De Giovanni mi chiede di alzarmi. Apre una porta, mi mostra il suo ultimo quadro, da gran collezionista qual è: «Questo è un Giovanni Lanfranco», mi dice, e mi lascia di stucco. Le chiese di Napoli, pietre e luce, Caravaggio e Vico: tutto cammina ora con i suoi passi e nella sua voce.

«Noi siamo sempre figli degeneri di Hegel. Questo è tempo di scissioni. Quindi la filosofia è necessaria. Non c’è epoca più filosofica di questa. Essendo radicale la scissione, nel suo senso più lato, la filosofia – questa malattia del pensiero, come la definiva Croce –irrompe perché non basta più la storiografia, non basta più la storia degli storici. Diviene necessaria, perché necessaria diviene una rifondazione delle cose. Lasciami dire però – poiché non ne abbiamo parlato fin qui – che per me non è senza Croce, ma senza Gentile che non esiste la filosofia italiana. Non esisterebbe Gramsci come non esisterebbe Severino. L’attualismo è stata la vera filosofia italiana del Novecento. E Gentile è stato una delle chiavi della mia vita filosofica».

“Io che origlio alle porte dei filosofi”: così ha detto una volta De Giovanni di sé, con una modestia che i suoi ultimi libri non giustificano. È per via degli eccessi di teoria che sente come estranei, ma non certo perché non sappia leggere e interpretare il bisogno di filosofia del nostro tempo.

«Per me la filosofia è tornata così. Qui stanno i miei ultimi libri. Siamo tornati ai grandi momenti di crisi in cui il rapporto fra vita e forme si interrompe e la crisi diventa generale. Le forme consolidate – la famiglia, la società, il partito, lo stato – si vanno dissolvendo. Come riorganizzi allora la vita comune dell’umanità? Rottura di confini o ritorno delle identità? E che significa ritorno delle identità? O al contrario: il mondo sopporta la distruzione dei confini?».

Domande, pensieri che non si arrestano, questioni che rimangono aperte. Fuori è ormai sera, Napoli lungo il mare è bella come non mai.

(Il Mattino, 10 novembre 2017)

A Matteo critiche vecchie. Alleanze inutili col proporzionale

PRESENTAZIONE DEL LIBRO QUEL CHE RESTA DI MARX

Cosa significhi reinventare un «partito popolare e nazionale, un partito della nazione», dentro un nuovo sistema proporzionale, dopo venticinque anni di seconda Repubblica? «È tutto da vedere», mi risponde Giuseppe Vacca, storico presidente della Fondazione Gramsci, ma di certo non è cosa che si vedesse dai commenti seguiti al voto amministrativo di domenica.

«Secondo me i commenti risentono ancora di un clima e di uno stile formatosi durante gli anni della seconda Repubblica. Non ci si rende conto che il maggioritario è finito. Un ciclo politico è compiuto. Qualunque proiezione sul futuro di dati che provengono da elezioni amministrative è perciò da prendere con le pinze. Tanto più che, in generale, è difficile comparare e proiettare il voto delle elezioni amministrative sul piano politico nazionale».

Eppure son tutti lì a ragionare di coalizioni e schieramenti, anche solo per mettere in difficoltà Renzi. Prodi prova a incollare i pezzi del centrosinistra. Orlando chiede primarie di coalizione. Veltroni dice no all’autosufficienza.

Però Il modo in cui si forma l’orientamento dei cittadini verso (o contro) la politica prescinde largamente da questa discussione. Le prossime elezioni si faranno con una legge proporzionale. Con il proporzionale i governi si formano in Parlamento, molto più che col maggioritario. Gli elettori votano per il partito preferito da ciascuno. Quello che poi determina gli equilibri di governo è la qualità, l’efficacia dell’offerta politica.

D’Alimonte su «Il Sole 24 Ore» scrive che il voto di Genova, di Sesto San Giovanni, di Pistoia (ma anche di Padova, che è andata al Pd) dimostra che ormai tutto è contendibile.

L’unico dato generale e generalizzabile è che hanno perso tutti. È un ulteriore segnale di sgretolamento, di frana: non dico nemmeno di un sistema di partiti, ma di un paesaggio politico. Soprattutto nelle elezioni locali, è ancora più difficile parlare di partiti, che non svolgono più alcuna vera funzione rappresentativa. Dire allora che il centrodestra quando è unito vince, può vincere, è persino ovvio, prevedibile e in verità anche previsto, in situazioni come quelle liguri, di Genova o Spezia, che conosco da vicino. Ma questo cosa ha a che fare col tema di come prepararsi alle elezioni politiche?

Cosa allora vi ha a che fare? Nell’editoriale che ho scritto ieri, ho provato anch’io a mettere da parte le mere sommatorie elettorali e a indicare nelle questioni europee il terreno decisivo della sfida.

Innanzitutto la parte maggioritaria dell’elettorato deciderà in base al bilancio su cinque anni di governo Renzi-Gentiloni: come si fa a ignorarlo? E l’intera legislatura è stata incentrata sul nesso fra Italia ed Europa. Ebbene, è da vedere come si costruirà l’agenda europea dopo le elezioni tedesche e soprattutto chi darà le carte. Da noi conterà la capacità di dire veridicamente ai cittadini, senza imbrogliare, come e perché determinati problemi sono problemi europei.

Ma se è il rapporto con l’Europa a determinare l’agenda, non è complicato per i democratici immaginare dimettere insieme una coalizione di centrosinistra, in vista di una futura alleanza di governo? Dove sono i «buoni europei», a sinistra del Pd?

Ma non è questione di sinistra o destra. I cittadini votano in base ai problemi i più diversi, alle esasperazioni più diffuse, a insoddisfazioni, interessi corporativi, o anche a grandi visioni e grandi narrazioni. Non credo che i cittadini siano molto appassionati di queste categorie di destra/sinistra. Certo c’è una storia, una sedimentazione di valori, ceti politici diversi, culture diverse, che si dicono di destra o di sinistra. Ma non se ne può parlare in base a semplici etichette. È evidente che c’è una certa continuità in un arco di forze che va dai moderati di centro fino a Pisapia: ma a che serve cominciare dalle etichette? È questo il problema che definisce l’agenda politica con cui si deve misurare una leadership?

Provo allora a fare l’avvocato del diavolo e ti chiedo: ma quelli che invece dicono che una forza di sinistra non può condividere strutturalmente l’impianto politico e istituzionale di questa Unione europea, che in essa istanze di sinistra non possono trovare spazio, che l’euro è l’equivalente di quello che sono stati Reagan e Thatcher negli anni Ottanta?

Se, per essere di sinistra, invece che di far pesare le questioni nazionali sul modo in cui si compone l’agenda europea, si tratta di dire: “questa Europa è fallita”, non condivido ma capisco: è legittimo. Ma poi chi dice così non si può mettere insieme con chi pensa: “ma come è fallita? Vediamo invece cosa realisticamente è successo, in base a una cartografia sobria, realistica, del mondo”. Come si fa a dire ad esempio, come fa Veltroni, che per essere di sinistra bisogna fare la lotta alla precarizzazione? La precarizzazione è il modo in cui si riflette sui governi e le nazioni di tutto il mondo questo tipo di globalizzazione. Ed è quanto meno un problema di dimensioni europee. Non possiamo parlare delle cose italiane a prescindere dal contesto. E il nostro contesto storico, economico, la parte che ci spetta in un concerto plurinazionale si decide in Europa. Quello diventa un grande discrimine. Aggiungo: chi ha cambiato il paradigma del rapporto con l’Europa, anche rispetto al centrosinistra degli anni passati, si chiama Matteo Renzi. Sembra poco ma non lo è. Prima si trattava sott’acqua: l’Europa era sentita come vincolo, invece che come responsabilità condivisa. Renzi ha invertito la tendenza. È ancora difficile e non è diventato ancora oggetto di un diverso racconto del Paese, ma questo è il tema.

Nel Novecento, l’essere di sinistra si definiva in base al contesto internazionale, e in base ai mondi sociali di riferimento: l’una e l’altra cosa. La mia impressione è che dopo l’89, essendo mutato il quadro internazionale, la sinistra ha sentito sempre meno la necessità di collocare istanze e rivendicazioni dentro un contesto più ampio di quello nazionale. Non ce la fa più. Prima, quando c’erano i paesi del socialismo reale, viveva quel rapporto come un motivo identitario, oggi lo subisce soltanto.

Diciamo però che quello che è stato importante nel comunismo italiano è il modo in cui ha cercato di interpretare l’interesse della nazione italiana. Per il resto, a parte il PCI, non c’è alcuna grande e gloriosa storia del comunismo in Europa. Però certo: oggi la declinazione dell’interesse nazionale è insieme la declinazione dell’interesse europeo.

Un’ultima cosa voglio chiedertela sul partito. A che punto è il “partito pensante” annunciato da Renzi durante il congresso?

Se devo trovare una connessione fra la leadership di Renzi è un universo identitario dico altro, dico il governo di questi cinque anni. Tutto il resto è da rifare. Ma il problema non è Renzi e nemmeno i suoi difetti. S’è fatto un Congresso due mesi fa: se ci fosse un’alternativa a Renzi sarebbe già emersa. Il Pd rimane però la forza centrale per come ha incorporato il nesso Italia-Europa. Non basta, ma è il punto al quale siamo.

Quel punto è parecchio condizionato dall’esito del referendum costituzionale.

Il referendum è stato uno spartiacque drammatico. Ma chi lo ha perso è il Paese. Si può discutere di come è stata condotta la campagna referendaria (male, almeno al 70%). Ma il referendum non era sul governo; era sull’ossatura politico-istituzionale di questo Paese, in pezzi da vent’anni. Ma dove sono le forze che provano a spiegare che il deficit di competitività di cui soffre l’Italia almeno dal 2001 è una conseguenza dell’impalcatura politico-istituzionale, e che il referendum serviva per spezzare la rete di interessi corporativi e diffusi che rendono molto difficile fare dell’Italia un Paese come la Francia o la Germania?

Già, dove sono queste forze? Saluto Beppe Vacca e noto che mantiene nella voce l’equilibrio fra l’analisi senza indulgenze dello stato del sistema politico e una certa serenità e fiducia nel prossimo futuro. Davvero il miglior commento delle sue parole è in quelle di Gramsci: «Ogni collasso porta con sé disordine intellettuale e morale. Pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà».

(Il Mattino, 28 giugno 2017)

E’ morto Alfredo Reichlin, partigiano dal Pci al Pd

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Ha avuto una vita lunga, Alfredo Reichlin: dall’esperienza partigiana alla Repubblica; dalla direzione dell’Unità alle numerose legislature in Parlamento; da Togliatti a Ingrao, che fu la figura più influente sulla sua prima formazione; da Berlinguer fino a D’Alema, di cui condivise le scelte fondamentali, fino, da ultimo, alla presidenza della commissione che avrebbe scritto la Carta dei valori del nuovo partito democratico.

L’ha raccontata lui stesso, questa vita lunga e appassionata, attraversata con un tratto di eleganza e di pensosità a cui non rinunciò mai, in un libro di qualche anno fa che Laterza ha dato alle stampe con il titolo: «Il midollo del leone». Nelle ultime pagine del libro, Reichlin spiegava il titolo prescelto. È un’espressione che si trova in un pensiero di Italo Calvino dedicato a Giaime Pintor, morto nel ’43 per l’esplosione di una mina: «l’avara presenza del bello e del bene, questo è il midollo del leone che Pintor, traduttore di Rilke, lettore di Montale, morse dalla civiltà letteraria che l’aveva preceduto». Da ragazzo, Reichlin assaggiò avidamente quel morso: «nutrimento per una morale rigorosa, per una padronanza della storia». Era stato infatti compagno di banco del fratello di Giaime, Luigi, nel Regio Liceo Tasso di Roma. Giaime, più grande di qualche anno, fu tra quelli che aprirono gli orizzonti culturali del giovane Pietro: gli diede in lettura le poesie di Eluard e gli opuscoli di Lenin, i libri di Vittorini e i racconti di Hemingway. Passò infine dai Pintor la strada che portò Reichlin ad iscriversi al partito comunista.

Dopo l’esperienza gappista durante la Resistenza, Reichlin aveva infatti aderito al partito e fin dagli anni Cinquanta ne divenne uno dei più autorevoli dirigenti. Appena trentenne, nel 1957, Reichlin fu infatti chiamato a dirigere «L’unità», che non era allora, sul finire degli anni Cinquanta, solo il giornale del partito, ma era anche il «Corriere della Sera del proletariato», e l’unico quotidiano diffuso uniformemente su tutto il territorio nazionale.

L’esperienza, tuttavia, non durerà molto. Reichlin è in quegli anni vicino a Pietro Ingrao, il capo della sinistra del PCI. I dissensi politici con Togliatti – sull’atteggiamento da tenere nei confronti del primo centrosinistra, che gli ingraiani osteggiano frontalmente, considerandolo solo un aspetto della ristrutturazione del capitalismo – determinano l’allontanamento dalla direzione del giornale. Reichlin finisce in Puglia, dove guida la federazione regionale e contribuisce a tirar su un gruppo di giovani intellettuali – Biagio De Giovanni, Giuseppe Vacca, Franco Cassano, Franco De Felice – raccolti intorno all’Università, alla casa editrice Laterza e all’altro editore di Bari, De Donato. Lucio Colletti appiccicherà a questo gruppo di studiosi l’epiteto un po’ beffardo di «école barisienne», ma, come spesso accade, il nome perderà in seguito il suo significato ironico, per indicare uno delle fucine culturali più vivaci del marxismo italiano degli anni Sessanta-Settanta, insieme all’operaismo.

Si discute, non senza qualche allarme nel partito, di nuova egemonia, di rinnovamento dei quadri dirigenti, di metodo storico, ma anche dei rapporti col movimento studentesco e di sviluppo del Mezzogiorno.

Si apre la stagione del ’68, che in Italia dura un decennio e che, nonostante i successi elettorali del partito comunista, restringe progressivamente i margini culturali e ideologici a disposizione del Pci. «Venivamo – ha scritto Reichlin, che siede in quegli anni nella Direzione del partito – da un marxismo letto come storicismo assoluto. Il nostro referente non era il vecchio scientismo socialista, ma Gramsci e la sua polemica con il positivismo»: questo peraltro era il terreno di incontro con le grandi masse cattoliche, rappresentate in quegli anni dalla complessa e tormentata figura di Aldo Moro. «Il nostro pensiero – aggiunge Reichlin nella sua autobiografia – era certamente classista, ma anche dominato dall’assillo di promuovere quella rivoluzione intellettuale e morale che l’Italia moderna non aveva conosciuto mai», e in queste parole si può forse riconoscere il travaso di temi gramsciani che giunge sino alla segreteria Berlinguer, e all’incipiente questione morale che scaverà un solco, a sinistra, fra il partito comunista e il partito socialista di Bettino Craxi. Reichlin è in quegli anni al fianco del segretario del PCI, in posizioni di responsabilità, e ne condivide tutte le scelte, di cui a distanza ha riconosciuto la complessità e, insieme, i limiti.

Anche negli ultimi tempi, in posizione più defilata, Reichlin non ha mai rinunciato ad affilare le armi della critica in relazione ai compiti storici che vedeva drammaticamente aperti dinanzi all’Italia e all’Europa.  La sua valutazione delle vicende storiche degli ultimi trent’anni non era affatto indulgente: rivoluzione conservatrice, subalternità al liberismo, subalternità rispetto alla finanziarizzazione dell’economia che ha segnato i processi di globalizzazione, restringimento degli spazi di democrazia. È un giudizio che coinvolge tutta la parabola della sinistra, non solo italiana ma europea.

Dopo il voto del 2013, aveva lui tirato fuori l’idea del partito della nazione, che era stato però largamente fraintesa. Reichlin non pensava a una formazione neocentrista, ma al contrario alla funzione nazionale di un partito di massa. In un certo senso, fedele alla tradizione comunista, non riconosceva altra funzione ad un partito degno di questo nome: «Bisogna ridare un’anima all’Italia, insediarsi   nella   storia   del   paese,   non   cancellare   il   passato. Bisogna fare della sinistra il nuovo “partito nazionale”».

Erano parole che rivolgeva ai dirigenti del PD, con una preoccupazione che ne ha segnato l’ultima, amara riflessione: «La sinistra rischia di restare sotto le macerie». Ma vale forse per il Pd quello che Reichlin ha pensato del partito comunista: non è il Pd che spiega la storia d’Italia, ma questa, se mai, che spiega quella.

(Il Mattino, 22 marzo 2017; liev. mod.)

Europa, la svolta. La storia si rimise in cammino

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«Mister Gorbaciov, apra questa porta! Mister Gorbaciov, tear down this wall! Abbatta questo muro!»: la porta non si aprì – non era quello l’«apriti sesamo!» che  doveva cambiare il mondo – né crollarono i tre metri e mezzo di cemento grigio e filo spinato che attraversavano tutta Berlino, lungo la frontiera che dal 1961 separava la Germania dell’Ovest dalla Germania dell’Est, le democrazie capitalistiche dell’Occidente dal socialismo reale dei paesi d’oltrecortina, l’Alleanza atlantica dal Patto di Varsavia. Però la frase pronunciata dal presidente americano Ronald Reagan dinanzi alla porta di Brandeburgo è rimasta, giustamente, nella storia. Era il 12 giugno 1987 e di lì a poco il Muro sarebbe caduto veramente. Ma erano davvero in pochi a pensarlo, allora. O almeno: pochi potevano immaginare il modo in cui un intero ordine politico si sarebbe sbriciolato quasi per caso in una notte sola: alle ore 23.17 del 9 novembre 1989, quando il comandate delle guardie di frontiera della Germania dell’Est diede l’ordine di aprire Checkpoint Charlie, il luogo di confine delle due Germanie nel cuore della Berlino spezzato dalla Guerra Fredda.

Poche ore prima si era seduto dinanzi alla stampa il compassato portavoce del Politburo, Günther Schabowski, ed aveva annunziato la decisione del Comitato Centrale di eliminare le restrizioni sul rilascio dei passaporti. Per la prima volta, ogni cittadino della Germania dell’Est poteva averne uno. Il tono dell’annuncio era, al solito, quasi anodino, ma si trattava di una bomba. Era quello l’«apriti sesamo», anche se il ligio portavoce non lo sapeva. Quando infatti sarebbe entrato in vigore il nuovo regolamento? Il povero Schabowski non ne aveva la più pallida idea. Guardò le carte, mise e tolse gli occhiali perplesso, poi fece di testa sua e bofonchiò: «In base alle mie informazioni, immediatamente». Ab sofort: da subito. La bomba era esplosa.

I tedeschi dell’Est, che nei giorni precedenti erano già scesi in piazza, a milioni, per chiedere riforme democratiche e libertà di stampa, si precipitarono di nuovo per le strade: sempre più numerosi, sempre meno esitanti, sempre più sfrontati dinanzi alle guardie mute che presidiavano il confine. Alla successiva domanda – «che ne sarà del Muro di Berlino?» – Schabowski, nella conferenza stampa del pomeriggio, non aveva saputo rispondere; di fronte alle decine e decine di migliaia di berlinesi che si dirigevano a sera verso Checkpoint Charlie, ai riflettori delle tv occidentali che si accendevano dall’altra parte del Muro, ai tedeschi dell’Ovest che gridavano «Venite! Venite!», neanche il comandante delle guardie seppe bene cosa fare. Infine decise: fece alzare le sbarre. Il Muro non c’era più.

Quando però aveva davvero cominciato a vacillare? Forse con l’elezione di Mikhail Gorbaciov alla guida dell’URSS, nel 1985, e la sua destabilizzante «perestrojka», la politica di riforme che doveva trasformare radicalmente il sistema economico sovietico e introdurre maggiore trasparenza, «glasnost», nella vita pubblica di un Paese ormai sclerotizzato. O forse con il rilancio della corsa agli armamenti voluta dal 40° presidente degli Stati Uniti d’America, il californiano Ronald Reagan, determinato a vincere la Guerra Fredda e a sconfiggere definitivamente il comunismo. O magari con l’elezione al soglio pontificio di Karol Wojtyla, e l’appoggio dato dalla Chiesa polacca al sindacato clandestino Solidarnosc: la ribellione degli operai di Danzica, guidati da Lech Walesa, era stata schiacciata nel 1981 dal colpo di stato del generale Jaruzelski, ma aveva mostrato al mondo che i regimi socialisti erano ormai giganti dai piedi d’argilla, privi di qualunque credibilità e consenso presso la popolazione, tenuti in piedi solo dall’esercito e dai metodi polizieschi dei vari partiti comunisti al potere.

In realtà, se c’è un concetto che è difficile maneggiare, nel raccontare la storia, è quello di inizio. Le date servono a mettere un punto, ma i periodi storici non cominciano mai da lì. Non funziona come nei romanzi: non c’è un incipit. Ci sono invece molteplici processi: alcuni più veloci, altri più lenti; alcuni più incisivi, altri meno, così che la figura di un mondo nuovo, che a volte si disegna all’improvviso, come a Berlino la notte del 9 novembre, erompe a partire da un concorso di cause che è vano voler ridurre a una soltanto. Tutti ricordano quella formidabile notte: le persone che si arrampicano sul muro, quelli che ballano, quelli che con il martello provano a scalfire il mostro di cemento, e i tedeschi dell’Ovest che abbracciano quelli dell’Est, e fiumi di birra che scorrono. La potenza simbolica di quelle immagini, l’emozione che suscitarono fu enorme: finiva la Guerra Fredda, finiva il comunismo, finiva la divisione fra le due Germanie. Per qualcuno finiva addirittura la storia: Francis Fukuyama non avrebbe mai scritto, nel 1992, il suo discusso saggio sulla fine della storia, nel quale si celebrava la definitiva vittoria della democrazia come sistema politico e del capitalismo come sistema economico, se il Muro non fosse venuto giù, se quella vittoria non l’avesse vista celebrata sotto la porta di Brandeburgo; se il canuto Honecker, presidente della DDR, non fosse stato costretto a lasciare Berlino per fuggire a Mosca; se il dittatore romeno non fosse stato deposto, poi fucilato; se il Presidente Husák e il segretario Miloš Jakeš, in Cecoslovacchia, non fossero stati costretti dalla «rivoluzione di velluto» a lasciare il Paese; se insomma non fosse crollato l’ordine di Jalta, uscito dalla seconda guerra mondiale, e cambiata, insieme alla Germania riunificatasi nel giro di appena un anno, la geografia politica dell’Europa intera.

Se però vogliamo proprio trovare un inizio della fine allora bisogna dire: dicembre 1988, alle Nazioni Unite Gorbaciov annuncia il ritiro unilaterale di 250.000 uomini dall’Europa orientale. La superpotenza non ha più i soldi. Da quel momento, con la rinuncia alla dottrina interventista del PCUS – quella che aveva portato i carri armati russi a Budapest nel ’56, a Praga nel ’68 – prendono forza, in tutti i paesi del blocco sovietico, le spinte disgregatrici. Tutti ricordano il Muro, ma nel maggio dell’89 era stato il primo ministro ungherese, Miklós Nemeth, scontrandosi col partito, ad annunciare che non avrebbe più sostenuto le spese per mantenere in funzione la barriera elettrificata al confine con l’Austria. Il Muro c’era ancora, per Honecker sarebbe durato ancora cent’anni, ma passando per l’Ungheria diveniva già possibile raggiungere l’agognato Occidente.

I percorsi della storia sono strani. Come è difficile stabilire un inizio, così lo è anche capire come le cose andranno a finire. A fianco di Nemeth, a chiedere a gran voce di seppellire il comunismo, c’era Viktor Orbán: allora giovane leader democratico, paladino delle libertà civili, oggi padrone indiscusso del Paese, a cui ha impresso una forte torsione con serissime limitazioni dei diritti, che preoccupano l’Unione europea. Evidentemente, le vie per conquistare e mantenere la democrazia non sono sempre rettilinee, e certe soluzione autoritarie tornano volentieri ad affacciarsi.

E in Italia? La fine del socialismo reale non poteva non ripercuotersi sul nostro paese, imperniato su due grandi partiti, uno dei quali, il PCI, aveva sì reciso il cordone ombelicale con i comunismi dell’Est e sperimentato una via nazionale e democratica, ma rimaneva permeato di culture, simboli e modelli legati al blocco sovietico. Anche l’Italia franò. Ma il colpo di maglio dell’inchiesta milanese di «Mani pulite» è venuto dopo, nel ’92; le cause internazionali hanno preceduto quelle endogene; la perdita di funzione storica ha preceduto la débâcle morale. Non a caso, troncando un dibattito ormai avviato da mesi, solo tre giorni dopo la caduta del Muro, Achille Occhetto, da poco segretario del PCI, si dichiarò pronto a cambiare anche il nome del partito, cosa che accadrà, senza rinunce o abiure, due anni dopo. Da quel giorno, nomi e partiti in Italia non hanno mai smesso di cambiare, in una girandola ininterrotta, e il sistema politico italiano non ha più ritrovato un assetto stabile.

Ma questa, come si dice, è un’altra storia. La nostra.

(Il Mattino, 16 marzo 2017; numero celebrativo per i 125 anni del quotidiano)

 

 

Dal Pci al Pd, il partito divora i propri dirigenti

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Riavvolgiamo il film. Perché il partito democratico, con meno di dieci anni di vita, ha già una storia movimentata da raccontare. I segretari del Pd sono stati, finora, cinque: Walter Veltroni, Dario Franceschini, Pierluigi Bersani, Guglielmo Epifani e, da ultimo, Matteo Renzi. Mai si è trattato di una semplice successione: a un leader fortemente legittimato dal percorso congressuale ha sempre fatto seguito una figura di compromesso, chiamato a gestire le dolorose dimissioni del predecessore, successive a una disavventura elettorale. Così è stato nel passaggio dal Veltroni a Franceschini, così anche nel passaggio da Bersani a Epifani: così potrebbe andare oggi, se Matteo Renzi presentasse davvero, in Direzione, le dimissioni da segretario del partito, in vista dell’indizione di un nuovo congresso.

Ma anche se così non fosse, resta il fatto che nei partiti democratici la soluzione inventata per scongiurare dilanianti lotte di successione, cioè la monarchia ereditaria, non è praticabile.  Non ci sono figli primogeniti, e i figli che ci sono amano sempre meno i padri.

Veltroni è il primo, nel 2007. Il partito democratico è appena nato, e l’ex segretario dei DS vince le primarie con un consenso largo, superiore al 75%. Unici avversari di peso sono Enrico Letta (11%) e Rosi Bindi (12%), ma il grosso della Margherita e dei DS si schiera con Veltroni. Più per necessità che per convinzione. La sorte del governo Prodi, sostenuto da una coalizione debole, eterogenea e rissosa, è già segnata, e Veltroni appare a molti l’unico dotato di un carisma più ampio rispetto alla base elettorale di provenienza. Questo è sempre stato un cruccio dello schieramento progressista: scegliere uomini che guardino al di là del recinto storico della sinistra. Così è stato per Prodi e l’Ulivo, in uno schema che prevedeva ancora un accordo di coalizione, e così è con Veltroni, che ha l’aura del democratico senza aggettivi (cioè senza connotazioni marcate di sinistra) prima ancora che i democratici nascano. Lui intona il mantra della «vocazione maggioritaria» e butta giù Prodi perché convinto di poter vincere marcando la discontinuità con il passato.

Infatti perde. Finisce (in compagnia dell’Italia dei Valori), dietro di quasi dieci punti rispetto alla coalizione di centrodestra.

Alla guida del partito Veltroni resiste un altro annetto, sempre più logorato dagli avversari interni, primo fra tutti D’Alema, che non gli perdonano di avere accelerato la caduta di Prodi e la fine della legislatura. La sconfitta alle regionali in Sardegna, a inizio 2009, è il secondo colpo che lo manda al tappeto.

Segretario diviene Franceschini, fino ad allora vice di Veltroni. Ma ci sono le elezioni europee a giugno: un po’ per questo, un po’ per timore di lacerazioni interne, Franceschini viene eletto dall’Assemblea nazionale e le primarie rinviate in autunno.

Sarà sfida con Bersani (e Ignazio Marino candidato di complemento). Vince Bersani, cioè vince la ditta. Ma quattro anni dopo è già l’addio. Anche questa volta ci vogliono due scosse per buttar giù il segretario. La prima sono le elezioni, che Bersani riesce a non vincere (il Pd scende al 25%). La seconda il naufragio delle candidature al Quirinale prima di Franco Marini, poi di Romano Prodi. Viene rieletto Napolitano, ma per Bersani è troppo: «uno su quattro ha tradito», ripete come un povero Cristo nel Getsemani, e tra i sospettati ci finiscono i renziani, che ne vogliono minare la leadership, ma pure D’Alema, che il segretario non aveva voluto lanciare nella corsa al Colle.

Il Pd riparte daccapo. Renzi, che aveva perso un anno prima la sfida con Bersani, diviene la sola carta da giocare. Il mantra è la rottamazione, e funziona. Renzi prende il 67% (Cuperlo il 18%, Civati il 14%). Il vento in poppa lo sostiene fino allo scorso anno, quando pure lui subisce la legge dei due rovesci. Il primo sono le amministrative; il secondo, micidiale, il referendum del 4 dicembre.

Non sappiamo ancora se quest’oggi Renzi manterrà le redini del partito o si tufferà in una nuova battaglia congressuale: quel che sappiamo è che la vicenda del Pd è comunque attraversata da un grande scialo di personale politico, che si consuma più rapidamente di quanto non accadesse un tempo. Non ci sono più i segretari a vita di una volta, questo è chiaro. Ma colpisce pure la debolezza del collante. L’addio di Civati o di Fassina nella stagione renziana valgono quanto l’addio di Rutelli con l’avvento di Bersani. E la ventilata scissione di D’Alema – con la nascita di ConSenso dalle ceneri della battaglia referendaria – vale quanto il varo dell’associazione Red, sempre ad opera di D’Alema, durante la segreteria Veltroni. Di questi movimenti si possono dare due spiegazioni.  Si può pensare che sono inevitabili in un partito che non riesce ad essere un vero soggetto collettivo, ma solo una macchina per selezionare rappresentanti. Con la conseguenza che quelli che non ce la fanno non trovano altre ragioni per restare e se ne vanno (o, se restano, remano contro). Oppure si può pensare che la politica non è uno sport per signorine, e tradimenti e regolamenti di conti sono per questo all’ordine del giorno. Nel Pd ma non solo. Come andò infatti con Alessandro Natta, che perse la segreteria del partito comunista mentre era ancora in ospedale, ad opera dei rottamatori d’allora, Occhetto, D’Alema e gli altri quarantenni? E cosa capitò a Achille Occhetto? Lui che si era spinto oltre le colonne d’ercole del ‘900, imponendo il cambio del nome ai comunisti, fallì a sorpresa il quorum dell’elezione a segretario durante il congresso del 1991, grazie a un’accorta regia dei suoi secondi, Veltroni e D’Alema in testa? I quali poi lo lasciarono lì, mezzo morto alla guida del partito, salvo presentargli il conto dopo la sconfitta con Berlusconi, nel ’94.

Insomma: con questa lista di precedenti, c’è poco da star sereni. La minoranza lo sa e sposta ogni volta un centimetro più su l’asticella delle sue richieste. Forse però oggi sapremo se questo gioco continuerà ancora a lungo, o se Renzi ha infine deciso di saltare.

(Il Mattino, 13 febbraio 2013)

L’ultimo strappo con la cultura del berlusconismo

Mondazzoli

L’ultima è stata la nave di Teseo. L’ultimo vascello sul quale Umberto Eco sia salpato. Era il novembre dello scorso anno, e Umberto Eco, insieme a molte altre illustri firme della casa editrice Bompiani decide di seguire Elisabetta Sgarbi via dal nuovo gruppo Mondadori-Rizzoli, guidato da Marina Berlusconi, e di fondare una nuova casa editrice. Lui la racconta così, ai giornali: «Elisabetta Sgarbi e Marina Berlusconi si sono incontrate per non capirsi». Forse, la più plastica rappresentazione della distanza insieme intellettuale ed estetica che un uomo come Umberto Eco avvertiva nei confronti del berlusconismo.

Non era mica così ovvio, e forse un po’ c’entrava anche l’età. Tredici anni prima, nel 2002, al tempo di Nanni Moretti e dei girotondi, Eco aveva detto altro: che i girotondi, certo, servivano a «rianimare la sinistra», ma non sarebbero mai bastati a sconfiggere il Cavaliere. Si era spinto persino ad approvare, o almeno a non disdegnare,  il fatto che D’Alema – la bestia nera dei girotondini, per via dell’inciucio (mancato) con Berlusconi – avesse una barca e scrivesse per Mondadori. Non si trattava però di proporre nuove strategie ispirate a quel realismo politico che inorridiva la sinistra più movimentista (e più velleitaria), quanto piuttosto di prendere atto, quasi con rassegnazione, di ciò che il Paese, la metà del Paese era: la metà sbagliata. Sapete perché i girotondi non servono a nulla?, aggiungeva infatti: «perché metà degli italiani la pensa così: Berlusconi ha frodato il fisco? Beh, l’ho fatto anch’io».

La peculiarità del centrodestra italiano era dunque riconosciuta nel profilo di Berlusconi: imprenditore e tycoon televisivo, spettacolare concentrato di interessi privati del cui potenziale conflitto con l’interesse generale del Paese secondo Eco agli elettori non importava gran che (e probabilmente su ciò aveva ragione). Ma veniva in realtà ricondotta al fondo limaccioso del Paese: se non si poteva dire ad una differenza antropologica, per non abusare troppo della famosa diversità comunista, ci si poteva però rifare ai tratti peculiari del carattere nazionale: cialtronesco, privo di senso dello Stato e poco incline al rispetto delle leggi. Per molti intellettuali italiani Berlusconi è stato soprattutto la proiezione al governo del Paese di tutto questo, e così anche per Umberto Eco.

Non era mica così ovvio, dicevo, ma era sicuramente più facile che ripensare daccapo le ragioni (e i torti) del centrosinistra di allora. Eppure Eco aveva cominciato proprio così: portando scompiglio nelle fila dell’intellettualità di sinistra. Lo ha ricordato lui stesso, in un’intervista di cinque anni fa, quando ha raccontato a Valentino Parlato come si avvicinò al Manifesto, nel 1971: «noi della cosiddetta neoavanguardia del Gruppo 63, se eravamo certamente orientati a sinistra, stavamo per così dire sulle scatole alla cultura ufficiale del Pci […]. Una volta il buon Mario Spinella mi chiese di scrivere un lungo articolo su Rinascita per indicare quali erano i problemi che una cultura di sinistra doveva affrontare. Io scrissi di sociologia delle comunicazioni di massa e dello strutturalismo: fui coperto di feci dall’intellighentia del Pci». I problemi in realtà erano quelli, ed era il partito comunista ad essere in forte ritardo rispetto a tutto quello che accadeva nel campo delle scienze umane e sociali.

Ma dopo quella stagione, in cui Umberto Eco diede sicuramente il suo contributo teorico più avanzato, ne è venuta un’altra, in cui era più semplice stare sulle scatole sì, ma del centrodestra: prendersi gli scontati livori  del Secolo d’Italia, o di Libero, piuttosto che cercare daccapo di riorientare la cultura politica della sinistra. L’antiberlusconismo è stato insomma per molti, e in fondo anche per l’Umberto Eco degli ultimi anni, un ottimo surrogato.  Fino allo scivolone del paragone con Hitler, come il Cavaliere andato al potere tramite libere elezioni.

Questo non significa ovviamente che Eco abbia mai rinunciato a quel tratto illuministico di ironia, di intelligenza critica, ma anche di semplice acume che scintillava nelle sue bustine di Minerva – la rubrica fissa tenuta sul settimanale L’Espresso. A volte però anche l’intelligenza può peccare di autocompiacimento. È, anzi, il suo peccato più grande, ed è quello che più lo tiene lontano, nonostante ogni impegno civile, dall’intelligenza politica delle cose. Forse Eco se ne è a volte macchiato. Come quando suggerì di prepararsi serenamente a morire al modo seguente: convincendosi che il mondo non è fatto che di coglioni, e che quindi non vale davvero la pena restarci. Se così fosse, a dire il vero, non varrebbe nemmeno la pena di vivere in una democrazia. Ma soprattutto: chissà se davvero sia il modo migliore. In fondo, significa che si accetta di uscire di scena proprio sul più bello, quando ci si è finalmente persuasi di essere i migliori.

(Il Mattino 21.02.2016)

 

Il lungo tormento dei post-Pci e la fine del sogno democrat

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«Natura di cose altro non è che nascimento di esse in certi tempi, e con certe guise», così diceva Vico nella Scienza Nuova: se vuoi sapere qual è la natura di una cosa, guarda com’è nata. Ora, il partito democratico è stato fondato nell’ottobre del 2007, sotto il secondo e periclitante governo Prodi, di cui ha probabilmente accelerato la caduta. L’anno successivo, sotto la guida di Veltroni, si è presentato alle elezioni e le ha perse. Quest’anno si è invece presentato sotto la guida di Bersani, e le ha «non vinte». Tra l’uno e l’altro, è stato retto per meno di un anno anche da Dario Franceschini, nel 2009. È partito con il 33,1 di Veltroni, è arrivato con il 25,4 di Bersani. La sua storia è tutta qui, in queste poche righe. E non è detto che continuerà ancora.

Ma per descriverne la natura occorre guardare più indietro. È sempre Vico che insegna: «le origini delle cose tutte debbono per natura esser rozze», e voleva dire: spurie, apocrife e mescolate. Così è stato per il Pd. Dietro il partito democratico c’è stato infatti il tentativo di irrobustire la creatura politica che, negli anni Novanta, aveva consentito alla sinistra ex-comunista, già transitata attraverso il Pds e i Ds, di andare al governo: non da solo, ma insieme con la sinistra democristiana, che nel frattempo aveva dato vita prima al partito popolare, poi alla Margherita, con la confluenza di piccole componenti liberal-democratiche. Un «amalgama mal riuscito», disse una volta D’Alema, e alla luce di com’è andata, è difficile dargli torto.

È vero però che le culture politiche che avevano fatto la prima Repubblica dovevano comunque provare a rimescolarsi e innovarsi, dopo le tre profonde fratture che avevano terremotato il sistema politico italiano: la caduta del Muro, l’inchiesta Mani Pulite e l’uscita della lira dallo SME (è infatti dai tempi della rivoluzione francese che crisi finanziarie e crisi politiche vanno a braccetto). Il primo frutto del rimescolamento è stato l’Ulivo, nel ’96; il secondo, l’Unione, nel 2006; il terzo, il Pd. Il terzo doveva rappresentare il coronamento di un progetto politico lungo un decennio: rischia invece di esserne la fine. Perché non si sono mai veramente ricomposti due opposti progetti: quello di chi spingeva per accelerare la trasformazione delle culture politiche di origine, e quello di chi invece cercava di preservarne le caratteristiche distintive. Col Pd, ha prevalso il primo progetto, senza che però le tensioni fossero veramente risolte. La drammatica crisi di queste ore le ha di nuovo portate in superficie.

Se però si guarda dentro il fitto scambio di accuse, veleni e sospetti di queste ore, si trova qualcosa di più di un confronto tra ex-comunisti ed ex-democristiani. Si trovano due idee diverse di riforma della politica e della società. Il guaio è che anche queste faticano ad amalgamarsi. Una è nata negli anni Novanta, quando la sinistra europea cercava una «terza via» tra la socialdemocrazia del passato e la vulgata liberista del presente. Un libro di Anthony Giddens, consigliere di Tony Blair, dice forse più cose del suo stesso contenuto: «Oltre la destra e la sinistra». Il fatto è che, senza mai veramente imboccarla, il Pd ha cercato comunque di proseguire per questa via, anche quando nel resto d’Europa veniva abbandonata, o almeno fortemente riconsiderata. Non perché dovevano tornare con forza la nostalgia di una sinistra fortemente identitaria e refrattaria al cambiamento, ma perché nel fuoco della crisi le sue risposte sono apparse subalterne alla ricette monetariste su cui è stata costruita l’Europa dell’euro.

E siamo alle vicende degli ultimi mesi: la segreteria Bersani ha provato a sterzare e prendere un’altra via, ma lo ha fatto mentre nel frattempo il vento del «cambiamento» così speso evocato aveva incrinato seriamente gli altri elementi intorno a cui soltanto può costruirsi un partito, e cioè l’organizzazione e il gruppo dirigente. Finiti sotto accusa delle virulente campagne anti-casta, all’ombra delle quali è esploso il fenomeno Grillo, non c’era più una cultura politica condivisa che facesse da scudo alle campagna moralizzatrici (e spesso semplicemente denigratrici). E, purtroppo, nessun partito può sopravvivere quando i suoi stessi iscritti, militanti e simpatizzanti finiscono col non nutrire più né fiducia né stima per la propria memoria storica e per gli uomini che la rappresentano. Le lacrime di ieri di Bersani, a cui va l’onore delle armi, mostrano che il compito di ristabilire una «connessione sentimentale» coi propri elettori e con il paese è ormai affare di una nuova generazione. Con o senza il Pd.

Il Mattino e Il Messaggero, 21 aprile 2013