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Quell’Italia che torna alla prima Repubblica

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Due referendum sul jobs act: uno per cancellare lo strumento dei voucher, l’altro per tornare a far valere l’art. 18 per le imprese con più di cinque dipendenti. E poi un terzo referendum sulla materia degli appalti pubblici, e i diritti dei lavoratori delle imprese subappaltatrici. La raccolta, partita per iniziativa della Cgil, è arrivata alla bella cifra di 3,3 milioni di firme. Ora, con la decisione dell’Ufficio centrale, ha il bollino della Cassazione. Firme certificate, quorum raggiunto, richiesta di referendum valida. Se la Corte Costituzionale dovesse considerare i quesiti ammissibili, gli italiani potrebbero tornare al voto già nella prossima primavera, sempre che non ci tornino per la fine anticipata della legislatura. Ma, in un caso o nell’altro, quel popolo di navigatori (santi, eroi) che è il popolo italiano potrà, come Ulisse, vedere finalmente la costa del ritorno in patria. Cioè nei più confortevoli paesaggi della prima Repubblica: con la legge elettorale proporzionale, lo Statuto dei lavoratori, la partitocrazia, Pippo Baudo appena riapparso in TV e tutto quanto il resto.

Come dargli torto? La prima Repubblica ha portato l’Italia dalle macerie della seconda guerra mondiale fin nell’esclusivo club del G7, cioè delle sette maggiori potenze economiche del mondo, mentre la seconda non ha smesso di perderne, di posizioni. È vero, la prima Repubblica cambiava governi più frequentemente del cambio di stagione, mentre la seconda ha provato ad allungarne un po’ le opere e i giorni. Ma nella prima, se è vero che i governi si davano il cambio, i parlamentari però rimanevano dov’erano; nella seconda, il prezzo della stabilità è stato invece pagato ogni volta con la più ampia transumanza parlamentare che la storia ricordi, roba dinanzi alla quale cedono il passo anche gli inventori e primi interpreti del trasformismo, al tempo del fu Regno d’Italia.

Perciò: meglio tornare. La seconda Repubblica apparirà come una rischiosa avventura in terre incognite, per le quali in un momento di sbandamento l’Italia si è inopinatamente spinta: crolla il muro di Berlino, finisce la guerra fredda, franano i partiti, scompare la DC e il PCI cambia nome, ci sta che si perda la bussola per qualche lustro. Del resto, tutto quel gran parlare di fine delle ideologie e di postmodernità, in un Paese che non aveva ancora ben digerito neppure la modernità, non può non aver contribuito a creare un artificiale clima di confusione. All’inizio forse di euforia, ma alla fine sicuramente di smarrimento.

Perciò: meglio tornare. Meglio vedere Heather Parisi e Lorella Cuccarini di nuovo in televisione. Meglio seguire le piste dei Pooh, che vanno in concerto un’ultima volta. Meglio metter su un disco in vinile, che vende di più e la musica si ascolta pure meglio. Meglio Rischiatutto e Bim Bum Bam, con i cartoni animati degli anni Ottanta: Lady Oscar, Mimì e la nazionale di pallavolo, i Puffi e Candy Candy. Se poi anche la moda ci dà una mano, tornando ancora più indietro, agli anni Settanta, con le prossime collezioni a colpi di camicie floreali e jeans ricamati, allora è fatta, allora forse potremo guardarci attorno e pensare che siamo di nuovo a casa. Altro che Telemaco che va per mare alla ricerca del padre: Pinocchio è tornato, Gian Burrasca è tornato. Che se poi in tasca avessimo pure la vecchia lira, e non l’odiato euro, allora veramente potremmo riavere indietro anche il resto, chissà: forse persino un baby-boom in stile anni Sessanta, invece di ritrovarci tra i piedi tutti questi sgradevolissimi immigrati.

Si dice che il dentifricio non lo puoi rimettere nel tubetto una volta uscito. Ma è la seconda Repubblica che ha tentato l’impresa impossibile di rimettercelo: noi rivogliamo direttamente il tubetto. E naturalmente rivogliamo Pippo Baudo. E Berlusconi che torna a far televisione, e da quest’altra parte rivogliamo Enrico Berlinguer.

Ora, non è che l’iniziativa della CGIL non sia una cosa seria. Lo è, e pone anzi a tema non solo il jobs act, ma l’intero complesso della legislazione sul lavoro come è venuta cambiando negli ultimi venti anni, dal pacchetto Treu a venir giù, fino agli ultimi interventi del governo Renzi. Altrettanto serio è il nodo della legge elettorale, per risolvere il quale ci si sta sempre più orientando in direzione di uno schema di carattere proporzionale che pare rinverdire i fasti della prima Repubblica.

Ma per ogni storia c’è forse una storia parallela, proprio come per ogni libro c’è un libro parallelo. Giorgio Manganelli rivelò il trauma intellettuale che l’epilogo di Pinocchio procura al lettore, con quel burattino che alla fine diventa buono e ubbidiente come tutti gli altri. E si inventò un’altra storia. Ecco: non vorremmo che questa idea di ritrovare la strada di casa riservi anche a noi, prima o poi, un qualche indesiderato impatto traumatico, e che l’Italia finisca da tutt’altra parte.

(Il Mattino, 11 dicembre 2016)

Una nazionale che sa stupire

Anche se avremo di fronte la Spagna campione di Europa e del mondo. non sarà una corrida. Non solo perché l’Italia difensivista non c’è più ed è difficile metterci sotto – se ne sono accorti tutti, dopo Italia-Inghilterra e Italia-Germania – ma perché con questi Europei ci siamo lasciati alle spalle un bel po’ di luoghi comuni. Non è l’impresa più importante – quella resta la vittoria finale, naturalmente – ma è già un piccolo motivo di soddisfazione. Se c’è infatti una fabbrica di luoghi comuni che non sembra conoscere crisi, quella è il calcio. Si capisce: un gioco nel quale può non accadere nulla per novanta minuti mette a dura prova le risorse linguistiche e mentali di tifosi, spettatori, giornalisti. Non sono molti, infatti, gli sport in cui il risultato finale può essere quello iniziale (e l’indimenticabile Gianni Brera sosteneva pure che lo 0-0 è anzi lo score della partita perfetta): di mezzo, gli atleti impegnati nel gioco del calcio usano quasi esclusivamente gli arti inferiori, mica quelli superiori, e la testa la usano nell’unico modo in cui non se ne mettono a frutto le qualità intellettuali.

Dunque è tutto un fiorire di banalità, e una rappresentazione parecchio stereotipata di vizi e virtù di un popolo. Solo che questa volta l’Italia è rappresentata da Buffon, Pirlo, Balotelli e di banalità se ne ascoltano e vedono molte di meno. E ancor meno ne dice Prandelli nelle conversazioni alle quali quotidianamente si sottopone. Non che le sue dichiarazioni regalino lo stesso perverso piacere della perfidia o della strafottenza di un Mourinho, ma suonano come parole sentite e meditate, mai rese sull’onda di un agonismo esasperato. Insolito, per un paese poco  disposto a smorzare il tifo con un ragionamento. Brera, sempre lui, si era inventato l’eretismo podistico, per dire di quella specie di orgasmo che raggiungono a volte gli atleti e che tracima negli spettatori, negli allenatori, nei presidenti delle squadre di calcio fin dopo la partita. Ecco: quando parla Prandelli, il livello di eretismo ed eccitabilità nervosa, se pure c’era, è già calato di parecchio, e si può ragionare. Il che non significa che non chieda cuore e passione ai suoi ragazzi, ma lo fa senza mai oltrepassare la misura, e sempre rammentando che si tratta solo di un gioco.

Ovviamente, però, il calcio non è solo un gioco, e non solo per l’enormità degli interessi coinvolti, ma perché il posto dello sport nazionale in una società moderna non è quello di una partita a carte fra amici o di una sfida fra scapoli e ammogliati. Non a caso tiriamo ancora fuori le immagini di Messico ’70 o del Mundial dell’82: perché c’è lì un pezzo importante della nostra identità. Ma guardando ai giocatori in campo in questi giorni ci accorgiamo di come stia cambiando. A cominciare, naturalmente, da Balotelli. Qualche giorno fa Granzotto su Il Giornale si lamentava: possibile che non si possa parlar male di Balotelli senza essere accusati di razzismo? Ora che Balotelli s’è messo a giocar bene e anzi di più, non sarà forse necessario fare l’elogio del multiculturalismo ma constatare un fatto, quello sì. E il fatto sono i nuovi italiani, e l’idea, che s’affaccia forse per la prima volta, che ad essi è legato non un problema, ma una speranza e un’opportunità per il paese.

Poi Balotelli ha abbracciato la mamma. E tutti a pensare all’eterna Italia mammona. A me invece è venuto di pensare a un’altra storia italiana: quella di Pinocchio, la cui favola finisce con il burattino diventato finalmente un bravo bambino. Ora, non è lo stesso con SuperMario, scapestrato e indisciplinato ma alla fine cuore di mamma? No, non è lo stesso. Anzitutto, la storia di Pinocchio non è solo una fiaba a lieto fine. Ed ha ragione Benigni, per il quale le frasi finali del libro di Collodi sono l’unica, vera grande menzogna di Pinocchio: “Come sono contento di essere diventato un bambino buono! E come ero buffo quand’ero un burattino!”. Ma soprattutto Balotelli non ha mentito, queste parole non le ha dette, nessuna morale un po’ ipocrita ha voluto trarre dalla sua vita, e di sé non pensa affatto di essere buffo quando fa la statua in mezzo al campo, né fa meno lo sbruffone quando ne promette quattro agli spagnoli per questa sera.

Chissà dunque se ci sarà anche a Kiev il lieto fine. Comunque vada, ho però l’impressione che, forse, anche le storie del nostro paese almeno un poco possono cambiare. E perciò: forza azzurri!

Il Mattino, 1° luglio 2012