In tempi di avvilimento pubblico è impossibile ogni forma di grandezza: è un pensiero di Antonio Gramsci che vale bene per l’epoca nostra, la cui narrazione è più avvilente che mai. L’almanacco quotidiano delle inchieste reca, alla data di oggi: la condanna a sette anni e sei mesi per estorsione, inflitta a Nicola Cosentino, ex sottosegretario al Tesoro e uomo forte del centrodestra in Campania; 69 arresti, tra cui alcuni eccellenti, per appalti truccati, e reati che vanno dalla corruzione alla turbativa d’asta. Il Gip che firma l’ordinanza parla della punta di un iceberg. In quella punta sono addossati l’uno all’altro politici e professionisti, tecnici e imprenditori. Completano la giornata le perquisizioni a Palazzo di Giustizia, nell’ambito dell’inchiesta sull’imprenditore napoletano Alfredo Romeo, e il voto sulla sfiducia (respinta) al ministro Luca Lotti, sempre sul caso Consip. Perfino le pagine sportive avviliscono, con i dirigenti della Juventus convocati dalla Commissione parlamentare Antimafia.
Ebbene, che Paese è questo, che si può raccontare solo in termini di inchieste, scandali, tangenti? Non voglio fare il solito discorso sul garantismo e sul giustizialismo: in questione non è se siano tutti innocenti o tutti colpevoli, ma la domanda su quel che resta della vita pubblica di un Paese quando tutto finisce in coda alla montagna di carte che si riversa sui giornali, le redazioni, i notiziari televisivi. Persino il voto di ieri del Senato sulla riforma del processo penale (che contiene anche inasprimenti di pena a gran voce richiesti su reati come furti e rapine, e la delega al governo su intercettazioni e ordinamento penitenziario) passa non in secondo, ma in terzo o quarto piano, vista la quantità di notizie fornita dalle cronache giudiziarie. E la stessa sorte tocca alla politica estera, col voto in Olanda, alle notizie economiche, col referendum sui voucher, all’udienza del Papa, con le forti parole di solidarietà ai lavoratori licenziati. Tutte notizie relegate nei tagli bassi, solo dopo avere traversato sani e salvi la burrasca dell’attività inquirente.
A suo tempo, Gramsci diceva che i grandi giornali redigono la cronaca giudiziaria secondo gli schemi e le attrattive del romanzo d’appendice. I lettori, evidentemente, si appassionano. Ma quali altre passioni civili e politiche restano, quando non vi sono altre carte da leggere, quando sfogliare un giornale significa leggere le migliaia di pagine che accompagnano le ordinanze di custodia cautelare?
Di nuovo: il punto non è se i quotidiani facciano bene o male, e neppure se non debba essere denunciato il solito circuito mediatico-giudiziario: queste riflessioni le abbiamo già proposte molte altre volte, e sono comunque impari rispetto alla mole delle inchieste in corso. Lasciamo pur dire che non bisogna prendersela con chi racconta i fatti, ma con chi li commette. Resta però il dato che il fiume in piena della giudiziaria travolge ogni altra possibilità di discorso pubblico, e rende consunte e inservibili tutte le categorie con le quali si pensava di poter leggere il mondo.
Sempre Gramsci: «Che tutti i membri di un partito politico debbano essere considerati come intellettuali, ecco un’affermazione che può prestarsi allo scherzo e alla caricatura». Gramsci continuava spiegando che no, non si tratta di uno scherzo, ma oggi: come potremmo noi continuare? È più facile, molto più facile, che qualcuno scriva sul suo blog che tutti i membri di un partito politico debbano essere considerati come collusi o inquisiti, e che, pur essendo un comico di professione, aggiunga che non si tratta affatto di uno scherzo o di una caricatura, ma del discorso ormai egemone nella società.
Così è. Il populismo imperante si nutre di questa opinione diffusa, di questo luogo comune – alla lettera: è il luogo nel quale tutti siamo – di questa maligna intelligenza delle cose e della realtà. E fornisce la chiave d’interpretazione presso che esclusiva degli eventi politici, economici o sociali: perché il declino dell’Italia? Perché i politici rubano. Perché la Juventus vince lo scudetto? Perché la Juventus ruba. Perché non c’è lavoro? Perché gli immigrati ce lo rubano. Ruberanno pure tutti quanti, ma purtroppo non basta affatto arrestare, espellere o squalificare tutti, per avere la crescita, il lavoro o lo scudetto.
Quello che invece si ottiene, è un drammatico impoverimento dello spazio pubblico, e l’eclisse di ogni idea di grandezza associata alla vita dello Stato, alla politica e alle istituzioni. Proprio come diceva Gramsci. Che in fondo variava, in una prospettiva storica, una vecchia frase, ripreso in tanta letteratura moderna, da Montaigne a Hegel: che nessuno è eroe agli occhi del proprio cameriere. L’adagio non contiene la sdegnata protesta aristocratica nei confronti del punto di vista basso e volgare del popolino. Né è la «casta» degli eroi che si lamenta perché i camerieri origliano, intercettano e diffondono. Quel che è in gioco, è se mai la necessità di non perdere del tutto la memoria della grandezza che la politica ha mantenuto per tutto il Novecento. E che, se non fornisce eroi, procura almeno il senso dei compiti ai quali si è chiamati quando la storia del mondo si rimette in moto, come sta prepotentemente accadendo in questi anni. Proprio mentre l’Italia, consumata nel suo spirito pubblico, scivola purtroppo sempre più ai margini.
(Il Mattino, 16 marzo 2017)