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Eclisse di Stato: l’unico orizzonte è giudiziario

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In tempi di avvilimento pubblico è impossibile ogni forma di grandezza: è un pensiero di Antonio Gramsci che vale bene per l’epoca nostra, la cui narrazione è più avvilente che mai. L’almanacco quotidiano delle inchieste reca, alla data di oggi: la condanna a sette anni e sei mesi per estorsione, inflitta a Nicola Cosentino, ex sottosegretario al Tesoro e uomo forte del centrodestra in Campania; 69 arresti, tra cui alcuni eccellenti, per appalti truccati, e reati che vanno dalla corruzione alla turbativa d’asta. Il Gip che firma l’ordinanza parla della punta di un iceberg. In quella punta sono addossati l’uno all’altro politici e professionisti, tecnici e imprenditori. Completano la giornata le perquisizioni a Palazzo di Giustizia, nell’ambito dell’inchiesta sull’imprenditore napoletano Alfredo Romeo, e il voto sulla sfiducia (respinta) al ministro Luca Lotti, sempre sul caso Consip. Perfino le pagine sportive avviliscono, con i dirigenti della Juventus convocati dalla Commissione parlamentare Antimafia.

Ebbene, che Paese è questo, che si può raccontare solo in termini di inchieste, scandali, tangenti? Non voglio fare il solito discorso sul garantismo e sul giustizialismo: in questione non è se siano tutti innocenti o tutti colpevoli, ma la domanda su quel che resta della vita pubblica di un Paese quando tutto finisce in coda alla montagna di carte che si riversa sui giornali, le redazioni, i notiziari televisivi. Persino il voto di ieri del Senato sulla riforma del processo penale (che contiene anche inasprimenti di pena a gran voce richiesti su reati come furti e rapine, e la delega al governo su intercettazioni e ordinamento penitenziario) passa non in secondo, ma in terzo o quarto piano, vista la quantità di notizie fornita dalle cronache giudiziarie. E la stessa sorte tocca alla politica estera, col voto in Olanda, alle notizie economiche, col referendum sui voucher, all’udienza del Papa, con le forti parole di solidarietà ai lavoratori licenziati. Tutte notizie relegate nei tagli bassi, solo dopo avere traversato sani e salvi la burrasca dell’attività inquirente.

A suo tempo, Gramsci diceva che i grandi giornali redigono la cronaca giudiziaria secondo gli schemi e le attrattive del romanzo d’appendice. I lettori, evidentemente, si appassionano. Ma quali altre passioni civili e politiche restano, quando non vi sono altre carte da leggere, quando sfogliare un giornale significa leggere le migliaia di pagine che accompagnano le ordinanze di custodia cautelare?

Di nuovo: il punto non è se i quotidiani facciano bene o male, e neppure se non debba essere denunciato il solito circuito mediatico-giudiziario: queste riflessioni le abbiamo già proposte molte altre volte, e sono comunque impari rispetto alla mole delle inchieste in corso. Lasciamo pur dire che non bisogna prendersela con chi racconta i fatti, ma con chi li commette. Resta però il dato che il fiume in piena della giudiziaria travolge ogni altra possibilità di discorso pubblico, e rende consunte e inservibili tutte le categorie con le quali si pensava di poter leggere il mondo.

Sempre Gramsci: «Che tutti i membri di un partito politico debbano essere considerati come intellettuali, ecco un’affermazione che può prestarsi allo scherzo e alla caricatura». Gramsci continuava spiegando che no, non si tratta di uno scherzo, ma oggi: come potremmo noi continuare? È più facile, molto più facile, che qualcuno scriva sul suo blog che tutti i membri di un partito politico debbano essere considerati come collusi o inquisiti, e che, pur essendo un comico di professione, aggiunga che non si tratta affatto di uno scherzo o di una caricatura, ma del discorso ormai egemone nella società.

Così è. Il populismo imperante si nutre di questa opinione diffusa, di questo luogo comune – alla lettera: è il luogo nel quale tutti siamo – di questa maligna intelligenza delle cose e della realtà. E fornisce la chiave d’interpretazione presso che esclusiva degli eventi politici, economici o sociali: perché il declino dell’Italia? Perché i politici rubano. Perché la Juventus vince lo scudetto? Perché la Juventus ruba. Perché non c’è lavoro? Perché gli immigrati ce lo rubano. Ruberanno pure tutti quanti, ma purtroppo non basta affatto arrestare, espellere o squalificare tutti, per avere la crescita, il lavoro o lo scudetto.

Quello che invece si ottiene, è un drammatico impoverimento dello spazio pubblico, e l’eclisse di ogni idea di grandezza associata alla vita dello Stato, alla politica e alle istituzioni. Proprio come diceva Gramsci. Che in fondo variava, in una prospettiva storica, una vecchia frase, ripreso in tanta letteratura moderna, da Montaigne a Hegel: che nessuno è eroe agli occhi del proprio cameriere. L’adagio non contiene la sdegnata protesta aristocratica nei confronti del punto di vista basso e volgare del popolino. Né è la «casta» degli eroi che si lamenta perché i camerieri origliano, intercettano e diffondono. Quel che è in gioco, è se mai la necessità di non perdere del tutto la memoria della grandezza che la politica ha mantenuto per tutto il Novecento. E che, se non fornisce eroi, procura almeno il senso dei compiti ai quali si è chiamati quando la storia del mondo si rimette in moto, come sta prepotentemente accadendo in questi anni. Proprio mentre l’Italia, consumata nel suo spirito pubblico, scivola purtroppo sempre più ai margini.

(Il Mattino, 16 marzo 2017)

I danni irreparabile alla politica sub judice

dentedcanLa dichiarazione resa ieri da Clemente Mastella nel processo che lo vede imputato con l’accusa di induzione indebita per aver esercitato pressioni su Antonio Bassolino, all’epoca governatore della regione, al fine di condizionare le nomine all’Asl di Benevento, dà da pensare. C’è un uomo, un politico, che si difende ed è dunque normale che provi a respingere le accuse che gli vengono rivolte. Lo è meno il fatto che la difesa di Mastella si ascolti oggi, a quasi dieci anni di distanza dai fatti. Ma accantoniamo per un momento l’andamento dei lavori processuali: quel che emerge dalle parole di Mastella, come anche da quelle pronunciate qualche giorno fa da Antonio Bassolino dinanzi al medesimo collegio, è un punto più generale e di principio, cioè la difficoltà di determinare con chiarezza ed apporre l’eventuale qualificazione penale sopra fatti politici, come quelli posti nel processo sotto la lente della magistratura.

Fu un terremoto, non dimentichiamolo, che non travolse solo l’Udeur, il partito di Mastella, colpito da numerosi provvedimenti giudiziari spiccati all’indirizzo di diversi suoi esponenti, oltre che dalla richiesta di custodia cautelare per la moglie di Mastella, Sandra Leonardo, ma concorse anche alla caduta del governo Prodi e alla fine anticipata della legislatura. Mastella si dimise da Guardasigilli, pronunciando in Aula un intervento durissimo: «Durante lo scontro sotterraneo e violentissimo tra i poteri in questi mesi – disse fra l’altro – ho avuto il triplo di avvisi di garanzia rispetto a quelli avuti nella mia una carriera trentennale».

Il processo è ancora in corso. È attesa la sentenza di primo grado. I cronisti della giudiziaria lo raccontano quasi controvoglia: l’Aula è deserta, certo Mastella è ancora in attività, fa il sindaco di Benevento, ma non ha più la statura politica che aveva dieci anni fa. Il suo partito non ha più il ruolo determinante che aveva negli equilibri politici campani e nazionali, e ci sono quindi meno riflettori e poca voglia di capire come siano andate veramente le cose: fatti politici, rapporti di forza e accordi fra leader che esercitano la responsabilità affidata loro dagli elettori, o patti corruttivi, pressioni indebite e oscuri ricatti?

Può darsi che sociologi e storici si formeranno un loro giudizio sulla politica campana al tempo di Mastella anche sulla base delle carte processuali che vanno pigramente accumulandosi nel tempo, anno dopo anno, udienza dopo udienza. Può darsi che il loro giudizio sarà severo, e che sapranno riconoscere clientele, raccomandazioni, cordate e notabilati. Ma lo faranno, per l’appunto, da sociologi e da storici. Intanto, la materia è rimasta sub judice per tutto questo tempo, e ha già provocato una serie di effetti che nessun eventuale proscioglimento potrà cancellare.

Altra Corte, altro giudizio. È stata depositata la sentenza con la quale la Cassazione ha confermato l’assoluzione per Vincenzo De Luca, condannato in primo grado per abuso d’ufficio. Anche in questo caso ii fatti sono lontani: risalgono al 2008, alla crisi dei rifiuti, alla nomina di De Luca commissario straordinario, e alla progettata realizzazione di un termovalorizzatore (che poi non si fece), per la quale l’allora sindaco di Salerno nominò come «project manager», figura non prevista dalla legge, un uomo di sua stretta fiducia, secondo l’accusa svuotando così i poteri del responsabile unico del procedimento. In appello, i giudici avevano già capovolto la sentenza di primo grado, e ora la Cassazione non fa che confermare la pronuncia della Corte d’appello. Le motivazioni che accompagnano la sentenza non contengono solo il rigetto dell’accusa, in realtà: sembrano quasi sottintendere che, nella situazione di gravissima emergenza in cui si trovava in quel frangente l’Amministrazione, De Luca agì per il meglio, usando i poteri di deroga a sua disposizione, allestendo giustamente un ufficio distinto dalle strutture comunali, «nell’impossibilità di fronteggiare altrimenti la situazione».

Ci asteniamo dal pronunciare un giudizio, anche se in questo caso siamo dinanzi a una sentenza definitiva, declamata «ore rotundo». Ci asteniamo pure dal riproporre considerazioni sul rapporto fra politica e giustizia. Anche in questo caso, saranno storici e sociologici a dire la loro. Guardiamo la cosa solo dal lato della politica, la cui rappresentazione, in Campania, è offerta anzitutto da vicende come queste. Non è chiara almeno una cosa, alla luce dei fatti ricordati, che in mancanza di meglio sarebbe opportuno, molto opportuno, che la lotta politica non si nutrisse dell’opera di delegittimazione degli avversari sulla base di procedimenti solo avviati e chissà quando, e chissà come, conclusi? Non sarebbe tutto più semplice, più chiaro, più giusto?

(Il Mattino, 23 febbraio 2017)

La riforma della Costituzione ha un motivo che non si vede

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Vi sono stati, finora, due piani di discussione della riforma costituzionale, in vista del referendum del prossimo autunno. Il primo concerne il merito, cioè il contenuto della riforma. Il secondo riguarda invece la partita politica che si gioca attorno al referendum. C’è però un terzo piano, sul quale sarebbe necessario portare la discussione, e che è purtroppo ben poco frequentato nel dibattito di queste settimane. Nel merito, i difensori della riforma rivendicano l’importanza di scelte che mettono fine al bicameralismo paritario e ridefiniscono i rapporti fra il livello statale e quello regionale, dopo anni di pseudo-federalismo malissimo digerito; quanti sono contrari trovano invece confusa o involuta la fisionomia del nuovo Senato delle Regioni e paventano una restrizione degli spazi di legittimità democratica delle istituzioni. Sul piano politico, invece, gli avversari della riforma trovano un comune denominatore nella possibilità di far cadere Renzi (e si direbbe proprio lui, più ancora che il governo da lui presieduto); al contrario, Renzi sa che con la vittoria al referendum il resto della legislatura sarebbe in discesa, e magari potrebbe riprendere verve l’antica spinta rottamatrice.

Qual è però il terzo piano, quello assai poco frequentato finora? Forse lo si vede meglio se lo si osserva da lontano, da molto lontano. Dalla foresta amazzonica, per esempio, dove si spinse l’antropologo Claude Lévi-Strauss. Imbattendosi in società «fredde» che, a differenza di quelle «calde», vivevano vicini allo «zero di temperatura storica». Società che allo studioso francese sembravano stazionarie, preoccupate esclusivamente di «perseverare nel loro essere». Lévi-Strauss aveva certamente in testa un solo modello di storia, un solo «regime di storicità»: quello tipico delle società occidentali, persuase di vivere (da almeno un paio di secoli) dentro il corso progressivo di una storia che procede per successivi accumuli, e che è palesemente ispirata e diretta verso il futuro.

Quella persuasione è ormai andata smarrita. Un altro studioso francese, lo storico François Hartog, ha parlato di crisi del regime moderno e coniato l’espressione «presentismo» per spiegare in qual modo oggi viviamo l’esperienza del tempo. L’avvenire non è più, infatti, il punto luminoso verso il quale la società umana è diretta, e così il fiume della storia, invece di dirigersi sicuro verso la foce del futuro, si slarga e ristagna nella morta gora del presente.

Il «presentismo», in realtà, ha dapprima significato l’impazienza rivoluzionaria di buttare a mare il passato, o di ottenere tutto e subito, come gridavano i muri di Parigi nel maggio del ’68. Poi, però, passata la febbre rivoluzionaria, e abbassatasi drasticamente la temperatura storica, ha voluto dire e vuol dire un tempo privo di vere aspettative, accartocciatosi su se stesso, sprofondato definitivamente al di qua di ogni linea d’orizzonte. Un provincialismo non dello spazio ma del tempo, per dirla con il poeta inglese Eliot, in cui non ha più parte il passato, che ha perso ogni esemplarità, ma in cui anche il futuro ha perso qualsiasi attrattiva.

Domanda: se questa diagnosi è corretta – e a questa diagnosi concorrono molti fenomeni storici e sociali: dalla crisi del lavoro salariato alla diffusione dei social media, dalla fine delle grandi narrazioni politiche e ideologiche ai progetti di naturalizzazione coltivati (anche) dalle scienze umane – se la diagnosi è corretta, la domanda diviene: cosa significa fare una riforma profonda della costituzione, in una simile temperie culturale? Non dovrebbe significare immettere nuovo dinamismo ed energia politica nel tessuto istituzionale del Paese? Non dovrebbe essere questa la vera scommessa, ben al di là del merito dei singoli articoli toccati dal processo di revisione?

Vi è in effetti un modo di presentare gli effetti del cambiamento costituzionale, per il quale la riforma produce al più un adeguamento, un aggiornamento del contesto istituzionale. Si tratterebbe cioè – secondo questo racconto – non di aprire un nuovo corso, una nuova storia, ma al più di non rimanere indietro rispetto al presente: del futuro c’è così, in questa maniera di apprezzare la riforma, ben poca traccia. Ce n’è ovviamente ancora meno in chi guarda invece al passato: è la retorica che monumentalizza la Carta del ’48, trasformandola in un patrimonio immutabile, ed è un altro modo, irrimediabilmente passatista, di sfuggire all’appuntamento con i compiti che la storia assegna alla politica. Ma chi vuole la riforma forse non può accontentarsi di vivere vicino allo zero di temperatura storica, o ha anzi il dovere di spingere lo sguardo più in là, oltre la crisi del tempo attuale, provando per una volta ancora a dire in maniera solida e non effimera che questo presente è inferiore all’avvenire che si tratta di aprire. Non è del resto la stessa incapacità che affligge oggi l’intera costruzione europea?

(Il Mattino, 29 agosto 2016)

L’idea metafisica del confine

oltreQuando Kant, un filosofo che nessun liceale può dimenticare, mette la parola fine alla sua opera più grande, la Critica della ragione pura, di una cosa è particolarmente fiero, oltre che sicuro: di aver indicato i limiti della ragione umana. Quello che si può sapere, e quello che si può al più pensare (cioè immaginare), ma non certo sapere. Tutto l’illuminismo – del quale in larga parte è figlia la civiltà moderna – è fatto così: tira limiti, stabilisce confini, misura e ordina, mappa territori e ripartisce competenze (e, certo, anche diritti di proprietà). Non è proprio una brutta cosa, ma forse è vero: forse non basta. Il tema di ordine generale che il Ministero ha assegnato contiene un brivido metafisico che a un ragionatore come Kant, campione di razionalismo critico, faceva un po’ paura, ma che è difficile non avvertire, soprattutto intorno ai diciotto anni. Quello che il tema dice a proposito della frontiera, con parola settecentesca Kant chiamava sublime: se ne impadroniranno i romantici, e diventeranno per esempio gli interminati spazi e i sovraumani silenzi dell’infinito di Leopardi. Però il Ministero la butta in politica: e suggerisce al candidato di riflettere sui muri che tornano ad alzarsi in Europa, e sulle guerre che si combattono lungo i confini. Ma il candidato, se è un ragazzo in gamba, e se ha voglia di cucire le cose che legge sui giornali con quelle che avrà imparato a scuola, proverà a far meglio dell’estensore della traccia, e a riflettere sul significato politico delle categorie scomodate nel tema, ma pure sull’emozione metafisica che si nasconde oltre la frontiera, di là dal limite. E nel volto dell’Altro.

(Il Messaggero, 23 giugno 2016)

Se l’elettore non si tura più naso e orecchie

Cicladi

Forse questo primo turno amministrativo può dispensare qualche certezza anche se, a quanto pare, nelle principali città italiane, quelle sulle quali si concentra in prevalenza l’attenzione dell’opinione pubblica, non eleggerà alcun sindaco e bisognerà attendere il ballottaggio. Nel frattempo, infatti, gli uscenti sono dati in vantaggio: sia a Torino che a Napoli; sia Fassino che De Magistris. Due uomini che non potrebbero essere più diversi. In realtà, da quando c’è l’elezione diretta del sindaco la regola – che pure ammette un buon numero di eccezioni – è che il sindaco che si ripresenta viene rieletto. La stessa legge, imponendo il limite dei due mandati, dimostra consapevolezza del vantaggio da cui parte chi detiene il controllo della macchina comunale. E questo è un primo punto, dal quale ogni volta si riparte.

Un altro punto, più importante, è che l’elettorato tende a premiare liste e candidature che non sono state logorate da conflitti interni. Questa regola riguarda tanto le forze politiche tradizionali, quanto le nuove formazioni. Prendiamo i Cinquestelle: a Napoli hanno avuto non pochi problemi a individuare il candidato; i big hanno preferito non scendere in campo; una parte dei militanti non ha digerito la scelta abbastanza incolore di Matteo Brambilla, minacciando addirittura di adire le vie legali. Risultato: il Movimento è abbondantemente al di sotto della media nazionale, e fa probabilmente peggio anche del risultato ottenuto con la Ciarambino alle Regionali dello scorso anno. Pesa sicuramente il consenso per De Magistris, ma i grillini ci hanno sicuramente messo del loro. Stessa cosa a Milano, dove la candidata indicata in un primo momento, Patrizia Bedori, si è fatta (o è stata fatta) da parte. Fortissima fibrillazione, e Milano uscita fuori dai riflettori del Movimento. Risultato: la partita se la giocano Sala e Parisi, centrosinistra e centrodestra, e i Cinquestelle ottengono percentuali tutto sommato modeste. Del candidato, Gianluca Corrado, si conserverà traccia solo in qualche almanacco di figurine.

Guardiamo altrove. Nel centrodestra, Roma è stato l’epicentro di tutti i conflitti, il caso più eclatante. Da una parte un elettorato di centrodestra moderato, con Alfio Marchini; da un’altra parte un elettorato di destra populista, con Giorgia Meloni (e Salvini a supporto). Conseguenza: la destra è con ogni probabilità fuori dalla partita finale, quella del ballottaggio. E la lista di Forza Italia, che ha prima provato a puntare su Bertolaso per poi accodarsi a Marchini fra mille polemiche tocca il suo minimo storico, con percentuali dai quali è dubbio che possa in futuro riprendersi.

Nel centrosinistra, l’impresa più difficile è stata Napoli. A Napoli le primarie hanno decretato un vincitore, Valeria Valente, che Antonio Bassolino, il perdente, ha a lungo mostrato di non riconoscere: impugnando il risultato, chiedendo di rivotare, contestando poi puntualmente tutte le scelte compiute nel corso della campagna elettorale. Risultato: la lista del partito democratico rimane ferma, grosso modo, alle percentuali ottenute cinque anni fa col prefetto Morcone, dopo la debàcle dell’annullamento delle primarie, e al momento gli exit poll danno la Valente terza, e dunque fuori del ballottaggio.

Conclusione: gli elettori non si turano più il naso. Essendo venuto meno il sentimento forte di un’appartenenza ideologica o di partito, non hanno più motivo di farlo. Una proposta politica diviene quindi inevitabilmente più convincente, quando è rappresentata con chiarezza dal candidato prescelto, mentre divengono sempre meno comprensibili i disaccordi e i contrasti interni: non essendo più riconoscibili divisioni di carattere ideologico, culturale o programmatico, non resta che la lotta di potere e l’ambizione personale. Che in genere l’elettore non apprezza.

C’entra anche la personalizzazione della politica? Sicuramente. Tanto più in una competizione come quella municipale, con l’elezione diretta, dove quindi imbroccare il candidato giusto può fare la differenza. E anche in questo caso, ciò è vero a destra come a sinistra, così come dalle parti dei grillini. Vale cioè per Parisi a Milano, che porta il centrodestra molto più in alto che altrove, ma anche per la Appendino a Torino, che rimane in partita nonostante il credito di cui godeva Fassino alla vigilia. Vale infine pure per Giachetti a Roma, che ha permesso al Pd di superare lo sbandamento seguito alle dimissioni di Marino e alla fine traumatica della consiliatura, e probabilmente di rimanere in partita.

C’entra dunque il fattore personale. Ma pesa pure l’esiguità di quelli che erano una volta gli «interna corporis» dei partiti. Che quasi non esistono più. E che comunque non riescono più a tener dentro un bel nulla. Ed ecco allora l’ultimo risultato: la legittima, e insopprimibile, lotta politica si riversa nei canali artificiali di una sorta di circolazione extra-corporea, cioè su media, rete e giornali, e là fuori di legittimità ne conquista sempre meno. L’elettore sente tutti i miasmi che si sollevano e siccome il naso non se lo tura più, vota da un’altra parte o, più spesso, si astiene.

(Il Mattino, 6 giugno 2016)

Se la vigilia ricompatta la politica

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Che il 5 giugno, con il voto amministrativo nelle principali città italiane, non sia in gioco il governo Renzi, è sicuramente vero: se non altro perché in molti casi, se non in tutti, la partita si giocherà al secondo turno, due settimane dopo. Sia a Napoli, che a Roma, che a Milano – ma forse anche in altre città come Torino o Bologna – ci sarà infatti bisogno del ballottaggio. E al ballottaggio, ha detto ieri Renzi parlando a Napoli, si gioca un’altra partita, si parte dallo zero a zero. Ed è vero, per diverse ragioni. È vero perché a metà giugno cambia la percentuale dei votanti, che cala fisiologicamente e costringe i candidati rimasti in lizza a moltiplicare gli sforzi per spingere i propri elettori a tornare alle urne una seconda volta. È vero perché si riposiziona il voto dei perdenti, usciti di scena al primo turno. È vero perché emergono con maggiore nettezza le differenze fra i due candidati rimasti in gara e gli schieramenti che li sostengono. È vero perché cambiano le stesse motivazioni del voto, e la logica da «second best», la logica del male minore, può cambiare le scelte degli elettori (e le percentuali del primo turno). È vero soprattutto quando la competizione è stata drogata dalla pletora di liste e candidati messi in campo per acchiappare consenso pur che sia. Questa volta è andata proprio così, molto più che in passato. E la polverizzazione del consenso, che viene raccolto dalle lunghe code di candidati infilati nelle liste più diverse, comporta un forte rischio di dispersione, quando le liste scompaiono di scena e s’alza forte il vento del ballottaggio: la polvere rischia di volare via, o di non depositarsi dove si è raccolta al primo turno.

Ma è il meccanismo stesso del doppio turno che rende possibile la rimonta. Il secondo voto non ha infatti il significato di un voto confermativo. E di casi in cui chi era dietro e dato per sconfitto è riuscito a ribaltare i pronostici e a vincere al secondo turno ce ne sono stati di clamorosi. A Napoli, innanzitutto. Cinque anni fa, De Magistris arriva dietro a Gianni Lettieri di quasi dieci punti: 27,5 contro il 38,5 di Lettieri. Due settimane dopo, Giggino ha scassato tutto: 65 contro 35. Un risultato eclatante, reso possibile anzitutto dal voto in libera uscita del centrosinistra e del Pd: un flusso di voti che solo il ballottaggio poteva innescare. Ma è successo anche altrove: a Roma per esempio, dove nel 2008 Rutelli manca la riconferma nonostante il 45,8 per cento del primo turno e quasi centomila voti in più rispetto a Gianni Alemanno. Al secondo turno, finisce centomila voti dietro: 54 per cento contro 46 per cento.

A Venezia protagonisti di rimonte sono una volta Cacciari, col centrosinistra, e un’altra, dieci anni dopo, Brugnaro, col centrodestra. E tutte e due le volte a farne le spese fu la sinistra-sinistra di Felice Casson, per due volte davanti al primo turno e per due volte trombato al secondo. Tutte e due le volte non gli è bastato di sopravanzare il secondo arrivato di più di dieci punti percentuali. Ovviamente, chi è davanti rimane il favorito. Ma il doppio turno va interpretato così, come una doppia partita, non come la stessa partita giocata due volte.

Questa logica è ancora più evidente quando al voto non arrivano schieramenti tradizionali, dai lineamenti chiaramente profilati, come invece accade a Milano, dove il confronto avviene effettivamente tra un centrosinistra e un centrodestra sostanzialmente uniti. Non a caso, a Milano neanche in passato ci sono stati rovesciamenti come quelli verificatisi a Roma o a Napoli. Dove invece le carte si sono mescolate, dove le forze antisistema hanno raggiunto percentuali ragguardevoli, come a Roma o a Napoli, lì è molto più complicato leggere un turno in continuità con l’altro.

Nelle ultime ore, del resto, qualcosa forse è cambiato. L’epopea di De Magistris a Napoli, o il fascino della Raggi a Roma si fondano anche sui disastri delle forze politiche tradizionali,  in particolare del centrosinistra: sui rovesci delle passate primarie a Napoli; sulla fine ingloriosa della giunta Marino a Roma. Ma sia a Roma che a Napoli, benché Renzi abbia cercato di non accollarsi in prima persona il risultato del 5 giugno, e soprattutto i suoi effetti politici, un tentativo di ricomposizione del quadro politico è stato avviato. Ieri Bassolino era alla Mostra d’Oltremare, a fare il suo dovere di «padre fondatore del Pd». A Roma, Giachetti ha avuto il sostegno di quasi tutto il Pd, da Orfini a Veltroni a Zingaretti, e i distinguo residuali di D’Alema si sono persi nelle polemiche della minoranza democrat, sempre più sbiadita e meno convinta.  Difficile capire se questo profilo più compatto del  partito democratico avrà un seguito anche nelle urne. Però contribuisce a rendere più chiara la posta in gioco. E gioverebbe anche al centrodestra, come giova a Milano, con Parisi, presentarsi coeso intorno a un candidato capace – come si dice – di fare la sintesi. Quando questo accade, al secondo turno rimane ancora la possibilità di decidere se continuare a scassare, ma almeno dall’altra parte c’è qualcosa di più delle macerie della volta scorsa.

(Il Mattino, 4 giugno 2016)

Il coraggio di avere paura della santa intolleranza

DAVIGO

Due punti, virgolette: «si fa come con i trafficanti di droga o di materiale pedopornografico: mandando i poliziotti a offrire denaro ai politici, e arrestando chi accetta». Così parlò Piercamillo Davigo, presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, intervistato ieri dal Corriere della Sera. Ieri, ma poteva essere anche dieci o vent’anni fa. Anzi no, perché oggi è diverso, «oggi la situazione è peggio» che all’epoca di Mani Pulite, del cui pool Davigo fece parte. E tutta l’intervista svolge quest’unico tema, la corruzione della politica, i politici che rubano, i corrotti più forti di prima, i delinquenti in carcere che sono troppo pochi. E infine i governi che, di destra e di sinistra, agiscono sempre allo stesso modo: quando va bene prendono provvedimenti inutili; quando va male favoriscono la corruzione. E tutti, tutti sono senza vergogna, rubano senza vergogna, parlano senza vergogna.

Nel suo santo furore contro la corruzione politica che infesta il nostro Paese, Piercamillo Davigo non si prende nemmeno una volta il tempo di spiegare in cosa consiste il diritto di difesa, oppure la presunzione di innocenza, o la funzione democratico-rappresentativa dei partiti. Non sospetta un uso distorto della custodia cautelare, non conosce comportamenti abusivi del pubblico ministero, respinge la logica della responsabilità civile dei magistrati. E dice almeno un paio di cose di una gravità difficile da sottovalutare.

La prima: alla domanda se davvero avesse detto in passato che «non esistono innocenti, esistono solo colpevoli non ancora scoperti» risponde che, certo, lo ha detto e lo conferma, con riferimento a un certo contesto ambientale, che prova a descrivere. Ma in quale contesto giuridico può mai esser vera un’enormità simile? Dal punto di vista dello stato di diritto, non è mai vero che non esistono innocenti: in nessun contesto, neanche nel più degradato, nel più compromesso, nel più corrotto dei contesti possibili. Neppure tra i trafficanti di droga e gli spacciatori di materiale pedopornografico a cui Davigo paragona con squisita gentilezza i politici: neanche lì la legge può considerare di avere dinanzi solo colpevoli di cui non si sia potuto ancora dimostrare la colpevolezza. C’è solo un contesto in cui questo può accadere, ma non ha a che vedere con la legge e con il diritto, bensì con l’abito mentale dell’inquisitore. Davigo è del resto convinto che «male non fare paura non avere», come ha ricordato ancora di recente. Il che si traduce in due non piccole conseguenze: la prima, che il pubblico ministero è di fatto autorizzato a incutere paura, dal momento che dall’altra parte si spaventerà solo il cittadino disonesto; la seconda, che la vera difesa dell’indagato, o dell’imputato, contro cui preme il martello dell’inquisitore, non è nel diritto, nelle garanzie e nelle regole del processo, bensì solo nella morale e nella onestà personale. Difficile compiere più rapidamente tanti passi indietro dal punto di vista del garantismo penale.

C’è poi l’altra enormità che Davigo si spinge a dire, quando rievoca i fasti di Tangentopoli. Perché traccia il bilancio di quella stagione contando non il numero dei processi o delle condanne, ma quello dei partiti che crollarono sotto i colpo delle inchieste. Li conta: furono cinque, «tra cui quello di maggioranza relativa», cioè la Dc, ma non crollarono tutti. Infatti: «dovemmo interrompere la cura a metà». Anche in questo caso è evidentemente all’opera la stessa antigiuridica presunzione di colpevolezza di prima: i partiti che non crollarono resistettero solo perché i magistrati non arrivarono fino a loro. Ma soprattutto l’attività della magistratura prende in queste parole uno smaccato significato politico. Non è più questione, infatti, di reati da scoprire, ma di partiti da demolire.

Ora, è vero che il vice Presidente del CSM, Legnini, ha preso le distanze dalle parole di Davigo, ma resta la preoccupazione per una magistratura associata che si esprime in questi termini: non per chiedere di discutere questo o quell’aspetto della riforma della giustizia, non per dialogare sui temi in discussione in Parlamento, ma per gettare nel totale discredito l’interlocutore politico con cui pure dovrebbe intrattenere rapporti certo anche ruvidi, se necessario, ma pur sempre di reciproco rispetto.

E invece non c’è una sola parola nell’intervista che lasci pensare che per Davigo la politica italiana sia altra cosa che un grande latrocinio. Così peraltro pensava sant’Agostino dei regni e degli Stati. Ma appunto era un santo a pensarlo, uno che cioè prendeva a metro e misura degli uomini la giustizia di Dio. È possibile accettare che il Presidente dell’Anm nutra la stessa, santa intolleranza?

È questa la cultura giuridica liberale di cui ha bisogno il Paese? Oppure ha davvero ragione Davigo, e allora non si tratta di processi o di garanzie, ma di riattivare il mito fondativo di Mani Pulite, per resettare daccapo la classe politica del Paese? Dalla crisi della politica deve dunque venire la santa Repubblica dei giudici, con i Cinquestelle che, entusiasti delle parole del magistrato, si candidano fin d’ora a guardiani della rivoluzione? C’è di che aver paura. E bisognerà avere pure il coraggio di avere paura, quando qualcuno vi dirà beffardo che hanno paura solo i corrotti.

(Il Mattino, 23 aprile 2016)

La misura della verità

Acquisizione a schermo intero 09022016 205923.bmpChi vede il corpo di un ragazzo torturato e ucciso avverte non solo il dolore enorme e lo strazio, ma anche un’altra esigenza lancinante: vuole verità. Verità: costi quel che costi. Dopo il ritrovamento del corpo di Giulio Regeni, che reca i segni delle violenze subite, le autorità italiane chiedono in queste ore che sia fatta piena luce sull’assassinio, e usano parole ferme e nette. Ma sanno anche quali profonde relazioni l’Occidente, e l’Italia in particolare, intrattiene con l’Egitto del generale Al-Sisi. Relazioni economiche, politiche, geostrategiche. Perciò è difficile sottrarsi alla domanda più scomoda, la più scabrosa: quanta verità siamo in grado di sopportare? Vogliamo davvero tutta la verità, e soltanto la verità? Non siamo disposti a scendere a patti con nessuno: non per  il petrolio egiziano né per la pace a Tripoli?

No, non siamo disposti. E non c’è motivo di avere dubbi delle parole di nessuno. Ma la verità non è solo affare di parole. La verità non è una pellicola adesiva trasparente che si attacca o si stacca con facilità dalle nostre proposizioni, come il retro delle figurine dall’album delicato dei nostri pensieri. No: è molto di più. La verità si conficca e penetra nella carne degli uomini, nella forma della società, nella vita delle istituzioni. La verità, come del resto l’errore.

Quanto era vero, allora, che con la primavera araba anche l’altra sponda del Mediterraneo avrebbe finalmente conosciuto la democrazia? Quanto abbiamo creduto e fatto nostra quella storia? Abbiamo pensato che una folata di vento avrebbe fatto cadere uno dopo l’altro tutti i regimi autocratici, come un fragile castello  di carte. Ben presto, però, all’entusiasmo è seguita la delusione, quando sono tornati i militari, quando gli squarci di democrazia aperti dalle persone che a centinaia di migliaia occuparono piazza Tahrir, al Cairo, si sono purtroppo richiusi. È stato dunque un errore, ma non è vero che un errore, una volta corretto, non lascia alcuna traccia. Di tracce ne lascia, invece: nella difficoltà di riorientare giudizi e politiche. Di prendere le misure al nuovo potere che ha stabilizzato l’Egitto e di cui l’Occidente, dopo la sbandata di cinque anni fa e nel disordine in cui versa tutta l’area, non può fare a meno.

C’è Occidente, del resto, perché c’è un Oriente: volenti o nolenti, raccontando che cosa sono i musulmani, che cosa sono i palestinesi o che cos’è il Medioriente noi raccontiamo noi stessi. Cinque anni fa la solida e cinica realpolitik che ci permetteva di tenere come alleato Mubarak senza farci troppe domande sui suoi metodi è franata. In maniera certo precipitosa, inaspettata, affrettata: però è franata. Le cose non sono andate come speravamo, col risultato che una politica netta e chiara per quella regione del mondo non ce l’abbiamo più. O almeno: la dose di verità che siamo in grado di sopportare non è più lo stessa. A torto o a ragione. Non si torna mai al punto di prima. Non ci si scrolla mai veramente di dosso gli errori e le verità per le quali passiamo.

Così oggi nulla in apparenza è cambiato rispetto a qualche anno fa, e come sinceri democratici chiediamo tutta la verità. Sta infatti qui il discrimine fra regimi autocratici come quello di Al-Sisi e regimi democratici come il nostro. Solo i primi hanno la polizia non soltanto per proteggere, ma anche per spaventare. Solo i primi hanno assoluto bisogno di quei coni d’ombra, di quelle strade buie, di quegli scantinati deserti in cui poter sequestrare un uomo, un ficcanaso, un testimone scomodo o semplicemente uno che è capitato nel posto sbagliato al momento sbagliato. Sequestrarlo, e picchiarlo. Sequestrarlo, e torturarlo. Fino alla morte. E nel frattempo predisporre e dare alla luce la versione ufficiale, col mandato di occupare il più a lungo possibile la scena.

L’ambasciator italiano che ha raccontato le ore angosciose del ritrovamento, la visita all’obitorio, i gelidi colloqui con le autorità egiziane, non ha dato mostra di volersi accontentare, anzi. Con grande determinazione, e senza nemmeno usare modi troppo felpati, ha rappresentato lo sconcerto dell’Italia per l’assassinio di un nostro connazionale che ha tutte le sembianze di un delitto commissionato per motivi politici.

Ma la politica ha le sue ragioni che a volte la buona fede dell’opinione pubblica democratica non è detto sia forte abbastanza  per volerle conoscere, e magari cambiare. Sa allora chinarsi sui suoi morti, secondo la misura della verità che la pietà umana richiede, ma non più trarre da una morte orribile una qualche verità che guidi anche la sua politica. Non si usano i morti, si dice, ma non è vero: altrimenti non vi sarebbero tutti i monumenti che vediamo. Ma usarli è difficile, è la cosa più difficile del mondo. Piangerli è più facile, ci vuole meno forza e meno verità.

(Il Mattino, 07 febbraio 2016)

Papa e Apple, le fedi che parlano ai giovani

Parlando a Firenze, ieri Papa Francesco ha detto: «Mi piace una Chiesa italiana inquieta, sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati agli imperfetti». Parlando ieri a Milano, all’inaugurazione dell’anno accademico della Bocconi, Tim Cook, il numero uno della Apple, ha detto: «Siamo qui per lasciare il mondo migliore di come l’abbiamo trovato». E l’una e l’altra parola – la parola sull’imperfezione e quella sul perfezionamento – sono risuonate ricche di significato, ed eloquenti, cioè capaci di parlare davvero alla platea che ascoltava. Papa Francesco ha parlato di umiltà, di disinteresse, di beatitudine: i tratti di un messaggio che danno ancora senso, secondo il Pontefice, alla vita cristiana, e che recuperano il loro valore solo se la Chiesa – ha spiegato Francesco – fa opera di pulizia al suo interno. Tim Cook ha toccato le questioni ambientali – il cambiamento climatico, l’uso delle energie rinnovabili –, poi la lotta alle discriminazioni, infine il tema della privacy, cruciale per un’azienda come la Apple, che maneggia una mole impressionante di profili e dati personali. Sono temi che fanno, tutti insieme, il catalogo del nuovo millennio, come si potrebbe dire con qualche enfasi. Senza impegnare invece un millennio intero, sono sicuramente temi che si agitano nell’opinione pubblica, fra le nuove generazioni, in molti mondi in cui non arrivano più, o arrivano stanche e vuote di significato, le parole della politica.

È un fatto: queste parole provengono da fedi che ancora alimentano moltitudini di uomini, la fede religiosa e la fede tecnologica. Non stanno sullo stesso piano, non hanno lo stesso contenuto, ma sono vissute entrambe come fedi, nel senso almeno che riscuotono fiducia, che si mantiene ancora la loro capacità di parlare del futuro dell’umanità. La fede nella politica e nella storia è invece molto più appannata, e anzi indietreggia sempre più. Cosa può cambiare il corso del mondo? Un tempo si sarebbe messo nel novero delle forze che fanno la storia anche la politica. Oggi, invece, pochi sono disposti a scommettere, o a investire sulla forza dei partiti politici e degli Stati nazionali (o delle comunità di Stati). E cosa può cambiare il cuore dell’uomo? Finite o quasi le grandi divise ideologiche, sembra che non rimanga altro che la fede religiosa in un qualche Dio trascendente.

È notevole peraltro che tanto il Papa di Roma quanto il capo dell’azienda di Cupertino mostrino di voler guardare a un «bene più alto» declinando anzitutto i temi della sostenibilità ambientale. Di nuovo: la conversione «verde» degli stili di vita, dei comportamenti individuali e collettivi, è avvertita come più urgente, e dunque come più vicina alle esigenze degli uomini di oggi, rispetto ai discorsi marcati da un forte contenuto sociale e politico. Il Papa ha pubblicato un’enciclica sull’ambiente che certo non trascura di parlare dell’ingiustizia o della povertà, ma che raggiunge con la forza della novità i fedeli quando parla della cura della casa comune, dell’inquinamento o dello spreco delle risorse ambientali. E Tim Cook, dal canto suo, pur realizzando con la sua azienda enormi profitti, riesce credibile ed entusiasma un pubblico giovanile quando si mostra preoccupato del futuro del pianeta. Come se, di nuovo, riserve di futuro fossero depositate solo nel grembo della Terra. E quindi non nelle città, non nei profani palazzi della politica, ma nei vecchi e nuovi templi della religione e della tecnologia.

Poco più di cent’anni fa, Friedrich Nietzsche scriveva che la fede nella verità, il fuoco accesso da Platone due millenni e mezzo orsono, si era ormai estinto, e che «l’ospite inquietante» dei secoli avvenire sarebbe stato il nichilismo. Questa diagnosi non è affatto estranea al nostro tempo. Se il filosofo diceva che nichilismo significa che manca la risposta al perché, manca il senso, non vuol dire però che non cresca, proprio su questa mancanza di senso, una impellente necessità di credere. Ad alimentarla non è più il progetto dispiegatosi con la modernità – fatto di diritti, libertà, emancipazione, uguaglianza – ma un altro impasto, legato contemporaneamente alla madre natura e a Dio Padre. Quel che una volta c’era di mezzo – il tempo della storia – prosegue con molto affanno, forse in attesa di rimettersi in moto sotto l’urto di altre potenze che solo ora si affacciano, o forse tornano ad affacciarsi, sulla scena del mondo. Ma prima  che questo accada, leader spirituali rimangono il Pontefice della Chiesa di Roma e il leader del marchio più carismatico in circolazione. Si può dire magari, con qualche cinismo che, lo vogliano o no, uno riempie di spiritualità la realtà del capitalismo, l’altra finisce col nascondere sotto lo spirito, un buon numero di affari. Però funzionano, mentre tutto il resto stenta parecchio a funzionare.

(Il Mattino, 11 novembre 2015)

Se la politica resta appesa ai tribunali

downloadLa legge Severino ha superato il vaglio della Corte costituzionale. Non è ancora finita, perché pendono altri ricorsi, ma la questione sollevata dal Tar Campania – la prima ad essere giudicata dalla Corte – è stata rigettata. Come si ricorderà, il ricorso del sindaco di Napoli De Magistris si fondava sull’applicazione retroattiva della norma, ma la Corte, ha respinto il ricorso, negando il carattere penale della misura di sospensione applicata al sindaco. Se non si tratta di una legge penale e di una misura afflittiva, non è incostituzionale l’irretroattività. Per De Magistris non cambia però quasi nulla: lo aspetta infatti un’assoluzione o una prescrizione. Nell’uno e nell’altro caso, sarà superata la condanna in primo grado già inflittagli, e così non scatterà alcuna sospensione. Ma la decisione della Corte mette in qualche allarme il governatore della Regione, Vincenzo De Luca.

Anche De Luca ha infatti una condanna in primo grado, per abuso d’ufficio, e anche lui è stato sospeso, salvo poi la sospensione essere stata a sua volta sospesa dal Tribunale di Napoli, con ricorso alla Suprema Corte. Il ricorso di De Luca ha tre frecce al suo arco: con la sentenza di ieri, la prima freccia non è andata a bersaglio. Restano altre due. Resta anzitutto il motivo della diversità di trattamento che la legge Severino prevede per i parlamentari (per la cui decadenza dalle Camere ci vuole una condanna definitiva) e per gli amministratori locali (colpiti da sospensione anche in caso di sentenza di colpevolezza di primo grado: che è il caso appunto di De Luca). Resta poi la questione dell’eccesso di delega. il governo – è la tesi degli avvocati di De Luca – aggiunse nella legge, tra i reati che portano alla sospensione, anche l’abuso d’ufficio (che è di nuovo il caso di De Luca), andando oltre quanto previsto nella delega del Parlamento.

Difficile fare previsione sul futuro pronunciamento della Corte, e proprio questa difficoltà è il principale problema che attende la Campania nelle prossime settimane, o mesi. È chiaro infatti che la vicenda regionale cambierebbe profondamente, qualora De Luca fosse di nuovo sospeso, e gli effetti politici andrebbero probabilmente anche più in là di quelli meramente amministrativi. Ma fin d’ora questa incertezza si trasmette, lo si voglia o no, sul governo della Regione. Nel corso della campagna elettorale, De Luca fu molto netto nel presentare le sue ragioni e, insieme, i torti della legge e del legislatore nazionale. Non poteva fare diversamente: ne andava del voto, e nessuna ombra doveva allungarsi sulla pienezza del suo futuro governo. Oggi però non si può essere altrettanto netti: la sentenza spunta almeno una delle frecce all’arco del governatore.

E ributta la palla nel campo della politica, dove i giocatori non riescono a giocare la partita, sciogliendo davvero i nodi che la riguardano. La legge Severino è infatti stata introdotta per irrobustire l’argine contro la cattiva politica: un argine che dovrebbe essere costruito anzitutto da quegli stessi organismi politici, i partiti, che sono responsabili della selezione delle candidature e della qualità della classe dirigente.

E invece si vuole che i casi della politica siano regolati azionando di volta in volta i giudici di questo o quel tribunale, di questa o quella Corte. Se fra qualche mese la Campania dovesse precipitare in una sorta di limbo amministrativo, con la sospensione del suo governatore, questa volta non sarebbe però – è bene dirlo con chiarezza – per un’invasione di campo della magistratura, o per l’ennesimo conflitto fra le toghe e i politici (che pure in questi anni non ci siamo fatti mancare), ma per avere la politica cercato di assicurare il decoro delle istituzioni solo con il puntello della legge, dove dovrebbe invece bastare la capacità di selezionare con serietà e rigore i propri rappresentanti.

De Luca ha sempre protestato che, nel suo caso, rischia di finire sotto la tagliola della legge per un «reato linguistico»: tale sarebbe l’abuso che gli viene contestato. Ora, importa poco se sia davvero così (importerà, e come, in tribunale); quel che però di sicuro conta, è che la politica non si può neppure permettere di soppesare la circostanza. E non può non perché non possa entrare nel merito di una vicenda giudiziaria, ma perché non ha la credibilità per farlo. Ce ne sono ancora troppi, di episodi di corruzione e di malaffare, perché si possa derubricare a inezia questa o quella vicenda. Così si rimane appesi a una legge: a volte a un avviso di garanzia, altre volte a una condanna non definitiva. A volte a gravi episodi corruttivi, altre volte a vicende bagatellari, in un caso e nell’altro senza avere la forza di rivendicare alcunché, ma sempre solo quella di demandare ad altri il compito di togliere le castagne del fuoco. Col risultato che le stesse decisioni della magistratura diventano una parte del gioco politico, del calcolo delle azioni e delle reazioni, tra astratti furori moralistici e sordide lotte di potere, in una spirale che si sarebbe dovuta arrestare all’alba della seconda Repubblica, e che invece c’è il rischio di portarsi dietro pure nella terza.

(Il Mattino, 21 ottobre 2015)

Il disastro è finito, ma il futuro è un’incognita

37479-AMBRA-DEFLe dimissioni di Ignazio Marino mettono la parola fine ad una vicenda che sfiorava ormai i limiti del grottesco, o meglio: li superava abbondantemente. Dopo la Panda in zone a traffico limitato, i viaggi negli States nei momenti e per le ragioni meno indicate, la resa dei conti per Marino è arrivata con gli scontrini, la vera cifra derisoria di questa seconda Repubblica: inezie, a confronto di qualunque altro episodio di malaffare che sia finito in questi mesi sui giornali, ma inezie gestite nel peggiore dei modi possibili. Che si tratti comunque di un disastro politico è fuor di dubbio, e per il partito democratico sarà dura circoscriverlo nei termini di una vicenda personale, che coinvolga solo ed esclusivamente la persona del sindaco. Il risultato, in ogni caso, è diverso da quello che si immaginava anche solo poche settimane fa: ad andare al voto, nella primavera del prossimo anno, saranno le tre principali città italiane, Roma, Milano, Napoli (insieme ad altri capoluoghi minori). Il turno amministrativo si colorerà così, inevitabilmente, di un significato politico. Con una complicazione fino a non molto tempo fa imprevista: in nessuna di queste città il Pd partirà con i favori del pronostico. E in nessuna ha già un candidato in pectore. La storia non si fa con i «se», ma formularne qualcuno può servire a vedere da quali spiagge il PD si è allontanato, senza avere  alcun porto sicuro in cui approdare.

E dunque: se Giuliano Pisapia, a Milano, avesse scelto di ricandidarsi, per la Lega e Forza Italia sarebbe oggi molto più dura;se, a Napoli, il PD avesse usato questi anni di opposizione a De Magistris per costruire un progetto politico chiaro, oggi non faticherebbe così tanto a trovare un candidato, e non dovrebbe tornare a Bassolino per essere competitivo; se, infine, a Roma, Marino non avesse dato una così straordinaria prova di dilettantismo, senza riuscire a portare risultati immediatamente tangibili sul piano dell’amministrazione, forse avrebbe potuto volgere in positivo la sua conclamata distanza dalla città. E invece: Pisapia non si ricandida, a Napoli non si sa a che santo votarsi, e pure a Roma, con le precipitose dimissioni di Marino, adesso si rischia di brutto.

Difficile capire come il PD si tirerà fuori da una simile situazione: di sicuro a Renzi non basterà starsene a Palazzo Chigi per non avvertire i contraccolpi del voto di primavera. Ma, su un altro piano, è impressionante constatare la distanza che separa questa stagione da quella dei primi anni Novanta, quando i sindaci costruirono non il fronte più problematico, bensì quello più avanzato del rinnovamento della politica nazionale. Oggi si torna a parlare di Bassolino, a Roma qualcuno fa il nome di Veltroni o di Rutelli, e a Milano questo non succede solo perché dopo i fasti socialisti la città non è mai andata al centrosinistra. In breve: trascorsi vent’anni, il valore che le esperienze municipali riescono ad assumere sembra essere di tutt’altro segno. A Napoli, una democrazia confusa, mescolata a istanze di partecipazione e a velleità antagoniste a volte generose, altre volte e più spessoinconcludenti, lontane da ipotesi concrete di rilancio della città. A Roma, una democrazia incapace, impotente, imbelle, con un unico vessillo in piedi, quello morale, prima che finisse nel ridicolo pure quello; a Milano la democrazia incompiuta, che mostra una certa stanchezza di sé e delle sue stesse ambizioni, quasi che la politica non fosse più il teatro sul quale valesse la pena misurarsi. Tutte e tre le esperienze specchio delle città che in esse esprimono: a Napoli, una borghesia storicamente impreparata ad assumersi un ruolo dirigente; a Roma, un involgarimento dei costumi civili contro cui è franato miseramente l’argine che l’amministrazione capitolina aveva creduto di poter costruire; a Milano una società civile che sembra sempre più attratta da dinamiche internazionali e globali, e sempre meno preoccupata della dimensione municipale e dei suoi riflessi possibili in sede nazionale. In tutti i casi, segnali di scollamento che non possono non preoccupare, e sui quali – siamo al dunque – le risposte possibili sono due: o il grillismo come epilogo conseguente di questa stagione di libera improvvisazione e drastico azzeramento della politica,oppure il suo riscatto, la sua rivalutazione, la sua ripresa, in termini non solo di progetto, ma anche di uomini, di forze e di competenze specifiche. Con risorse che, però, bisogna confessare amaramente, nelle file dei partiti ancora non si riescono a vedere.

(Il Mattino, 9 ottobre 2015)

Quella sinistra che non cambia

Acquisizione a schermo intero 31072015 143211.bmpAnticipazioni del Rapporto Svimez 2015. Capitolo 3: «il Mezzogiorno alla deriva». Seguono, nei capitoli successivi, le parole: crollo, crisi, divario, caduta, allarme. Seguono, soprattutto, numeri catastrofici: settimo anno consecutivo di diminuzione del PIL, che nel Sud è il 53% di quello del Nord, diminuzione dei consumi del 13% in sei anni, nascite ai minimi storici, una persona su tre a rischio povertà, solo un giovane su quattro con un lavoro.

Ora, lasciamo perdere i dettagli: come si prende una fotografia del genere? Che tipo di discussione deve suscitare nel Paese? Che genere di risposta bisogna aspettarsi dalla politica? Riesce difficile, infatti, evitare formule che si ripetono sempre uguali, modalità che il discorso pubblico conosce e macina stancamente, anno dopo anno, rapporto dopo rapporto. Del resto, non aveva detto lo Svimez, lo scorso anno, che il Sud sta conoscendo un fenomeno di progressiva desertificazione umana e industriale? Lo aveva già detto, e non fa che ribadirlo: è il deserto che avanza.

Ma in mezzo a questo deserto non bisogna nascondersi quel che effettivamente è cambiato, cioè il quadro politico. Dopo le elezioni regionali, e per la prima volta, il partito democratico governa il Paese in lungo e in largo: a livello centrale e a livello periferico, al Nord e al Sud, nelle regione e nelle città. Difficile dunque che possa sottrarsi alle responsabilità che è chiamato ad assumersi. Difficile fare il gioco del cerino acceso da lasciare in mano a Roma oppure a Napoli, a seconda delle necessità. Nel rapporto Svimez si legge ad esempio (ma non è un esempio tra gli altri) che la spesa in conto capitale della pubblica amministrazione è calata negli ultimi anni in tutto il Paese, ma il calo è particolarmente accentuato nel Mezzogiorno, che è dunque maggiormente penalizzato dal rigore dei conti pubblici: «in termini assoluti, la diminuzione del livello della spesa nel Mezzogiorno è stata di 9,9 miliardi di euro (da 25,7 miliardi del 2001 a 15,8 miliardi)». Questo dato non può non essere ricondotto ad una scelta politica: è la scelta giusta? È questa la via attraverso la quale si ritiene che il Sud potrà ricostruire la sua economia? È la via che il governo intende percorrere anche nei prossimi anni? C’è nel Pd una voce meridionalista che sia in grado di porre, a partire da questi numeri  la questione delle politiche verso il Mezzogiorno? Se si amplia lo sguardo, si trova – è ancora il rapporto a confermarlo – che la crisi ha colpito più intensamente le zone deboli dell’area euro. Di nuovo: non per una triste fatalità naturale, ma per il tipo di governance economica che l’Unione europea ha imposto ai Paesi membri, e per le asimmetrie introdotte e accentuate dalla moneta unica e dall’allargamento a est: che si fa? Si prosegue lungo la stessa rotta? Si sposa la linea di Samuel Beckett: «ho sempre tentato, ho sempre fallito. Non discutere. Fallisci ancora. Fallisci meglio»? Forse però, prima di farlo, varrebbe la pena di ricordare che Beckett era il campione dell’assurdo. Che va bene a teatro, un po’ meno in politica.

Ma a proposito di assurdo: non lo è abbastanza la guerra strisciante che la minoranza del Pd conduce per logorare Renzi, per condizionare il governo? Ieri la maggioranza è andata sotto sulla questione del canone, ed è sembrato proprio che più nessuna solidarietà di partito trattenesse un nutrito gruppo di senatori piddini, interessati a dimostrare che il Senato della Repubblica sono ancora le forche caudine per le quali deve passare il premier, qualunque sia il tipo di sostegno che il nuovo gruppo di Verdini darà alla maggioranza sulle riforme costituzionali.

Questo è il punto: un punto puramente tattico, di posizionamento, la resistenza sorda contro il pericolo di marginalità politica a cui la minoranza del Pd sarebbe costretta se le riforme di Renzi passassero.

Ma questo Pd impegnato in una guerriglia interna – a bassa intensità ma a forte potere di interdizione – può reggere una sfida che fa tremare le vene e i polsi, come quella che il rapporto Svimez consegna? Si può continuare con schermaglie sfibranti, mentre metà del paese precipita in uno scenario «greco»? E non corre la sinistra il rischio di replicare una storia che ha già conosciuto con Romano Prodi, quando pure governare si poteva solo in mezzo alle resistenze di chi, dall’interno stesso della maggioranza, remava contro? La sinistra corre questo rischio: ma Renzi intende davvero correrlo? Fino a quando potrà permetterselo?

(Il Mattino, 31 luglio 2015)

Dei molti Giuda

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Chi tra gli uomini politici avrà «la maggior pena»? Chi penzolerà con le gambe da fuori, mentre Lucifero gli maciulla la testa? Perché questa è la sorte dei traditori, nell’ultimo canto dell’inferno dantesco. E quando hai visto Satana divorare Giuda Iscariota, e Bruto e Cassio che penzolano e si contorcono muti, «oramai è da partir/ ché tutto avem veduto»: dice bene Dante, hai davvero veduto tutto.

Solo che i tradimenti politici dei nostri giorni non sembrano avere lo stesso, grande formato. Buonaiuti che lascia Berlusconi dopo una vita vissuta accanto a lui non sembra destinato ad alcuna pena infernale, ma solo ad un’ultima, malinconica stagione nel nuovo centrodestra. Cioè nel partito di Alfano, l’ex delfino che a Berlusconi ha pure lui voltato le spalle, rifiutandosi di passare all’opposizione, con Forza Italia, per tenere in piedi il governo Letta. Che però è caduto lo stesso, anche grazie al rapido passaggio di campo di Dario Franceschini: da Bersani a Renzi. Sembra la fiera dell’est di Branduardi: e venne il cane che morse il gatto che si mangiò il topo, che al mercato mio padre comprò.

Ma chi compra chi? E chi si fa comprare? Chi tradisce per trenta denari? Quando il collante ideologico e culturale è bello che consumato, ci si orienta in base a più ravvicinate e tangibili convenienze, e ad ogni legislatura si fa il conto dei parlamentari che hanno cambiato formazione politica, gruppo, corrente di partito. E sono, badate bene, numeri a tre cifre. Il trasformismo, è vero, è sempre stato un fenomeno della vita politica italiana, dai tempi del connubio Cavour-Rattazzi, quando l’Italia non c’era nemmeno. Ma si è trattato spesso non di semplici voltafaccia, bensì di operazioni politiche condotte in grande stile, o di assunzioni di responsabilità decisive. A volte persino tragiche. Tradimento è anche quello di Galeazzo Ciano che vota l’ordine del giorno Grandi il 25 luglio 1943, segnando la caduta di Mussolini. Ma di mezzo c’è il Paese, la guerra, la fine del fascismo: ben più di una bega familiare, di una schermaglia parlamentare o di un brutale interesse individuale. Nella tremenda lettera indirizzata l’8 aprile 1978 alla moglie Aldo Moro, sentendosi umanamente prima che politicamente tradito, scrive dalla prigionia: «non posso non sottolineare la cattiveria di tutti i democristiani […]. E Zaccagnini? Come può rimanere tranquillo al suo posto? E Cossiga che non ha saputo immaginare nessuna difesa? Il mio sangue ricadrà su di loro».  Ma si trattava di accettare, per salvare Moro, la richiesta di uno scambio di prigionieri politici che comportava un riconoscimento politico per le Brigate Rosse, molto più di quanto forse uno Stato democratico può fare.

Nulla del genere, nulla di così grande e terribile c’è invece nel ’94, con la fine del primo governo Berlusconi e il passaggio di Lamberto Dini dal centrodestra al centrosinistra, o qualche anno più tardi, sull’altro verante, nell’affondamento del primo governo Prodi da parte dell’alleato Bertinotti e di Rifondazione comunista, nel ‘98. Ancor meno c’è di grande nei tradimenti alla chetichella degli ineffabili Razzi e Scilipoti, o nel voltafaccia prezzolato di Sergio De Gregorio: è anzi perfino sacrilego l’accostamento. Tutte queste vicende non stanno dunque sullo stesso piano, non hanno lo stesso peso, e non a tutte si attaglia la categoria del tradimento. Anche per questo si dice che il tradimento con la politica non c’entra proprio nulla: c’entra magari con l’amore e con l’amicizia, ma non nei rapporti politici.

Eppure trattando di amicizia nel libro ottavo della sua «Etica a Nicomaco» Aristotele, cioè il fondatore della scienza politica occidentale, ha pensato bene di non separare del tutto gli ambiti dell’amicizia e della giustizia, cioè della politica. C’è almeno una buona ragione per non farlo: nell’amicizia vive una qualche forma di accomunamento e di riconoscimento reciproco, di cui anche la politica ha bisogno, per non ridursi a pura lotta per il potere. Qualcosa è in comune tra fratelli, qualcosa è in comune tra amici, qualcosa è in comune tra cittadini: e il tradimento spezza ciò che è in comune. Si naviga insieme – è l’esempio del filosofo – alla volta di un qualche vantaggio collettivo. Lasciare la nave per salvare la pelle può essere l’idea di un comandante Schettino, ma non di un rappresentante della nazione.

Soprattutto se non ha il coraggio di rivendicarlo. Perché sferrare la coltellata nel petto di Cesare si può, se sono più alti ideali a brandire la mano del tirannicida, anche se si tratta del figlio. Ma se mancano non solo gli ideali, ma anche una visione della società, o almeno un disegno politico di più ampio respiro (una rotta per la nave comune), tutto si risolve in ambizione personale, o peggio in un poco nobile «si salvi chi può».

E così chi si sente tradito non accetta facilmente il tradimento, nemmeno se gliela si propone come la dura legge della politica, che non conosce fedeltà, gratitudine, riconoscimento. Sul delfino Martelli che nel pieno della tempesta di Tangentopoli abbandona Craxi al suo destino fioccano ancora le ricostruzioni, e non tutte sono ispirati ad una serena ricostruzione storiografica. Anche la maniera in cui Achille Occhetto prende il posto di Alessandro Natta, colpito da infarto, e diviene segretario del PCI (una carica che era stata, nel dopoguerra, di personaggi mitici come Togliatti Longo e Berlinguer) non brilla per eleganza: Natta, che si era dannato per portarlo nel comitato centrale del partito, torna a fare il semplice frate, come scrisse, ma al successore non l’ha mai perdonata.

Gli esempi, insomma si sprecano. E non mancano di inseguirsi nelle cronache dei giornali. Fini che punta il dito contro Berlusconi («che fai, mi cacci?»), Maroni che molla Bossi e famiglia, quelli di Scelta Civica che provano a sfilare il partito a Mario Monti, Renzi che scrive a Letta «stai sereno» una settimana prima di soffiargli Palazzo Chigi. E ovunque cambi di casacca, riposizionamenti, amicizie in frantumi e matrimoni di interesse. È la politica, bellezza. Già, ma proprio bella così non è. E nemmeno, in verità, come la fa Grillo, che ossessionato dai tradimenti li anticipa con le espulsioni: ma un po’ di sana lotta politica, di minoranze e maggioranze che si formano e si scontrano a viso aperto, quella no?

(Il Mattino, 25 aprile 2014, col titolo Bondi e l’Italia dei nuovi Giuda)

Razzismo: il calcio squalifica, la politica no

Immagine«Quando vedo l’immagine di Caleb Ansah Ekuban non posso non pensare alle sembianze di un orango»: purtroppo le immagini non consentono di leggere il labiale, e quindi non sappiamo se davvero il giocatore del Matera Gaetano Iannini, nel corso dell’incontro che opponeva la formazione lucana alla squadra del Sudtirol, abbia davvero pronunciato quelle parole. Sta di fatto che il referto dell’arbitro, sulla base del quale Iannini è stato condannato a dieci giornate di squalifica, parla di «epiteto insultante espressivo di discriminazione razziale». Com’è noto, secondo il vicepresidente del Senato Roberto Calderoli, se le parole di Iannini fossero quelle che abbiamo ipotizzato, non costituirebbero offesa: lui infatti le ha già impiegate all’indirizzo del ministro dell’integrazione Cécile Kyenge, e nessun giudice, sportivo o no, si è permesso, al momento, di comminargli alcuna sanzione. Iannini salterà dieci incontri di calcio di fila, Calderoli invece non salterà nessuna seduta parlamentare. Poi dice che non ci vuole la riforma della giustizia.

Naturalmente, è possibile che Iannini non abbia avuto la squisita delicatezza di Calderoli, che da navigato politico ha saputo impiegare le giuste sfumature: un conto è parlare infatti di mere sembianze, un altro è scavalcarle in direzione della figura intera; un conto è dire papale papale che Tizio sembra un orango, un altro è affermare che il proprio pensiero corre irresistibilmente a raffigurarsi l’animale, magari persino contro la propria volontà. Sono differenze importanti, che, però, nella concitazione di una partita, in pieno furore agonistico, dopo che un giocatore di origine ghanese ti ha pure segnato un gol, non riesci a fare. Iannini ha così già pronta una robusta linea difensiva. Si scriva il ricorso! Se a ciò si aggiunge che non deve essere parso vero a un giocatore di origini napoletane di recarsi lassù, nel Sudtirolo, per imbattersi in qualcuno palesemente più meridionale di lui, si comprenderà bene come i dirigenti del Matera Calcio potranno facilmente accampare attenuanti di ogni tipo.

E in effetti hanno già provato a farlo: se il giocatore ha sbagliato pagherà, siamo pronti anzi a infliggergli una multa, come si fa in questi casi, però l’applicazione della nuova normativa è stata troppo severa, dieci giornate sono troppe, si tratta in fondo solo del primo caso da quando è entrata in vigore e i giocatori non sono ancora abituati a non usare espressioni di odio razziale, e così via. Nessuno ha ancora impiegato l’esimente Calderoli, ed è un peccato. Funzionerebbe così: possibile che Calderoli può insultare un ministro e cavarsela con qualche impacciata scusa telefonica e un giocatore di calcio di una serie minore, giunto ormai sulla soglia dei trent’anni, non può, in pieno «eretismo podistico» e sotto il sole di agosto, lasciarsi scappare una parolina di troppo? Quale delle due vicende vi sembra più grave?

In verità, non crediate, la risposta giusta è: sono gravi tutte e due. L’una non è meno grave dell’altra. Avere trent’anni o averne il doppio, essere giocatori o essere senatori (addirittura!) non cambia di una virgola la gravità del caso. Non so se lo si possa dire a maggior gloria dello sport o a maggior vergogna del Parlamento, per apprezzare in un caso l’applicazione della pena e nell’altro l’inosservanza di un minimo di decoro civile da parte di un suo membro autorevole, ma sta il fatto che l’inaccettabilità dell’insulto a sfondo razziale è e resta la medesima. E non ci si può fare l’abitudine, non si può graduare l’indignazione, perché troppi sono gli episodi, e troppo esteso ancora il pregiudizio discriminatorio. I cori razzisti si odono sia sui campi di periferia che nelle sfide di cartello tra grandi squadre, e le offese a sfondo razziale sporcano tanto la politica nazionale quanto quella locale. Ci si illude che i processi di civilizzazione, che l’educazione, che la legislazione, che la politica democratica depositino più di uno strato sottile sopra le passioni, gli usi e i costumi degli uomini, ma capita troppo spesso che quello strato si riveli invece soltanto una pellicola superficiale, e che sempre di nuovo si debba provare a ricostruirla. Per questo, in tempi in cui ci si vuole far dubitare che vi sia un giudice a Berlino, che ci sia un giudice almeno nella Federazione Gioco Calcio è una buona notizia. E un punto di partenza.

(Il Mattino, 8 agosto 2013)

Il forziere dei valori

Devo darvi una notizia buona e una cattiva. La notizia buona è che siete Picasso, Pablo Picasso, e ancor prima dell’età del giudizio siete arrivati in cima alla tradizione accademica: vostro padre vi ha messo matita e pennelli in mano, e voi non avete mai smesso di dipingere. Tutto quello che c’era da sperimentare del passato dell’arte è già stato da voi sperimentato, digerito, infine espulso.

La brutta notizia è che dinanzi a voi non è rimasta che un’alternativa, l’alternativa dinanzi alla quale ha finito col trovarsi l’arte europea ai nastri di partenza del secolo ventesimo. Anzi proprio nel 1900: quando, in agosto, muore dopo anni di malattia Friedrich Nietzsche, il filosofo del nichilismo («i valori supremi perdono ogni valore. Manca il fine. Manca la risposta alla domanda: perché?»), e in ottobre un baldanzoso giovanotto di Malaga arriva a Parigi: Picasso, per l’appunto.

Qual è l’alternativa? (continua qui)