La cultura non va difesa? Può darsi. Ma nemmeno attaccata, senza ulteriori specificazioni. Altrimenti saremmo ancora a quel tale, mi pare fosse Goebbels, al quale bastava sentire la parola cultura per mettere mano alla pistola. Simone Regazzoni – che ha fra l’altro all’attivo, in ordine cronologico, i seguenti libri: «La filosofia di Lost», «Harry Potter e la filosofia» e «Pornosofia» – non ne può più delle geremiadi sulla cultura da preservare, tutelare, promuovere, coltivare, cultura che è immancabilmente quella alta, d’autore, e soprattutto adatta a procurare piccole patenti di nobiltà al fruitore. Il quale visita intimidito la mostra d’arte contemporanea, sceglie il film autoriale, ascolta compunto il concerto di musica colta e si tranquillizza: magari non gli è piaciuto nulla, forse ci ha capito pochissimo, ma sa di avere fatto le scelte giuste, e pensa di riceverne in cambio l’adozione di un tono di distinzione intellettuale, da sfoggiare nelle serate con gli amici.
Diciamolo subito, Regazzoni ha ragione. Soprattutto nel risvolto politico di questo discorso. Perché rifugiarsi nella cultura con la C maiuscola, lasciando invece campo libero nella società a Berlusconi, con i suoi Drive In, le squadre di calcio e le barzellette, non è stata una buona mossa, e i risultati elettorali si sono visti. Di più: è stato il segno, come scrive Regazzoni, “dell’incapacità di una classe intellettuale di confrontarsi con lo spazio della cultura di massa”. Questa incapacità è per Regazzoni una malattia, di cui fornisce una diagnosi impietosa: pasolinismo, ovvero la “critica reazionaria della democrazia di massa, dei suoi media e della sua cultura”. Ed in effetti, Pasolini o non Pasolini, non sono pochi gli intellettuali che hanno pensato di doversi difendere dai tempi tristi e dai costumi volgari lamentando improbabili mutazioni antropologiche, criticando qualunque consumo di massa, e salendo infine sdegnosamente sopra un albero, pronti però a ridiscenderne in presenza di uno strapuntino più comodo e meglio retribuito.
Però Regazzoni ha anche torto, temo. In primo luogo, perché lascia intendere che il punto sia l’oggetto al quale si applica l’esercizio della professione intellettuale, e non invece il modo in cui lo si fa. Come se occuparsi dei film cecoslovacchi con sottotitoli in tedesco sia di per sé una cagata pazzesca, per dirla con Fantozzi, mentre fare della filosofia sui telefilm americani metta automaticamente in condizione di decifrare lo spirito del tempo. In secondo luogo, perché a volte sceglie male i suoi esempi. Come per esempio quando se la prende con il pubblico, che si scandalizza per l’invito al Festival di Filosofia (si apre a giorni) rivolto quest’anno a Fabio Volo, ma si entusiasma stridulo per gli analoghi inviti a Michela Marzano o a Vito Mancuso, i quali starebbero rispettivamente alla filosofia e alla teologia come Giovanni Allevi sta alla musica classica. Ora, può darsi che sia davvero così, che cioè nessuno dei tre campioni di incassi meriti maggiore considerazione intellettuale di Fabio Volo – ed effettivamente ci sono ottime ragioni per preferire quest’ultimo – ma dubito molto che tenere sotto mano l’ultimo libro di Michela Marzano (che ne ha sfornati ben cinque nel solo 2012), o il programmatico e altisonante «Io e Dio» di Vito Mancuso, procuri senso di superiorità intellettuale e conferma del proprio ruolo sociale. Al contrario, l’uno e l’altra sono prodotti proprio di quella cultura di massa con cui Regazzoni vuole che l’intellettuale italiano si riconcili, smettendo di inarcare le sopracciglia.
La differenza non la fanno dunque né gli oggetti (sublimi oppure triviali) e neppure i numeri (grandi o piccoli, elitari o popolari), ma gli effetti, ossia quel che si vuole fare, il mondo che si vuole costruire con gli uni o con gli altri. Così è sbagliato temere ogni sorta di contaminazione con i gusti popolari, e mettere transenne che non difendono più nulla, ma semmai allontanano e mummificano. Ma è sbagliato pure perdere ogni distanza critica, e farsi piacere tutto indistintamente solo perché popolare, di successo, e di immediata comprensibilità. È sbagliato, più in generale, generare conformismi: e questo può accadere tanto in alto quanto in basso, sia nei festival che nei cinema d’essai.
A Regazzoni piace, in definitiva, il gesto dissacrante di Duchamp, quello che mise i baffi alla Gioconda. Nessun timore reverenziale verso la cultura alta, vuol dire, e siamo d’accordo. Ma se non si può tenere il broncio ai propri tempi senza riportarne danno (e non prendere il becco di un voto), neanche si può tenere stampato in volto un sorriso idiota, qualunque cosa ci venga propinata.