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Berlusconi e le ciabatte

Manifesto del nuovo realismo, capitolo primo, paragrafo primo: “Dal postmoderno al populismo”. Che non si dica dunque che il nuovo realismo di Maurizio Ferraris, su cui si discute accanitamente da un anno, non abbia un robusto coté politico. Difatti la tesi è: a furia di ripetere con Lyotard che i grandi racconti sono finiti, che l’oggettività è un mito, che non esistono i fatti ma solo le interpretazioni, che la verità è violenta, che il sapere in realtà è un potere e che bisogna liberare il desiderio, a furia di cantilenare tutto ciò con Nietzsche o con Foucault, con Heidegger o con Deleuze, ci si è consegnati mani e piedi ai venditori di fumo, ai racconta frottole, agli imbonitori televisivi: a Berlusconi, insomma. Perché è chiaro che senza i fatti, privati del potenziale critico contenuto nell’idea minimale, di buon senso, che i fatti ci sono eccome e son essi che anzitutto vanno stabiliti o ristabiliti, diviene possibile far credere qualsiasi cosa, se solo si hanno i mezzi a disposizione. Se poi a disposizione c’è il principale gruppo editoriale del paese, se i mezzi sono soprattutto televisivi, se la storia che i fatti non ci sono si infiltra non solo nei talk show ma pure nei telegiornali, allora avete l’esempio perfetto di populismo mediatico. E di nuovo, quindi, Berlusconi.

Curioso argomento, quello con cui esordisce il nuovo realismo di Ferraris. Se i fatti ci sono, ci sono proprio perché non basterà ai filosofi antirealisti dire che non ci sono per farli scomparire: il nuovo realismo di Ferraris monta dunque una polemica inutile. E, d’altra parte, l’argomento che invita a valutare gli effetti nefasti dell’antirealismo postmoderno non è, esso stesso, un argomento realista, casomai pragmatista. Suona infatti così: siccome non ci piace Berlusconi come realizzazione del postmoderno (o addirittura del Sessantotto, che è la tesi di Mario Perniola e Valerio Magrelli, roba che uno vorrebbe ritornare ai mutandoni delle nonne, pur di non vedersi accusato di spalleggiare ideologicamente i bunga bunga del Cavaliere), siccome tutto questo non ci piace, allora lo respingiamo, lo rifiutiamo, e tanti saluti all’accertamento della realtà e allo stabilimento della verità.

Un momento, però. Per Ferraris, i fatti che sono al riparo dalle interpretazioni non sono né il populismo mediatico né gli intrattenimenti di Arcore, non il Sessantotto e neppure le interpretazioni revisioniste che se ne danno, ma i fiumi, i cacciaviti, le ciabatte. Proprio così: si tratta di quegli oggetti di taglia media che popolano il nostro mondo, di cui abbiamo quotidiana esperienza, e la cui realtà sarebbe stata messa in discussione dalla furia interpretativa dei filosofi postmoderni. Sia pure. Ma il passo dalle ciabatte alla vittoria elettorale del ’94 e alla seconda Repubblica è parecchio lungo, ed è difficile percorrerlo affilando le armi critiche solo su ciabatte e cacciaviti. Poniamo infatti per un momento che vi sia un accordo universale tra gli uomini (e soprattutto tra i filosofi), quanto al fatto che le ciabatte sono ciabatte e i cacciaviti cacciaviti: avremo fatto un passo avanti nella critica del berlusconismo? Ci saremo sbarazzati di colpo del populismo mediatico? Temo di no. Temo che mancheremo ancora di tutte le categorie sociali, storiche e politiche necessarie.

Non basta: temo che avremo compiuto nuovamente l’errore di pensare che il berlusconismo si spiega con le televisioni (quando se mai è vero il contrario) e, ironia della sorte, temo anche che avremo travisato i fatti stessi. Ricordate infatti la signorina Ruby Rubacuori, la nipote di Mubarak secondo il Parlamento italiano? Quale miglior riprova, si dirà, della tesi di Ferraris (e di Travaglio) che una volta scomparsi i fatti si può decidere a maggioranza qualunque cosa? In realtà, la vicenda dimostra esattamente il contrario: Berlusconi non si è mai difeso dicendo che siccome non esistono i fatti ma solo le interpretazioni, allora lasciatemi dire che la ragazza marocchina secondo me – e secondo i miei zelanti parlamentari – è egiziana. Nulla di tutto ciò: Berlusconi ha proprio sostenuto, alla lettera, che Ruby è egiziana (e nipote del Raís). Il senso di cosa mai sia reale, e di come le interpretazioni lo modifichino, non c’entra proprio nulla. Proprio come Ferraris sostiene che la ciabatta è una ciabatta, così Berlusconi ha sostenuto che Ruby è egiziana – salvo che il primo dice il vero e il secondo no (a quanto risulta). Ma cosa c’entrano le interpretazioni? Berlusconi nega i fatti, non che i fatti siano fatti. Non credo si possa ricordare un solo caso in cui Berlusconi si sia accontentato di dire che dava la sua interpretazione di questo o di quello: no, lui dava numeri, macinava record, e soprattutto sosteneva che erano sempre gli altri a fraintendere e male interpretare.

Scagionato così il postmodernismo dalla colpa di averci regalato il Cavaliere per aver negato che esistano i fatti, forse potremmo tornare a ragionare di ciabatte. Le quali restano tali, assicura Ferraris, indipendentemente dai nostri sguardi e dalle nostre interpretazioni. Sia pure: concederemo anche questo. Ma come sguardi e interpretazioni si aggancino ai fatti, questo casomai è il problema della filosofia: come la realtà ci appare, e non solo che le ciabatte sono ciabatte e la realtà è reale (qualunque cosa significhi una simile tautologia). E siccome la realtà non cessa di apparirci sempre nuovamente, abbiamo davvero bisogno di un’ontologia: ma per questa incessante manifestazione del reale, non solo per le ciabatte, il cui caso possiamo forse dare per risolto.

L’Unità, 17/06/2012

Il predicatore che caccia i devoti dal tempio della tv

Due sono le caratteristiche fondamentali della retorica populista, l’anti-intellettualimo e la personalizzazione, e Adriano Celentano, buon per lui, le incarna tutte e due. Hegel diceva che ogni cosa è un sillogismo, ed ecco infatti il sillogismo dell’altra sera: Adriano Celentano è la televisione, la televisione è anti-intellettualistica e personalizzante. Adriano Celentano è il campione dell’anti-intellettualismo e della personalizzazione. Appunto.

In conferenza stampa, il direttore artistico del Festival ha dichiarato che la performance del re degli ignoranti è stata “il massimo che potesse aspettarsi”: Celentano ha saputo riassumere l’intero suo percorso artistico (riassumere mica tanto: c’è voluta una buona oretta); ha saputo dire qualcosa che fa discutere (l’importante è infatti discutere, non importa di cosa), e lo ha fatto in un discorso articolato. L’articolazione, non stupitevi, è consistita nel contraddittorio messo in scena con Pupo. Visto il botto dei dati auditel, c’è poco da obiettare. Piuttosto, citiamo ancora Hegel – con grande faciloneria, si capisce, come conviene fare quando è Pupo a impersonare la voce critica: ciò che è reale è razionale, ciò che è razionale è reale. Ovvero: chi vince ha sempre ragione. Mazzi e Morandi vincono, Celentano vince: c’è dunque una logica in questa vittoria, ed è quella del sillogismo di prima, la logica della ragione populista. Che in salsa televisiva consiste sempre, ha spiegato Taguieff, “nel fare eco al desiderio di rompere con il sistema politico costituito, le élite politiche tradizionali o il gioco classico dei partiti”, solo che di nuovo ha il fatto che “trae l’essenziale della sua efficacia simbolica dalla risorse proprie dello spazio mediatico e dalla capacità telegenica del leader”. La descrizione si attaglia benissimo al vecchietto della via Gluck: mettete la Chiesa di Roma al posto del sistema politico, la “casta” dei preti al posto delle élite politiche e, invece dei partiti sporchi e cattivi, stampa e associazionismo cattolico: il gioco è fatto. D’altra parte, non è mica la prima volta che si scopre questa perfetta omologia fra politica e televisione. (E d’altra parte ancora: non è mica sicuro che l’antidoto al populismo sia la recente sobrietà tecnocratica: questa anzi sembra il rovescio speculare di quella, e forse terrà il campo almeno finché quella non sarà riassorbita).

A questo punto, però, Pupo, o chi per lui, potrebbe avere qualcosa da obiettare. E cioè: ma l’insofferenza verso classi dirigenti ed élite non l’aveva pure un certo Gesù? Non era lui che se la prendeva con scribi e farisei? Che dire della beata semplicità, del lasciate che i bambini vengano a me, della fede che è scandalo e stoltezza per pagani e giudei? Celentano queste cose volete che non le sappia? Fanno parte della sua personale Imitatio Christi, dal tempo del film «Joan lui» ad oggi. E se a Gesù andò male, è certo che anche Celentano saprà accettare le critiche come la croce che gli tocca di portare.

Poi però uno si ricorda la madre di tutte le scene populiste (si fa per dire): Gesù che caccia i mercanti dal tempio. E pensa: ma come è potuto accadere questo singolare rovesciamento, per cui prima si cacciavano dalla casa del Signore coloro i quali ne facevano mercato, mentre adesso, tutt’al contrario, si invoca la cacciata dei preti o la chiusura di Avvenire e Famiglia cristiana dal tempio della canzonetta, cioè dal cuore del mercato discografico e televisivo? Eh, già: perché il populismo ha un’altra caratteristica ancora: a parlare contro il potere è sempre uno che il potere ce l’ha. Politico, finanziario o televisivo poco importa, ma state sicuri che ce l’ha. E non lo molla facilmente.

L’Unità, 16 febbraio 2012