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Intellettuali folgorati dai populisti

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Lo scollamento fra il sistema politico e il Paese sta tutto in un numero, che campeggiava ieri sulla prima pagina del Corriere della Sera, in cima all’editoriale di Galli della Loggia. Il 58% degli italiani non si riconosce nei partiti che hanno governato il Paese durante tutto il corso della seconda Repubblica, di destra o di sinistra che fossero. Ora, quel numero è falso. O perlomeno: è frutto di una somma, di per sé discutibile, fra il tasso di affluenza previsto (non si sa da chi) alle elezioni politiche del prossimo anno, e le dimensioni del voto per i Cinquestelle (la cui stima viene affidata ai sondaggi, abbondantemente arrotondati per eccesso). Ci sono, in vero, modi intellettualmente molto più limpidi di schierare un giornale.

Ma non è ovviamente dei numeri e delle percentuali che vale la pena discutere, quanto piuttosto del ragionamento in cui vengono inseriti. Che è grosso modo il seguente: metà del Paese non ne può più di una classe dirigente sempre uguale a se stessa; il Movimento Cinquestelle non è un movimento eversivo, perché non usa le armi; dunque non c’è motivo – oppure: la classe politica italiana non offre alcun motivo – per non votare i Cinquestelle.

Se questo ragionamento è corretto, allora vuol dire che il Corriere della Sera, per mano di uno delle sue firme più prestigiose, non troverebbe molto da obiettare, e nulla da temere, da un voto che equivalesse semplicemente a un rifiuto, a una espressione di insofferenza, a un moto di rigetto. Come il protagonista del film “Quinto potere”, il commentatore televisivo Howard Beale, si tratta semplicemente di gridare a pieni polmoni: «Sono incazzato nero e tutto questo non lo accetterò più». In una maniera che ricorda per la verità altri tempi e altri regimi, Galli trova che l’unica cosa che resta da fare ai politici (a quelli che ci sono stati finora), è un atto di contrizione: fare pubblica ammenda, confessare i propri sbagli, e poi togliersi rapidamente di mezzo. E questo vale per tutti, senza distinzioni di sorta.

Nell’analisi di Galli non entra nient’altro: le posizioni europeiste o anti-europeiste di questa o quella forza politica, l’atlantismo o il putinismo, le politiche del lavoro o quelle migratorie, le posizioni nella materia dei diritti o la cultura (o piuttosto incultura) costituzionale. Non entra nulla, nessuna grande questione da cui invece dipende il futuro del nostro Paese. Il discrimine, lo spartiacque passa solo ed esclusivamente fra la classe politica che ha mal governato negli ultimi vent’anni da una parte, e dall’altra i Cinqustelle, che non avendo governato sono mondi da ogni responsabilità.

E non sono, per la fortuna di tutti, una forza eversiva. Inutile agitare spauracchi. Evidentemente basta questo, nel giudizio dell’editorialista del Corriere, per costruire attorno a Grillo e Di Maio il profilo di una forza affidabile, alla quale è possibile – e forse persino doveroso, visto il discredito di tutte le altre formazioni politiche – mettere nelle loro mani Palazzo Chigi.

Ora, è chiaro che non di eversione democratica si tratta, e salvo momenti di propaganda o di polemica spicciola, non c’è, seriamente parlando, nessuno il quale pensi che i grillini sono pronti a impugnare i fucili e a mettere le bombe. Si tratta però di populismo della più bell’acqua, a cui Galli della Loggia tiene disinvoltamente bordone. Non a caso, degli sforzi che pure i Cinquestelle fanno, per declinare un programma politico-elettorale e inventarsi un profilo di classe dirigente seria e preparata, nell’editoriale di Galli non c’è nessuna traccia. Nessuna proposta viene ripresa, e nessuna disamina viene condotta: ai Cinquestelle è sufficiente non esser compromessi con il passato, per meritarsi il 58% che Galli mette di fatto sotto le loro insegne. Come se non votare e votare per il M5S fossero la stessa cosa. Come se a non essere degni della fiducia di chi si astiene fossero tutti, meno però i grillini.

Ma mi sia permesso ancora un altro paio di osservazioni. Anzitutto, di prese di posizione così, di editoriali così se ne sono già visti, in questi anni. Articoli in cui si chiedeva di fare piazza pulita, mani pulite, tutto pulito, dopo i quali però i miracolosi cambiamenti che ci si attendeva dal repulisti non arrivavano mai. Non sono mai arrivati. Erano un inganno, oppure ci si ingannava: sta di fatto che purtroppo Galli della Loggia perpetua quell’inganno ancora oggi. In secondo luogo, è sorprendente che Galli non dia un minimo di prospettiva storica alle sue considerazioni, né provi a condurre un confronto con altri Paesi europei. Che per esempio hanno percentuali di affluenza al voto simile all’Italia, e in cui i meccanismi democratici rischiano di incepparsi come da noi. Lo stato di salute delle democrazie occidentali non è florido, ma che i Cinquestelle siano la cura miracolosa, invece che un’espressione della patologia del sistema, questo andrebbe forse argomentato con qualcosa di più di uno scoppio di insofferenza verso tutti gli altri.

E forse, a proposito di patologie, è da chiedersi se non sia in essa da comprendere anche una così desolante bancarotta di un pezzo del nostro ceto intellettuale, questa dichiarata volontà di fare le cose semplici, sostituendo a un’analisi politica circostanziata nient’altro che un gesto di impazienza. Non possiamo chiamarlo, con Gramsci, “sovversivismo delle classi dirigenti”, perché altrimenti Galli rispolvera il suo pezzo retorico sui Cinquestelle che non sono eversivi. Ma è qualcosa, tuttavia, che sul piano delle forme ideologiche e culturali gli somiglia molto, molto da vicino.

(Il Mattino, 27 novembre 2017)

Lo strappo a sinistra

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S. Balkenhol, Man with Green Shirt (1988)

Jeans e camicia fuori dai pantaloni, ai margini della festa di Rimini Roberto Fico intratteneva in un colloquio privato il neo-candidato premier Luigi Di Maio. Che gli stava davanti in giacca e cravatta, tanto lindo e pettinato quanto l’altro era sudato e arruffato. Fico non smetteva di gesticolare, Di Maio rimaneva fermo, quasi immobile, con le mani bene in tasca. Uno sembrava dannarsi a spiegare, l’altro non aveva che da mostrarsi comprensivo. In breve: uno ha perso, l’altro ha vinto. Uno è salito in cima al Movimento, come neocandidato premier, l’altro non è voluto nemmeno salire sul palco.

Vera partita non c’è stata, perché queste primarie si sono rivelate, nei numeri e nei partecipanti, poco più di una mera formalità autorizzativa. Ma per quanto Di Maio abbia assicurato, dopo la proclamazione, che non intende cambiare il Movimento, bensì l’Italia, le cose non stanno più come prima. Nel mescidato brodo culturale dal quale pescano i Cinquestelle c’è, è vero, un po’ di tutto, ma non tutto è rappresentato da tutti: la scelta di Di Maio dà una nuova rimescolata, ed è inevitabile che certi sapori finiranno col sentirsi più di altri.

Il denominatore comune a tutti i grillini – ieri come oggi – è la critica al sistema e il “vaffa” all’establishment. Il carburante rimane l’accusa di disonestà e di corruzione rivolta all’intera classe politica, lorda di immorali privilegi. Ma uno come Fico nel Movimento ha trovato anche un’istanza democraticistica radicale, perfetta per raccogliere la delusione di quelli di sinistra che non hanno più fiducia nei partiti tradizionali. Fico ha quell’anima lì: movimentista, roussoviana, vicina alle esperienze di base che, ora che si sono ridefiniti gli assetti di vertice, rischiano di rimanere soffocate. La linea del Piave dell’ala ortodossa incarnata da Fico, la «grande distinzione» che il Presidente della Commissione di Vigilanza ha tracciato ieri – un conto è il candidato premier, un altro il capo politico del Movimento; Di Maio è stato eletto per fare il primo, non per fare il secondo – non ha molte possibilità di reggere. O per meglio dire: tutto dipenderà ancora una volta dall’unico che può farla valere o revocare, cioè Grillo. Che però non è chiaro quanta voglia abbia di trainare i Cinquestelle anche nella prossima campagna elettorale. Certo è che in tutta la fase che si apre ora non vi è alcuna possibilità che le decisioni politiche fondamentali passino per i volenterosi militanti dei meet up o per una qualche forma di consultazione diretta che non sia, al dunque, un semplice bollino di ratifica.

Di Maio ha ripetuto anche dal palco di Rimini che il Movimento non è né di destra né di sinistra. Ma lui è quello che si è lanciato tutta l’estate nella polemica contro le Ong; Fico non ha detto una sola parola per sostenere una simile campagna. Fico si è esposto, in passato, quando si è trattato di discutere di unioni civili o di diritti dei malati terminali. Fa le battaglie sull’informazione per il ruolo che ricopre, ma non usa certo i toni di Grillo quando si tratta di attaccare la stampa. Fico, per capirci, è uno che votava Bassolino: quanta parte del mondo ideale di uno così può riconoscersi oggi nel contegno sussiegoso di Luigi Di Maio? Di tematiche riconducibili alla sinistra progressista, tra i Cinquestelle, rimane forse solo quella ambientale, ma l’identità del Movimento è sempre meno definita da queste battaglie.

Si tratta in realtà di un’evoluzione (o involuzione) inevitabile, se la scelta non è più quella di aprire le istituzioni come una scatoletta di tonno, come Grillo diceva nel 2013, ma di occuparle con i propri uomini, come si vuol fare nel 2018, presentandosi come forza seria e responsabile. Nella tradizione di questo Paese, non è la prima volta che un movimento politico si amputa di un pezzo alla sua sinistra, al momento di entrare nella partita per il potere. Se uno si va a leggere il manifesto programmatico dei fasci italiani di combattimento, presentato ufficialmente nel 1919, vi trova il solito refrain: non siamo né di destra né di sinistra. Ma dentro c’era anche un certo numero di istanze radicali di riforma: il suffragio universale, l’abolizione del Senato di nomina regia, la gestione operaia delle fabbriche, e via di questo passo. Tutte cose destinate a cadere. Il fascismo al potere farà infatti l’esatto opposto: toglierà di mezzo i partiti e la democrazia, manterrà il Senato e la Corona, si alleerà con il grande capitale.

Si prendano gli esempi per ciò di cui sono esempi. Non sto affatto gridando al pericolo fascista, né considero Di Maio un novello Mussolini. Dopo tutto, non ne ha la mascella. Sto dicendo invece che è normale che un movimento dentro cui c’è stato finora un po’ di tutto cambi natura nel passaggio dalla fase protestataria a quella della proposta di governo. E la proposta dei Cinquestelle si viene sempre più definendo su una base populista e qualunquista, destinata ad espungere da sé gli elementi spuri, che non entrano facilmente nel quadro. O magari nemmeno se la sentono di entrare nel quadro: non salgono sul palco, non si fanno la foto opportunity col nuovo capo, e provano anzi a sostenere, come ha fatto Fico, che non è affatto un capo. Tesi ardua, anche perché i Cinquestelle il capo in realtà l’hanno sempre avuto: quel che hanno adesso, è piuttosto un problema di successione, che in tutte le formazioni non democratiche costituisce sempre la prova decisiva: hic Rhodus, hic salta.

(Il Mattino, 25 settembre 2017)

Di Maio candidato, ma le primarie sono un flop

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R. Motherwell, Game of chance (1987)

Non proprio un bagno di folla, quello che il popolo cinquestelle riserva a Luigi Di Maio: vota solo un quarto degli iscritti, e Di Maio raccoglie circa trentamila voti su centocinquantamila. In un’elezione dal risultato assolutamente scontato, calano ovviamente l’interesse e la partecipazione: un’investitura annunciata non è un’elezione al fotofinish. Ma i dirigenti del Movimento si aspettavano comunque numeri più consistenti. La festa non è stata guastata dalle polemiche interne, ma è stata meno festosa di quanto forse ci si aspettava. Il dato politico però c’è tutto: da oggi, il Movimento Cinquestelle ha ufficialmente un nuovo leader. Grillo lo ha sottolineato con tono scherzoso: «da domani il capo politico del M5S non avrà più il mio indirizzo, tutte le denunce arriveranno a te», ha detto volgendosi verso il giovanissimo pupillo. Ma non è uno scherzo: è l’amaro calice che anche i più movimentisti tra i grillini debbono mandar giù, Fico per primo. Che non ha parlato. Che ha vistosamente ignorato Grillo ed evitato di applaudire Di Maio al momento della proclamazione. Ma che si è dovuto tenere per sé tutti i malumori covati in queste ore.

Le denunce arriveranno a Di Maio. E le liste, invece, chi le farà? I posti, i seggi: chi li assegnerà? È chiaro che il passo indietro (di lato, di danza) di Grillo non toglie nulla alla sua presa sul popolo pentastellato e al suo potere: Grillo rimane l’unico che può disdire quello che è già stato detto. Legibus solutus, può revocare domani quello che ha deciso oggi. Ma intanto, oggi, la decisione è presa: il Movimento Cinquestelle si identifica con Luigi Di Maio. Dargli autorevolezza, forza, credibilità è la priorità assoluta.

Lui, peraltro, è stato sempre così ben consapevole che il suo giorno sarebbe arrivato, che ha in realtà lavorato per fare il leader fin da quando si è seduto sullo scranno di vicepresidente della Camera. Lontanissimo, per stile, dallo spontaneismo arruffato e improbabile di tanti militanti e simpatizzanti, Di Maio ha deciso fin dal primo giorno di indossare giacca e cravatta, per lui quasi una seconda pelle. O forse una coperta di Linus: il modo per verificare ogni giorno allo specchio di avere la stoffa giusta per il ruolo che i padri del Movimento, Grillo e Casaleggio, hanno pensato per lui. L’unica cosa che Di Maio non può infatti permettersi, e con lui tutto il Movimento, è di apparire solo una figurina in mani altrui. Perciò l’accentramento delle responsabilità nelle sue mani, che tanto dispiace all’ala ortodossa del Movimento, è inevitabile e, probabilmente, sarà reso anche più evidente di quanto non sia.

Del resto, è abbastanza ridicolo parlare di tradimento delle origini. Alle origini c’è sempre stato un capo. Anzi. Un capo e un’azienda, la Casaleggio Associati, e la cosa ha ben potuto convivere con la retorica democraticista radicale. I Cinquestelle non hanno bisogno di dismettere quella retorica: faranno ancora le primarie online per la scelta dei candidati al Parlamento, indiranno ancora consultazioni online sui grandi temi in agenda (quando ognuno sa, peraltro, che il vero potere sta nel decidere l’agenda) e si riuniranno ancora nell’«agorà» quando si tratterà di far parlare tutti, come in questi giorni di festa a Rimini. Ma come in tutti i congressi di tutti i partiti, le decisioni vere continueranno a essere prese nel retropalco. E lì, da oggi, c’è una specie di strano triumvirato formato dal carisma ancora detenuto da Grillo, dalle chiavi della macchina organizzativa di proprietà di Davide Casaleggio, dalla responsabilità politica assegnata a Luigi Di Maio.

Piuttosto che le frizioni e le tensioni che attraversano il Movimento (e che rimarranno sotto le ceneri a lungo, se non interverranno fatti esterni a riaccendere il fuoco), sarà decisiva la capacità del neo-candidato di presentarsi come la carta nuova e vincente dei CInquestelle dinanzi all’elettorato. È lì, non fra gli iscritti, che si decide il futuro del leader. Non a caso, nel suo primo discorso dopo la proclamazione dei risultati, Di Maio ha detto subito che il suo compito non è cambiare il Movimento, ma cambiare l’Italia. C’è da dire che se lui cambiasse davvero l’Italia, il cambiamento del Movimento verrebbe da sé. Cionondimeno resta vero: gli sforzi saranno d’ora innanzi dedicati tutti alla proposta politica. E per dare il segno di una maturità ormai raggiunta dal Movimento, Di Maio ha ripetuto anche dal palco di Rimini che intorno a lui schiererà una forte squadra di governo, che dia il senso di una vera competenza e, forse, anche quello di uno spostamento di classe dirigente a rinfoltire i ranghi dei Cinquestelle.

In ogni caso, ha assicurato Di Maio, non sarà un governo di destra o di sinistra, il suo, ma fatto solo di «persone capaci». Si tratta di uno slogan che ha attraversato la seconda Repubblica, per dir così, da prima che nascesse: che ha contribuito alla delegittimazione della politica e a ha consentito ai Cinque Stelle di crescere. Anche da questo punto di vista, dunque: nessun tradimento delle origini. Ma come per la leadership una figura preminente non può non emergere nel momento in cui ci si candida alla guida del Paese, così anche sul piano ideologico i nodi debbono venire al pettine, e il populismo acchiappa-voti di qua e di là con cui ha prosperato il Movimento dovrà prendere una figura più determinata, se vorrà farsi programma di governo.

(Il Mattino, 24 settembre 2017)

Antimafia, la maggioranza in ostaggio

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La maggioranza parlamentare e di governo che voterà oggi le modifiche al codice antimafia si consegna di fatto al populismo penale e giudiziario che, in spregio ai principi liberali del diritto, alle garanzie del processo, alle libertà delle persone, chiede, e a quanto pare ottiene dal Senato della Repubblica italiana, un’estensione spropositata delle misure di prevenzione personale e patrimoniale per gli indiziati di reati di corruzione. Misure che appaiono al Presidente dell’Anac Raffaele Cantone inutile, inopportune e persino controproducenti, e che quindi è difficile giustificare persino in termini di maggiore efficacia nel contrasto al crimine, ma che hanno sicuramente l’effetto di ingigantire enormemente il raggio di attività delle Procure. Ancora una volta la politica si lascia mettere sotto scacco da quegli umori giustizialisti che segnano la vita della Repubblica italiana da un quarto di secolo a questa parte. Ancora una volta si confonde la capacità di perseguire e di accusare con la capacità di fare giustizia. Ancora una volta si consegna nelle mani della magistratura un potere supplementare, ampio e quasi indiscriminato, sotto la spinta di una narrazione che continua a ripetere sempre la stessa frase: i politici rubano. Se dunque muovono obiezioni, se provano ad eccepire, se coltivano dubbi, è perché sono, in buona o cattiva coscienza, complici e conniventi, per spirito di casta o per casacca di partito. Così tutti tacciono, il Presidente del Senato Grasso può respingere in maniera sbrigativa la richiesta di riportare il provvedimento in Commissione, e il partito democratico può mestamente continuare a farsi dettare la linea dai giornali che tengono quotidianamente sotto il mirino la condotta morale degli odiati politici. Il capogruppo Zanda conduce i democratici là «dove si puote ciò che si vuol»e. Cioè dalle parti di «Repubblica» e de «Il Fatto quotidiano», che continuano a detenere la chiave ideologica del nostro presente.

Non era questa la strada che il Pd sembrava avere intrapreso in materia di giustizia, all’inizio di questa legislatura. Non era la tutela giudiziaria su settori sempre più ampi dell’economia del Paese l’obiettivo che Matteo Renzi aveva dichiarato di voler perseguire, nell’enunciare anzi un programma di riforma che doveva sprigionare nuove energie, non seminare nuove paure.

Questa coda di legislatura si sta rivelando così peggiore del previsto. Sta proseguendo oltre le colonne d’Ercole del referendum, con il quale è naufragato il progetto di riforme costituzionali del Paese, privo ormai di un vero respiro politico, che non fosse per gli uni il proposito di durare, e per gli altri (cioè anzitutto per Renzi) il proposito di resistere al logoramento al quale il Pd viene sottoposto. Così però non si resiste, si abdica.

Di questo schema è infatti figlia anche l’impotenza e l’irriflessione con la quale si porta al voto un provvedimento palesemente illiberale, contraddetto dalla migliore scienza giuridica del Paese, a cui non si riesce a dire di no solo per non tirarsi in mezzo a nuovi guai. Il Pd è tenuto sotto schiaffo dai populisti, i riformisti sono tenuti sotto schiaffo dai giustizialisti, la maggioranza è tenuta ancora una volta sotto schiaffo dal partito delle Procure. E più non dimandare.

Ma questo giornale lo ha fatto, sin qui: ha domandato, ha chiesto conto, ha dato voce ai più autorevoli giuristi. Quel che ha fatto, continuerà a farlo, sperando che nei passaggi successivi questo pauroso arretramento del livello di civiltà giuridica del Paese potrà essere fermato.

(Il Mattino, 5 luglio 2017)

Spingendo la notte più in là

Motherwell

Con l’argomento che la corruzione è un male endemico del nostro Paese, come le mafie, il Senato si appresta oggi a votare modifiche al codice antimafia che estendono gli strumenti a disposizione nella lotta contro la criminalità organizzata al contrasto dei reati di corruzione. In particolare, il Senato della Repubblica sta dando il suo voto a un provvedimento che estende agli indiziati di reati contro la pubblica amministrazione misure di prevenzione personali e patrimoniali. Si tratta di misure che di fatto anticipano il giudizio di colpevolezza sulla base di un quadro meramente indiziario: misure palesemente emergenziali, com’è del resto emergenziale tutta la legislazione antimafia e la cultura che l’accompagna, di cui un giorno si vorrebbe vedere il termine ma che in realtà cresce sempre di più, penetrando sempre nuovi ambiti della realtà sociale ed economica del Paese. Una nuvola che s’ingrossa: invece di essere portata via dal vento del cambiamento e delle riforme, si abbassa sempre di più sulla vita civile e pubblica del Paese. Ne chiude l’orizzonte. Ne oscura l’aria. Regole che dovrebbero valere in ambiti ristretti, in circostanze limitate, in casi eccezionali, vengono messe a disposizione della normale attività delle Procure. Regole la cui stessa efficacia è molto dubbia (per Raffaele Cantone si tratta di modifiche «né utili né opportune, che rischiano persino di essere controproducenti»), ma che certamente fanno compiere all’Italia un enorme passo indietro sul piano della civiltà giuridica.

Contro la riforma si è dunque espresso il Presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione. Ma contro la riforma si sono pronunciate con fermezza anche le Camere Penali. E contro la riforma hanno parlato i più eminenti giuristi del Paese, da Giovanni Fiandaca a Giuseppe Tesauro, da Sabino Cassese a Giovanni Verde.  E forti preoccupazioni ha espresso anche il presidente nazionale di Confindustria, Vincenzo Boccia, per i riflessi sull’economia di una estensione abnorme dell’ambito di applicazione delle misure cautelari.

E però la maggioranza sembra determinata ad andare avanti. Qual è la forza che la sospinge? Purtroppo, sembra che sia una soltanto: la volontà di dare un segnale, la volontà di dimostrare che il governo intende fare sul serio. La volontà e, forse, la cattiva coscienza. Perché non è in discussione la lotta alla corruzione, ma il modo in cui la si fa. Se con le garanzie dei processi e le pronunce dei tribunali, o anticipando la pena grazie alle misure cautelari e alla grancassa mediatica, disperando di poter mai arrivare a sentenza. Se si prende questa seconda, più comoda strada, è perché la prima è ostruita e non c’è verso di liberarla.

Ma il prezzo che il Paese paga è alto. Non è infatti inasprendo le pene, introducendo nuove fattispecie di reato, allungando in maniera oscena i termini della prescrizione che si ottiene più giustizia. Allungare i termini della prescrizione significa solo consentire al giudice di spostare un po’ più in là la prossima udienza. Introdurre nuove fattispecie di reato significa solo complicare la normativa vigente, che già gronda di norme penali da un numero impressionante di leggi. Inasprire pene e sanzioni, senza aumentare efficienza ed efficacia dell’azione penale, non ha alcun effetto deterrente, ma solo una vuota funzione declamatoria.

Che il Senato se ne avveda: è ancora in tempo. Che abbia un sussulto di consapevolezza. Perché non basta porsi come argine contro i populismi, e poi assecondarne di fatto i temi, l’agenda, le politiche. Tanto più che non saranno mai sufficienti a saziare la sete giustizialista. Domani, dopo il voto, chi ha costruito la propria fortuna politica in nome della lotta contro la corruzione e le ruberie della politica dirà comunque che non si è fatto abbastanza, perché i ladri sono sempre al loro posto.

Certo, le elezioni sono dietro l’angolo: la volontà di «dare segnali» viene da lì, e da quel populismo giudiziario che continua a costringere la politica in posizione di subalternità nei confronti delle richieste che provengono dalla parte della magistratura investita del ruolo di guardiano della pubblica moralità. Ma se la maggioranza, e il partito democratico, intendono andare ancora a rimorchio di questi umori, allora a che titolo potranno dire di aver costruito e fatto avanzare, almeno in materia di giustizia, una proposta riformistica seria? Le modifiche del codice antimafia era finalizzata a rivedere la disciplina dell’amministrazione giudiziaria dei beni sequestrati, e a riformare drasticamente l’Agenzia nazionale dei beni confiscati. Su entrambi i fronti le opacità erano tali, da rendere necessario l’intervento legislativo.  Ma per prendere queste misure, non c’era bisogno di mettere a repentaglio garanzie e libertà, creare profili di dubbia costituzionalità, allargare enormemente il raggio di intervento delle Procure.

È possibile sperare, allora, che la maggioranza ci pensi ancora, prima di fare un simile voto?

(Il Mattino, 4 luglio 2017)

Primarie Pd, le idee per scegliere

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Primarie a bassa intensità, noiose, clandestine. Primarie scontate, primarie con rito abbreviato, primarie spopolate: definite in molti modi, rappresentano comunque l’appuntamento più largo e partecipato che in questo modo offre la vita interna dei partiti italiani. E dunque vale la pena darci un’occhiata, provare a orientarsi tra i profili e i programmi dei tre cavalieri – Renzi, Orlando, Emiliano – che in singolar tenzone si contendono la guida del partito (e, a norma di statuto, anche la premiership).

Sinistra

Ci sono quelli che dicono che la distinzione fra destra e sinistra non ha più molto senso. E tuttavia il partito democratico (che con Renzi segretario ha definitivamente aderito al socialismo europeo) continua a definirsi come un partito di sinistra, e tutti e tre i candidati condividono questa collocazione. Cambiano però gli aggettivi qualificativi, che sono necessari per apprezzare le differenze. La sinistra di Orlando somiglia alla tradizione socialdemocratica, e l’insistenza sul tema dell’uguaglianza fa sì che “democratico” sia senz’altro l’aggettivo da scegliere per la sua proposta programmatica. Quella di Renzi è invece una sinistra liberale, con più robusti innesti di liberalismo nelle proposte economiche, nell’idea di modernizzazione, nell’insistenza sul tema dello sviluppo. Emiliano, infine, è l’unico che non disdegnerebbe affatto l’aggettivo populista, che prova a presentarsi come l’uomo che lotta contro l’establishment e i potenti («il Pd dei banchieri e dei petrolieri»).

Populismo

A proposito di populismo, detto che per Emiliano non sembra affatto che sia un vero avversario, e che anzi ci andrebbe volentieri a braccetto, Orlando e Renzi usano entrambi la parola per denunciare un pericolo per le istituzioni democratiche, o perlomeno per le politiche di cui il Paese avrebbe bisogno. Orlando lo considera un «rischio mortale» per il Pd e, pensando a Emiliano ma anche a Renzi, denuncia le dosi di populismo entrate nelle vene del partito (ad esempio sul tema dei costi della politica, che Renzi riprende e che Orlando invece non cavalca mai). Per Renzi, al di là di stile, tono e qualche volta argomenti, la vera risposta al populismo stava però nella riforma costituzionale, cioè nel passaggio ad un sistema politico e istituzionale semplificato e più efficiente.

Legge elettorale e sistema istituzionale

Sul primo punto, in cima all’agenda dei prossimi mesi, siamo al ballon d’essai delle dichiarazioni quotidiane. C’è molto tatticismo, e il sospetto fondato che alla fine non cambieranno le cose. Ci terremo probabilmente la legge uscita dalla sentenza della Corte costituzionale, con piccoli aggiustamenti. Renzi, comunque, punta tuttora a correttivi maggioritari; Emiliano si dichiara per un maggioritario con collegi uninominali, e tutti e due vogliono togliere i capilista bloccati. Orlando proviene da una cultura di tipo proporzionalista, ha sposato nella sua mozione la proposta Cuperlo con il premio di lista ma è disponibile ora al premio di coalizione. La riforma costituzionale, dopo il referendum, è invece divenuta un terreno completamente minato: nessuno ci cammina più su. Nella mozione congressuale di Renzi c’è un cenno alla riforma del titolo V (autonomia regionale), in Orlando nemmeno quello. Ma è giusto ricordare che Renzi e Orlando stavano dalla stessa parte, mentre Emiliano ha osteggiato fragorosamente il programma di riforme del governo, e ha votato no al referendum.

Alleanze

Insieme alla legge elettorale sta il punto politico: le alleanze. Gli ultimi giorni si sono giocati su questo tema: Orlando agita contro Renzi lo spauracchio dell’accordo con Berlusconi. Renzi ribatte che Orlando la coalizione con Berlusconi l’ha già fatta. Ma in realtà il tema non può essere declinato concretamente in assenza di una legge. Se rimane un impianto proporzionale, le alleanze si faranno dopo il voto, non prima: secondo necessità. Non è chiaro infatti come si possa evitare l’accordo con il centrodestra senza un meccanismo maggioritario sul modello del tanto deprecato (e dalla Corte costituzionale bocciato) Italicum. Le discriminanti sembrano in realtà altre. Orlando non ha difficoltà a riprendere il dialogo con i fuoriusciti del Pd, Renzi invece ne fa una questione di coerenza: con Pisapia e il suo campo progressista sì, ma come si fa a stringere un’alleanza con D’Alema e Bersani, che il Pd lo hanno rotto? Che senso ha dividersi il giorno prima e allearsi il giorno dopo? Quanto a Emiliano, guarda con interesse agli elettori grillini, e si capisce che cercherebbe alleanze da quella parte.

Unione europea

Dici Europa e li trovi tutti d’accordo: sembra quasi una gara a chi si dice il più europeista di tutti (anche se tutti aggiungono subito dopo che così com’è l’Unione non va). Emiliano, i cui toni populisti non sembrerebbero andare a braccetto con il sogno europeista, innalza addirittura il vessillo degli Stati Uniti d’Europa; Orlando ne fa prioritariamente una questione di policies e punta alla costruzione del “pilastro sociale” che mancherebbe all’Unione; Renzi tiene insieme le due cose e soprattutto prova a rilanciare l’iniziativa politica per cambiare l’Europa, proponendo di affidare alle primarie la scelta del candidato alla Presidenza della Commissione. In realtà, con la probabile elezione di Macron (apprezzato da tutti e tre) e un possibile, rinnovato asse franco-tedesco, gli spazi per i giri di valzer si riducono: Renzi batte i pugni a Bruxelles, Emiliano dice che lo fa troppo poco, e Orlando dice che lo fa inutilmente. Questioni di immagine, più che di sostanza.

Mezzogiorno

Il Mezzogiorno c’è nei programmi di tutti e tre. Ma nessuno dei tre candidati lo ha scelto come terreno sul quale marcare una vera differenza rispetto agli altri due. Neppure Emiliano, che pure è governatore di una regione meridionale, la Puglia. Tutti e tre pongono la questione meridionale come una questione nazionale. Tutti e tre sono consapevoli che l’Italia non potrà mai crescere oltre lo zero virgola se a crescere non sarà anzitutto il Sud. Ma nessuno dei tre ha chiesto un solo voto per il Sud, e alla fine il risultato che prenderanno in Campania o in Sicilia, in Puglia o in Calabria dipenderà molto di più da dinamiche di tipo localistico, che dal profilo programmatico che hanno assunto. E al dunque: Renzi voleva portare il lanciafiamme a Napoli, ma poi non lo ha fatto. Orlando invece a Napoli ci ha fatto il commissario, e chiamarsi fuori non può; Emiliano infine s’è preso lo sfizio di strizzare l’occhio a De Magistris appoggiando pochi giorni fa «l’insurrezione pacifica contro Salvini». Tant’è.

Migranti e sicurezza

Tutti e tre i candidati subiscono la pressione dell’opinione pubblica e tendono a declinare i due temi insieme. Tutti e tre si coprono – come si suole dire – su quel fianco sul quale tradizionalmente i partiti di sinistra si mostrano più scoperti. Così Emiliano spende parole sull’accoglienza e sul bisogno di manodopera straniera della sua Puglia (non proprio un argomento di sinistra), ma nel confronto televisivo tiene a ricordare che lui, da magistrato, girava con la pistola nella tasca dei pantaloni. Renzi fa la polemica con l’Unione europea che scarica sul nostro Paese il peso maggiore nell’accoglienza, ma si allinea alle posizioni più dure in tema di legittima difesa (non proprio una posizione di sinistra); Orlando vuole superare il reato di immigrazione clandestina, ma difende la sua legge che accelera l’esame del diritto d’asilo, togliendo il grado di appello (legge assai poco amata a sinistra). In compenso, nessuno di loro indietreggia di fronte al compito di salvare le vite umane in mare e difendere le Ong.

Economia

Per tornare a trovare differenze più accentuate fra i tre candidati, bisogna allora tornare a guardare ai temi dell’economia e della società. La più chiara di tutte: Orlando e Emiliano sono per una patrimoniale, mentre Renzi la esclude. Il programma economico e sociale di Renzi è per il resto tracciato nel solco di quello seguite dal suo governo. E cioè il jobs act, poi gli 80 euro, «cioè la più grande operazione distributiva che sia mai stata fatta», poi la riforma della pubblica amministrazione e quella della scuola. Orlando in realtà faceva parte del governo e Renzi non ha mancato di ricordarglielo, ovviamente. Ciò non toglie che Orlando ha criticato la politica dei bonus, che vanno a tutti, ricchi e poveri indistintamente, e provato a riprendere il tema più classicamente socialdemocratico della redistribuzione dei redditi («sradicare in tre anni la povertà assoluta»). Emiliano ha forse il programma più a sinistra: critica l’abrogazione dell’art. 18, vuole tassare le multinazionali del web, vuole una forma universale di sostegno al reddito. E però vuole pure la riforma dell’IVA, finanziandola con il recupero dell’evasione dell’imposta.

Partito

Come sarà il partito democratico dal 1° maggio? Se vince Renzi, è l’accusa degli altri due, sarà quello che è stato finora: un partito fortemente segnato dalla leadership di Matteo, tinto di prepotenza e poco inclusivo. Emiliano era sul punto di andarsene, poi è rimasto ma continua a dipingere Renzi quasi come un pericolo. Orlando ha finito la campagna elettorale arrivando a dire che o vince Renzi o vince il Pd. In effetti, Renzi è arrivato alla guida del Pd sull’onda della rottamazione, non mancando di aggiungere che preferiva farsi dare dell’arrogante piuttosto che farsi fermare dai veti incrociati dei maggiorenti del partito. Nella sua mozione, però, gli accenti sono mutati: cita Gramsci, propone non un partito pesante ma un partito pensante, ne mantiene il tratto aperto e contendibile, fondato sul modello delle primarie, ed è soprattutto l’unico che prova a tratteggiare un modello nuovo di militanza. Emiliano chiede invece di cambiare lo statuto e l’identificazione fra candidato premier e segretario nazionale, Orlando propone invece le primarie regolate per legge.

Le persone

Le differenze, tutto sommato, ci sono. Ma sicuramente si disegnano con più nettezza se si guarda alle rispettive personalità. Orlando è quello più “strutturato”, che prova a incarnare la serietà della politica; Emiliano fa quello fuori dalle righe, che sta tra la gente e fuori dal Palazzo (pur essendoci seduto dentro); Renzi vuole essere ancora l’uomo delle riforme, che ha cominciato e vuole continuare. Uomo della mediazione Orlando, uomo della declamazione Emiliano, uomo della rottamazione Renzi. Correzione di rotta per Orlando, rivoluzione gentile per Emiliano, cambiamento per Renzi, bandiera finita nella polvere dopo il 4 dicembre. Non se ne è parlato molto, ma il senso dato a quel voto è un vero discrimine fra i tre. Un no sacrosanto per Emiliano; una severa lezione, per Orlando; uno stop imprevisto dal quale ripartire per Renzi. Solo il voto di oggi potrà indicare la strada. E questo, dopo tutto, è il bello della democrazia (non quella diretta).

(Il Mattino 30 aprile 2017)

La tentazione di abolire i Parlamenti

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La critica – radicale, definitiva, inappellabile – che Michelle Houellebecq rivolge, sul Corriere della Sera, all’indirizzo della democrazia rappresentativa richiede, per essere discussa seriamente, un passo indietro. Di quasi tremila anni.

Houellebecq parla alla vigilia delle elezioni presidenziali in Francia – alla vigilia delle celebrazioni per il sessantesimo anniversario dei Trattati di Roma, istitutivi del primo nucleo di comunità europea – e non si limita a prendere le distanze dall’offerta politica del suo Paese («mi asterrò con particolare entusiasmo»), ma, nel formularla, vi mette il carico da novanta, esprimendo un rifiuto completo e senza sfumature delle istituzioni parlamentari come tali, dell’idea che democrazia possa ancora voler dire rappresentanza – oggi, in un tempo in cui la tecnologia sembra rendere possibile l’utopia della democrazia diretta. Questo è il suo primo argomento. Il secondo è invece che non è vero, se mai lo è stato, che il popolo è ignorante, e che dunque non può prendere direttamente decisioni politiche che richiedono particolari competenze. Il terzo infine è che solo il popolo è legittimato a decidere, e nessun’altra istanza è più democratica di quella che al popolo rimette le decisioni su ogni e ciascuna materia su cui occorra deliberare.

Nessuno di questi tre argomenti contiene – bisogna pur dirlo, con tutto il rispetto per il più famoso scrittore francese vivente – una critica particolarmente originale della democrazia moderna. Che non ricorre affatto all’escamotage della rappresentanza solo perché non si riesce a sentir tutti su ogni argomento. Che non si dota di organismi parlamentari solo per togliere la parola al popolo, di cui non si fida. E che infine non costruisce percorsi di legittimazione costituzionale solamente per limitare in chiave oligarchica l’esercizio del potere politico. Per tutto questo, si potrebbe rinviare Houellebecq a qualche buon manuale di diritto costituzionale, per regolare le questioni su ciascuno di questi punti, e intanto domandargli chi diavolo sceglierà – quale Staff, quale Garante, quale Blog – gli argomenti da sottoporre a referendum popolare, e chi governerà nel frattempo, tra un referendum popolare e l’altro.

Così replicando, si mancherebbe l’essenziale. Da quando i moderni hanno costruito la libertà politica grazie all’invenzione dei parlamenti, eletti con voto libero, universale e segreto, al fianco degli istituti democratici è subito spuntata, infatti, la critica dei fautori della democrazia diretta: niente di nuovo sotto il sole. Prima di essere una piattaforma dei grillini, Rousseau era effettivamente un filosofo di questa fatta.

Ma l’essenziale – cioè il vento populista che gonfia le vele di Houellebecq – non lo si coglie senza tornare indietro, di tremila anni. A Omero, al secondo canto di quel primo, immenso monumento della cultura europea e occidentale, che è l’Iliade. Sono i versi in cui, dinanzi ai capi achei riuniti, prende la parola Tersite, l’unico soldato semplice a cui Omero presti una voce distinta in tutto il poema. Dunque: parla Tersite, ed è un atto d’accusa spietato, condito di ingiurie e improperi, contro i capi achei che hanno portato i loro uomini sotto le mura di Troia per una guerra di cui solo loro, i capi, si ingrasseranno spartendosi il bottino. Parla Tersite, e inveisce contro il duce supremo, Agamennone, mosso solo da sete di oro e di giovani donne da conquistare. Parla Tersite – il gaglioffo Tersite, brutto e deforme, calvo e con la gobba – e non ha tutti i torti, perché quando mai c’è stata una guerra al mondo, a cui non si sia stati spinti per brama di potere, di gloria o di ricchezza? Non ha tutti i torti Tersiet, ma uno, fondamentale, lo ha: non sa che sta parlando non solo contro Agamennone e gli altri capi achei, ma anche contro l’Iliade e l’epica stessa. Non lo può sapere, perché lui sta proprio dentro l’Iliade, è dentro la narrazione delle guerra troiana, essendo di quella epopea soltanto un personaggio. Lo sa però Omero, che dopo avergli lasciato libero sfogo per qualche verso lo fa percuotere e zittire dal glorioso Ulisse. E ci consegna l’unica difesa possibile del senso umano della storia dal tersitismo, il primo nome che ha preso il populismo nella storia occidentale.

Se la ragione è di Tersite, e di Tersite soltanto, non ci sarà infatti più nessuna guerra di Troia, ma anche nessun valore, nessuna causa, nessun canto, nessun senso delle vicende umane diverso dal riso, dallo sberleffo e dallo scherno. Non ci saranno eroi nel tempo degli eroi, ma nemmeno poeti nel tempo della poesia, e uomini di Stato nel tempo degli Stati. Tersite non racconta; deride. Ha ragione, ma non ha tutta la ragione; vede il basso e se ne compiace persino, con la sua sguaiataggine, ma così non riconosce nessuna possibile altezza per la figura umana.

Houellebecq dirà allora: cosa però c’è di più democratico di Tersite? Dobbiamo stare con gli uomini del popolo o con la casta dei tronfi capi achei? Ma questa domanda è frutto di un equivoco, frutto dell’idea che democratico sia solo lo scurrile e il plebeo, e dunque solo il movimento che abbassa e degrada, e non anche il movimento che sale verso l’alto, che forma e trasforma anche il vile ed anche il plebeo. Democrazia è questa seconda cosa qua: è la costruzione di un popolo sovrano, non la distruzione di ogni possibile sovranità.

Nella sua lunga conversazione, Houellebecq dice ancora un’altra cosa importante, sull’assenza di una cultura europea: ci sono solo culture locali, e poi una «cultura globale anglosassone.» C’è del vero, in questa affermazione, che meriterebbe un lungo discorso. Ma intanto: quella di Agamennone, Tersite e Ulisse non è una storia che appartenga a una cultura locale, e nemmeno alla cultura globale anglosassone. Se Europa fosse anche solo il luogo in cui queste storie si continuano a leggere, studiare e raccontare non sarebbe piccola cosa. Come non lo sarebbe costruire un quadro istituzionale europee che, certo, non risolvesse i suoi problemi picchiando con lo scettro i Tersite che provano a prendere la parola, ma neppure lasciando che lo scettro cada dalla mano di Ulisse e da ogni mano. Perché, quando cade, qualcuno che lo raccoglie nuovamente c’è, e di solito non è un Tersite, ma qualcuno che lo stringe molto più forte di prima.

(Il Mattino, 25 marzo 2017)

 

La repubblica della “moralità”

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L’onore è perduto, scrive Massimo Giannini su «Repubblica», commentando la decisione a suo dire scandalosa del Parlamento che, nonostante una sentenza di condanna passata in giudicato, nonostante la legge Severino che comporterebbe la decadenza, ma soprattutto: nonostante la «domanda di moralità» che sale dal Paese (e che Giannini mette fra virgolette, forse per una forma di pudore residuo) ha salvato il senatore azzurro Augusto Minzolini, conservandogli lo scranno di Palazzo Madama.

Voglio rendere subito chiaro che cosa significhi un editoriale di questo tenore, affidato a una delle penne più prestigiose di uno dei più influenti giornali del Paese, e certamente il più influente nel campo della sinistra progressista. Significa che se sale prepotente la domanda di moralità, la libertà del parlamentare non conta, e deve togliersi di mezzo. Giannini non lo dice esplicitamente, ma non può significare altro la sua fierissima indignazione e l’enorme scandalo di fronte alla valutazione compiuta dai parlamentari del partito democratico (per Giannini il voto del centrodestra è indecente per definizione: non vale nemmeno la pena di starsi a chiedere perché votino per il loro compagno di partito, o di merende)  che hanno detto no alla decadenza, poco importa che fra essi vi fosse un giornalista serissimo come Massimo Muchetti, un filosofo come Mario Tronti, una coraggiosissima giornalista anticamorra, tuttora sotto scorta, come Rosaria Capacchione. La domanda di moralità non ammette distinguo, e Giannini non si accorge nemmeno di aver così dato clamorosamente ragione a Angelo Panebianco che sul «Corriere della Sera» di qualche giorno fa aveva parlato di resa culturale ai Cinque Stelle. Resa culturale a quel piccolo Robespierre che risponde al nome di Luigi Di Maio, il vicepresidente della Camera dei Deputati, secondo il quale dopo un voto del genere non ci si può lamentare «se i cittadini vengono a manifestare in modo violento». Resa culturale a quell’altro, autorevolissimo esponente del Movimento, Roberto Fico, presidente della Commissione di Vigilanza della Rai, che rivolgendosi ai banchi del Pd, usa queste violentissime parole: «siete da radere al suolo».

Cosa aveva scritto Panebianco? Che nel discorso pubblico non c’è nessuno che sia in grado di spendere una parola a difesa delle istituzioni della democrazia rappresentativa, nessuno che si batta a difesa della libertà di mandato del parlamentare (l’unico, vero presidio della libertà politica: non ce n’è un altro), «nessuno che si batta con energia per far capire che i parlamentari non sono cittadini come gli altri». E cosa ha scritto ieri Giannini? «Il Senato, consapevolmente ma colpevolmente, decide dunque di disattendere una legge dello Stato, che vale per tutti meno che per uno dei suoi membri». I due testi – quello di Giannini e quello di Panebianco – si oppongono punto per punto, e la sinistra in Italia – la sinistra riflessiva, intellettuale, civile, colta e informata che legge «Repubblica» – ha scelto, ieri, di arrendersi culturalmente ai Cinquestelle: rappresentando come un’eccezione e un odioso privilegio l’esercizio delle prerogative del parlamentare, tra le quali rientra, evidentemente, quella di esprimere in autonomia il proprio sindacato su una legge, su una decisione o su un qualunque provvedimento sia richiesto alla Camera di appartenenza. Si è arresa, dando del venduto ai diciannove parlamentari del Pd che hanno difeso Minzolini. Ma non avendo la sfrontatezza dei grillini, e volendo mantenere l’eleganza che contraddistingue le opinioni per bene, si è arresa col piccolo artificio retorico di fingere di non voler nemmeno pensare che il Pd e i suoi senatori si sono venduti.

Si è arresa, insomma,facendosi interprete di quella domanda di moralità incattivita dalla rabbia, in nome della quale oggi Giannini non rispetta il voto del Senato, tanto poco quanto lo rispetta il Movimento Cinquestelle, che anzi ne alimenta il disprezzo. In nome della quale Giannini confessa di parlare in un linguaggio che non gli appartiene: scrive infatti che nel voto si è manifestata «la Casta che difende se stessa», e poi aggiunge subito che però queste parole non sono le sue, questa maniera di esprimersi non è la sua, ma quella di un tempo «di ferro e di fango». Già: il tempo. Ma questa è proprio l’egemonia di cui parlava Panebianco: quando parli parole non tue, ne sei consapevole e tuttavia non puoi farne a meno, le metti tra virgolette cercando di tenerle a qualche distanza, prendendole con le pinze, ma intanto non ne hai altre, hai consumato ogni altro lessico e devi prendere le parole dal vocabolario che gli altri, quelli che dovrebbero essere i tuoi avversari, hanno ormai imposto nel discorso pubblico.

Del resto, quali  altri terreni la sinistra politica in Italia ha saputo coltivare durante la seconda Repubblica, all’infuori di quello che gli ha offerto l’opposizione morale al berlusconismo? La domanda di moralità che ieri Giannini ha tirato di nuovo fuori dal cassetto era la madre di tutte le domande, che, nel numero di dieci, «Repubblica» formulava all’indirizzo del Cavaliere. Ed è tuttora la sola domanda che solleva a sinistra passioni e furori, molto più delle diseguaglianze e delle ingiustizie sociali. Anzi, la sinistra sta perdendo pure su quest’ultimo terreno, lasciando che ad occuparlo sia un altro regime di discorso, quello che si fa contro gli stranieri che rubano il lavoro o minacciano la nostra identità.

Anche queste parole si fanno egemoni e sottraggono spazio alla sinistra. Che forse, proprio perciò, va a rimorchio di quelli che inoculano il virus dell’antiparlamentarismo, avendo perduto l’onore di difendere il Parlamento anche quando sbaglia.

Ma un Parlamento che sbaglia è meglio, molto meglio di nessun Parlamento. Avrei votato per la decadenza – e mi spiace di doverlo mettere in premessa per non essere frainteso, come una specie di excusatio non petita – ma se per tenerlo in piedi fosse necessario riempirlo di mille malfattori, ebbene: io lo farei.

(Il Mattino, 18 marzo 2017)

 

 

Il Masaniello in lotta contro tutti

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Che cosa succede quando un movimento rivoluzionario arriva al potere? Le vie della storia sono infinite, e può quindi andare come con Pancho Villa in Messico o come con Lenin in Russia, come nell’Europa dell’Est dopo la caduta del Muro o come con la primavera araba dei paesi del Nord Africa. Può finire con la democrazia, la dittatura o l’esercito: non si sa mai. Diverso ancora è però il caso di Luigi De Magistris, che una rivoluzione vera e propria non l’ha fatta mai (non tutti gli uomini hanno la fortuna di nascere nel tempo e nei luoghi consoni alla loro tempra), ma che tuttavia a volte parla come se la volesse fare, o come se fosse proprio quello che finalmente ci vuole: a Napoli, in Italia, dappertutto. Non è così che aveva salutato la sua vittoria lo scorso anno, quando fu riconfermato sindaco di Napoli? Disse: «Questo è l’inizio di una rivoluzione che farà parlare di Napoli nel mondo». E certo: se Salvini venisse a Napoli ogni settimana, e De Magistris gli opponesse le sue fiere parole di rivoluzionario, con tanto di seguito fra i movimenti e i centri sociali pronti a scendere in piazza per difendere non è chiaro se il proprio onore partenopeo, la Repubblica italiana nata dalla Resistenza o l’esperienza pseudocomunarda della città, se andasse così in ogni weekend, forse davvero di Napoli e del suo Sindaco parlerebbe il mondo intero.

Nel modo in cui De Magistris si muove c’è ben più di una vaga consapevolezza di tutto ciò. Così, quando l’occasione si presenta, le briglie istituzionali si allentano e De Magistris rimette la bandana, lasciando scolorire la differenza fra le responsabilità di un uomo delle istituzioni e le scalmane di un capopopolo, come se fra piazza Mercato e Palazzo San Giacomo non vi fosse più alcuna differenza.

Nella storia politica di De Magistris non è certo la prima volta che capita. Quando nel 2014, chiamato a difendere le proprie scelte di magistrato, fu sentito dal Tribunale di Roma, nella sorpresa generale e in maniera chiaramente pretestuosa tirò in ballo Giorgio Napolitano, raccontando di una sua iscrizione nel registro degli indagati all’epoca di Tangentopoli, quando Napolitano era Presidente della Camera. Ovviamente la cosa era finita in nulla e non aveva alcun rapporto con le ragioni per le quali De Magistris veniva ascoltato, ma lui la ricordava con tutta la malevolenza di chi considerava ( e probabilmente considera ancora oggi) Napolitano un suo nemico: incurante del ruolo istituzionale ricoperto dal Presidente della Repubblica, e del suo stesso ruolo di primo cittadino, ma perfettamente consapevole del potenziale impatto mediatico di simili allusioni e maldicenze.

Non diversamente, De Magistris si è a lungo scagliato contro Renzi, quando questi era Presidente del Consiglio, giungendo a farsi cantore dei cavalieri e delle armi di una città derenzizzata. Nella Napoli liberata di De Magistris, infatti, sarebbe stato meglio che Renzi nemmeno mettesse piede. C’era uno scontro in atto, in particolare su Bagnoli, e una campagna elettorale alle porte, e De Magistris ne disse di tutti i colori: parlò di violazione della Costituzione, di violenza di Stato, di uso illegittimo del diritto, di involuzione antidemocratica e di accelerazione autoritaria, e concluse con un appello alla resistenza e alla lotta  – «nelle piazze, nelle strade e nei vicoli»  – che solo lo svolazzo dell’ultima frasetta finale, dedicata all’amore e alla non violenza, permetteva di non scambiare per un invito alla lotta armata.

Quella frasetta c’è sempre, per la verità, nei discorsi e negli scritti del Sindaco, anche se non tutti vi prestano attenzione e qualcuno anzi scende nelle piazze (e nelle strade e nei vicoli) senza serbare memoria dell’amore e della non violenza: lo si è visto sabato.

Ma si è visto anche che De Magistris tiene alla connessione sentimentale con questa parte della città, e anche quando si accorge che a qualcuno è scappata la frizione, non sente la necessità di prendere le distanze. Anzi: sonda, tasta, fiuta. POI sceglie. Sa che deve rimanere legato a quella frase, ma sa anche che certi atteggiamenti da Masaniello riscuotono grandi simpatie e, anzi, aperto consenso in quel mix di radicalismo intellettuale e bisogni popolari che intende rappresentare. Sa che di gente arrabbiata ce n’è, sa che per questa gente arrabbiata i partiti sono minestre riscaldate e sa che, soprattutto a sinistra, il Pd appare il campione di ogni moderatismo (senza peraltro effettivamente brillare per proposta riformistica); sa infine che non è l’attività amministrativa il luogo in cui provare a dare risposte a domande di senso. Perché anche quando la violenza è insensata (oltre che, nei fatti, controproducente) prende almeno un significato politico, ed è quello che De Magistris coglie, al di là o al di sopra delle istituzioni. Per questo, tra chi lo segue non si sono contate ieri le citazioni di Sandro Pertini che, nel 1960, a Genova, città medaglia d’oro della Resistenza, infiamma la piazza e impedisce che si tenga il Congresso dei neofascisti di Giorgio Almirante. Non importano le distanze storiche: evidentemente, De Magistris sa come accorciarle bruscamente. Non contano nemmeno le regole: troppo pesanti e rigide rispetto ai simboli che De Magistris sa come mobilitare. Non conta insomma rappresentare le istituzioni come autorità terze e imparziali, perché farne invece il transfert di un’intensa identificazione con la propria parte politica rende molto, ma molto di più.

(Il Mattino, 13 marzo 2017)

Il populismo non si combatte negando il diritto di parlare

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Il progetto per l’Italia che Matteo Salvini ha spiegato a questo giornale, nel forum di mercoledì scorso, difficilmente potrà far breccia nel cuore dei napoletani. Però era giusto che il leader della Lega avesse tutta intera la libertà di esporlo alla città. È giusto anche che possa tenere la sua convention: negargli la possibilità, per le proteste di un gruppo di manifestanti che ha occupato gli spazi della Mostra d’Oltremare dove si sarebbe dovuto svolgere l’incontro odierno, non è una vittoria, bensì una sconfitta. Che gli dà modo di mettere sotto accusa un’intera città. Un conto infatti è protestare, anche in maniera vivace; un altro è impedire. Un altro ancora – il più amaro di tutti –  assecondare gli arrabbiati esponenti dei centri sociali e della rete antirazzista, e ritirare la disponibilità della sala. Se finisse così, non sarebbe certo un epilogo di cui andare fieri. Ed è una vergogna che sia dovuto intervenire il Ministero dell’interno, per garantire a Salvini l’agibilità democratica in città.

Matteo Salvini ha opinioni sull’euro, sulla globalizzazione, sull’immigrazione, non molto diverse da quelle di Marine Le Pen, che in Francia è candidata alle prossime elezioni presidenziali, e che però può ben tenere i suoi comizi in tutto il Paese. Non molte diverse neanche da quelle dell’olandese Geert Wilders, pure lui prossimo alla sfida del voto (che in Olanda cade il 15 marzo) e pure lui in tour elettorale con un analogo bagaglio di euroscetticismo e xenofobia spinto al limite dell’odio razziale e religioso.

C’è in Europa una destra sovranista, nazionalista e populista, che intende fermare i flussi migratori, smantellare le istituzioni europee, mettere fine in un colpo solo alla moneta unica e all’islamizzazione del continente. Salvini e la Lega Nord condividono queste idee, e vi aggiungono una forte coloritura antimeridionale, iscritta dalle origini fin nel nome, che ancora oggi inneggia, in maniera abbastanza ridicola, all’indipendenza della Padania. Ma quel nome funziona quando si tratta di scagliarsi contro il parassitismo dei meridionali, gli sprechi dei meridionali, il clientelismo dei meridionali, la mafia e la camorra dei meridionali. Questa retorica è ancora utile a prendere voti al Nord, e infatti Salvini non l’abbandona del tutto. Siccome però il fulcro della polemica politica si è spostato: non è più Roma ladrona, ma la Merkel, l’euro e la BCE, Salvini si spinge fino a Napoli a cercare i voti: perché – bontà sua – non tutti i meridionali sono ladri e imbroglioni. Lui crede che a sentirsi offesi dai suoi pregiudizi antinapoletani siano solo i «quattro facinorosi» che protestano: ovviamente si sbaglia, ma è un errore che gli lasciamo volentieri.

Non c’era motivo, però, di commetterne a propria volta. Né occorre tirare in ballo anche a questo giro la famosa frase (erroneamente attribuita a Voltaire): «non condivido nulla di quello che dici, ma darei la vita perché tu possa dirlo». Semplicemente, una democrazia liberale lascia libertà di opinione a tutti, finché da quelle opinioni non sia concretamente minacciata. Francamente, non mi pare che fosse il caso della trasferta di Salvini tra il lungomare Caracciolo e la Mostra d’Oltremare. È vero che un ordinamento democratico non è solo un insieme astratto di regole e procedure, ma vive nei comportamenti concreti di ciascuno e, a volte, in prassi di vita e di pensiero che hanno bisogno di essere mobilitate, anche contro i Salvini di turno. Se davvero il Sindaco De Magistris intende questo, quando si dice vicino ai centri sociali e auspica «una grande manifestazione popolare, pacifica, ricca di ironia, di cultura e di satira», allora ben venga: non c’è motivo di allarmarsi. C’è, se mai, da annotare l’uso politico che De Magistris viene facendo della storia, dell’identità e del carattere di questa città. Va bene anche questo. Ma ieri si è andati oltre: metodi violenti e disordini, tumulti e ricatti: quelli non possono andar bene. È pericolosa anche l’idea che la democrazia viva solo dell’effervescenza di movimenti e poteri costituenti, e non di un ordine costituito e di istituzioni legittime che son poste a garanzia dei diritti di tutti, anche di quelli che non ci piacciono. Napoli è Masaniello, ma pure Benedetto Croce.

Salvini, dal canto suo, fa il suo mestiere, e deve poterlo fare. In materia di ordine pubblico, spinge per politiche di tipo securitario e, in economia, per una politica fiscale dirompente (una sola aliquota del 15% per tutti) – dirompente al punto da contraddire il principio costituzionale della progressività dell’imposizione fiscale. Anche queste, però, sono opinioni legittime e meritevoli di essere discusse, così come lo sono quelle esposte nell’incontro organizzato dal Mattino. Non è stata una passerella, ma un utile confronto nel quale gli si è potuta contestare l’approssimazione e la faciloneria con cui declina il tema dei trasferimenti al Sud, contestandogli in punta di fatto il racconto di un Nord che elargisce risorse al Sud, quando è piuttosto vero il contrario. Certo, chi ha un po’ di conoscenza storica riconosce nel rifiuto leghista di stranieri e migranti (specie se musulmani), così come nella polemica contro inetti, ladri e speculatori, eco sinistre di pericolose ideologie illiberali. Ma la democrazia: non scherziamo, non la si difende con le intimidazioni, o impedendo a Salvini di parlare. Non c’è motivo di farlo, non c’è motivo di accendere i riflettori su ogni cosa che Salvini fa o dice. Se Salvini viene a Napoli, è perché Napoli è più grande, molto più grande di Salvini. Promettere disordini per indurre l’Ente Mostra a negare la sala significa offrire al leader leghista la possibilità di mettere il suo nome a fianco del nome di Napoli: onestamente, c’era bisogno di fargli questo regalo? E schiacciare Napoli sul confuso radicalismo comunardo dei manifestanti: è questo che fa grande una città, o piuttosto la condanna, per l’ennesima volta, a tenersi lontana e fuori tempo rispetto alle rotte principali della democrazia e della modernità?

(Il Mattino, 11 marzo 2017

 

Il filo rosso da Craxi ai 5 stelle

immagine«Bisogna innanzitutto dire la verità delle cose e non nascondersi dietro nobili e altisonanti parole di circostanza che molto spesso, e in certi casi, hanno tutto il sapore della menzogna»: 3 luglio 1992, nell’aula del Parlamento Bettino Craxi pronuncia un discorso passato alla storia per la crudezza con la quale il leader socialista affrontava il tema del finanziamento pubblico dei partiti. Tangentopoli è ormai esplosa, e l’intero assetto istituzionale è profondamente scosso non solo dall’inchiesta «Mani pulite», ma anche da fatti gravissimi, come l’attentato in cui ha perso la vita il magistrato Giovanni Falcone (solo due settimane dopo, il 19 luglio, cadrà vittima di un attentato anche Paolo Borsellino). Il discorso di Craxi andrebbe in realtà riletto tutto, perché descrive uno stallo dal quale, a venticinque anni di distanza, non è facile ritenere che il Paese sia uscito. Il vuoto di cui Craxi aveva orrore, e che il governo di Giuliano Amato provava a riempire, è ancora qui, a minacciare l’attuale sistema politico, agito da partiti sempre più fragili, sospeso fra inconcludenza e risentimento, percorso da venate di populismo che minacciano ogni giorno di far saltare il banco. È ancora qui la montagna del debito pubblico, sono ancora qui le esigenze di riforma e di ammodernamento delle istituzioni, è ancora qui l’insistente domanda sul significato dell’adesione al progetto europeo, ed è ancora qui, non superata, l’esigenza di moralizzazione della vita pubblica. Ma Craxi aveva ben chiaro che a questa esigenza bisognava dare una risposta politica, che non screditasse definitivamente «l’impianto e l’architrave della nostra struttura democratica». È andata diversamente. Non solo i partiti sono stati travolti dal discredito, ma si sono poste allora le basi di una campagna di delegittimazione profonda, che li ha lasciati in una perdurante condizione di minorità, e che sopratutto ha impedito che si affrontasse il nodo di fondo, che l’ex Presidente del Consiglio aveva denunciato in quel discorso: il finanziamento pubblico. Da allora ad oggi, si continua a vivere sotto l’illusoria convinzione che la politica non abbia bisogno di danari, e che chiunque li cerchi per finanziare la propria attività politica sia da quei danari corrotto e comprato irrimediabilmente.

Questa convinzione pesa come un macigno sulla politica italiana, fino a costringere l’altrieri Matteo Renzi a motivare la necessità di andare al voto con la storia dei vitalizi, a cui sarebbero ostinatamente attaccati i parlamentari, e ieri Virginia Raggi a cadere dalle nuvole apprendendo che il buon Romeo ha intestato a suo favore un paio di polizze vita a insaputa della sindaca. Ma se tutto accade a insaputa della politica – una volta le case, quest’altra le polizze, la prossima volta chissà, una donazione o una promozione – vuol dire proprio che la «verità delle cose» non può ancora essere detta in pubblico.

Intendiamoci: abbiamo ogni ragione per credere a Virginia Raggi. Se però la versione che lei fornisce appare così poco credibile, irragionevole, persino insensata, è perché nessuno è in grado di vedere la linea che separa le utilità private da quelle pubbliche, il finanziamento dalla corruzione, la liberalità dall’opportunismo. Quella linea nessuno prova a tracciarla. Si aboliscono i vitalizi (anche se la gente non lo sa), si abolisce il finanziamento pubblico, ma non si mette in chiaro attraverso quale sistema la politica debba sostenersi. Non si fa una legge sui partiti politici, e non si mette ordine nei rapporti con i portatori di interesse, e soprattutto si continua ad agitare in pubblico il drappo rosso che scatena il toro del populismo, nell’illusione che l’Italia starebbe molto meglio se la politica non ci fosse proprio. Se i partiti fossero aboliti, il Parlamento sciolto, e deputati e senatori mandati tutti a casa.

Virginia Raggi non ha alcuna colpa: è quello che personalmente mi auguro. E mi auguro che resti in Campidoglio il più a lungo possibile, così che i cittadini romani abbiano modo di giudicarla per come amministra la città. Ma una cosa non può fare: prendersela con quelli che ora le stanno addosso, che vedono la sua pagliuzza mentre hanno nell’occhio una trave. Perché non è una pagliuzza il programma sopra enunciato: passi per le polizze e chi le intasca, ma quelli che vogliono togliere di mezzo la politica, il parlamento, i partiti e ogni forma di intermediazione politica sono proprio loro, sono i grillini. Sono – se ne rendano conto o no – gli amici fanfaroni ed entusiasti, generosi e inconcludenti dei meetup. È il suo partito che ora cavalca l’onda, quello che si è inventato la retorica dell’uno vale uno, del parlamentare mero portavoce, del mandato imperativo, del Parlamento scatoletta di tonno, dei limiti al numero di mandati, dell’autoriduzione dello stipendio, del non-statuto e dei contratti privati con i quali si risponde non ai cittadini elettori, ma al Capo, a un’azienda privata e al suo Staff. Non sono cose tutte uguali, ma tutte fanno sistema e ostruiscono un discorso di verità sulla politica.

Che non diviene meno vero per il fatto che Craxi fu in seguito travolto dalle vicende giudiziarie.Lo è se mai di più, perché dimostra che quel discorso non riguardava il destino personale di un uomo e non doveva assolvere o giustificare nessuno: riguardava la strada che il Paese doveva imboccare.

Suona assolutorio riproporlo oggi? Può darsi, ma molto dipende dalle orecchie di chi lo ascolta. Se invece servisse non assolvere la Raggi e le sue polizze, ma a spingere qualcuno ad accendere una polizza sulla democrazia, allora tornerebbe davvero utile rileggerlo.

(Il Mattino, 4 febbraio 2017)

I grillini, il palazzo e il profumo della prima volta

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Sono loro, i Cinquestelle, la più vistosa differenza fra quello che c’era ieri e quello che ci sarà domani, in esito a questa crisi. Perché sono cominciate le consultazioni del Quirinale, che prenderanno almeno un paio di giorni e sopratutto vedranno sfilare una ventina di gruppi parlamentari, e non si è sentito ancora nessuno che si scagliasse contro questi consumati riti della vecchia politica, o magari che chiedesse di mandare tutto in streaming, perché i cittadini hanno il diritto di sapere cosa dicono i loro rappresentanti.

C’è una ragione: il Movimento non è mai stato così vicino al Palazzo, alle istituzioni, al governo. Con qualche sussulto interno per via della corsa per la leadership ma vicini, vicinissimi. Intendiamoci. In nessuna delle soluzioni di cui si ragiona, è previsto che i Cinquestelle entrino in una qualche maggioranza. Si tratti di un governo istituzionale, di un governo di scopo, di un governo di responsabilità nazionale, di un governo del Presidente o infine di un Renzi-bis, i Cinquestelle non ne faranno parte. La loro richiesta rimane una: al voto subito. Dopodiché molto dipenderà dalla legge elettorale, naturalmente, ma il voto sarà comunque, con ogni probabilità, anche una risposta alla domanda se Grillo e i suoi siano, per gli italiani, pronti per governare.

Lo sono? Secondo Alessandro Di Battista sì. Nell’intervista data al giornale tedesco «Die Welt», ripresa da «Repubblica», uno dei più autorevoli esponenti del Movimento – secondo il giornale, il più popolare – ha provato a delineare i contorni di una forza che non è più, anzi non è mai stata un semplice movimento di protesta. Che ha le idee chiare sui temi decisivi dell’attuale fase storica, quelli che determinano le linee di faglia lungo le quali si dispongono le principali formazioni politiche in Europa. Anzitutto l’immigrazione e l’euro. Sul primo tema, Di Battista è lapidario: «chi è privo di diritto d’asilo deve essere espulso». Sul secondo un po’ meno, nel senso che non dice esplicitamente che l’Italia deve uscire dalla moneta unica (i grillini vogliono che a decidere sia un referendum), ma attribuisce all’euro la responsabilità di tutti o quasi i mali dell’economia italiana.

Se a queste indicazioni aggiungiamo l’enfasi sulla green economy, l’idea di rilanciare lo sviluppo economico del Paese su enogastronomia, turismo e cultura, la lotta alla corruzione, la ricerca di una base sociale nella piccola e media impresa, la diffidenza verso la finanza che ruota intorno alle grandi banche, bene: otteniamo tutti i colori che Di Battista usa per completare il suo ritratto del Movimento. Che sono però due soltanto: il nero e il verde.

Di rosso, infatti, ce n’è pochino. Ma forse perché di rosso ce n’è sempre meno in tutta Europa: nell’Austria che domenica scorsa si è affidata al candidato verde per battere il candidato nero alla presidenza della Repubblica. E nella Francia che sembra andare sempre di più, alle presidenziali del 2017, a una sfida fra la destra lepenista e quella moderata, per archiviare definitivamente il settennato di Hollande. D’altronde, se si guarda dentro il partito socialista europeo: pure lì, il rosso sbiadisce sempre di più.

Ora però, tornando in Italia, il carattere antisistema o antipolitico del Movimento non dipende forse dal fatto che quei colori non erano compresi nella tavolozza costituzionale della prima Repubblica (e neanche nel progetto originario della comunità europea)? Il solo fatto di impiegarli ha effetti dirompenti. D’altra parte, lo scenario non solo politico, ma culturale e ideologico della prima Repubblica è cambiato, ormai un quarto di secolo fa, e tutti questi anni non sono bastati ad allestirne uno nuovo. La proclamata fine delle ideologie è, in realtà, la fine di alcune ideologie soltanto, perché è difficile non definire ideologiche certe prese di posizione, come quella dell’espulsione per tutti i migranti (fatti salvi, buon dio!, i soli richiedenti asilo) o il referendum sull’Euro (che procurerebbe più sobbalzi all’economia di quanti ne procuri la pura e semplice uscita). Si può dire anzi il contrario: che ad avere maggior fortuna elettorale sono proprio le forze in grado di innalzare la temperatura politica del voto, di investirlo di significati netti, persino drammatici, ben lontani dalla retorica delle necessarie riforme o dal ritornello grigio e burocratico della responsabilità.

Se così non fosse, il passaggio che l’Italia è chiamata ad affrontare non sarebbe così stretto. Perché la tavolozza dei colori è ormai mutata, e la sconfitta di Renzi è anzitutto la sconfitta di una via d’uscita dalla crisi della seconda Repubblica in grado di assorbire e far arretrare i Cinquestelle. Ma loro non sono arretrati; sono, anzi, avanzati.

E anche se una legge elettorale di impianto proporzionale dovesse svolgere la funzione di tenere i grillini lontano dall’area di governo, neanche così sarebbe un mero ritorno al paesaggio della prima Repubblica. Che aveva altri colori, un altro sistema politico e un altro orizzonte ideologico.

(Il Mattino, 9 dicembre 2016)

Grillo e gli altri: la sfida che verrà

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Massimo Adinolfi: Caro Direttore, ieri nel commentare a caldo il risultato del voto, mi sono servito dell’idea contenuta in un gran libro, «Malacqua». Ma in realtà meno per l’immagine di una pioggia ininterrotta che scende e ridiscende senza tregua, presagio di qualche funesta sventura, che per l’evocazione finale del mago della pioggia, Grillo. Non voglio scomodare la categoria del populismo a proposito del voto di ieri, anche se giudico sciocca l’obiezione di chi risponde dicendo che non si può considerare populista il 60% degli italiani. Certo che no: infatti il populismo è una malattia della politica, delle sue classi dirigenti. Non è il popolo ad essere populista, ma se mai i leader di turno. Detto ciò, resto convinto che il No abbia un significato politico più grande del merito della riforma costituzionale, e molto diverso da quello di un soprassalto di virtù civiche, repubblicane e antifasciste (qualunque cosa ne pensi l’Anpi). Questo significato sta nel rigetto delle diverse declinazioni delle politiche europee di uscita dalla crisi, un po’ più liberali o un po’ più socialiste che siano. In mancanza di alternative reali, tangibili, che mordano davvero la realtà di vita delle persone, meglio confidare nel repulisti proposto dal mago o dai maghi a Cinquestelle. Può darsi che Renzi abbia sbagliato a personalizzare o che abbia sbagliato strategia, ma francamente non avrei saputo suggerirgliene un’altra, se non proprio quella di evitare di portare a referendum la riforma costituzionale.

Alessandro Barbano: Caro Professore, evitare il referendum poteva e forse doveva essere la scelta di un leader legittimato dalle elezioni, ma non è questo il caso di Renzi. La genesi del suo governo spiega perciò in parte l’errore strategico della consultazione, assieme al clima dei tempi, che vuole che tutto si decida in una pubblica piazza. Ma di errori tattici Renzi ne ha invece commessi due, e la sua assunzione di responsabilità in diretta TV dopo il risultato del referendum rappresenta un’indiretta ammissione. Il primo, come molti hanno notato, riguarda l’aver personalizzato la battaglia referendaria, non solo e non tanto perché questa scelta ha definito i tratti di una sfida di uno contro tutti – che comunque era l’obiettivo dei suoi rivali – ma perché gli ha impedito di spaccare i fronti avversari andando a pescare alleanze trasversali capaci di portare consensi accessori alla sua causa. Il secondo errore riguarda l’unificazione delle modifiche costituzionali in un unico quesito, che ha trasformato una contesa sui contenuti in una contesa sui simboli. In un Paese la cui cultura politica è storicamente costruita sui simboli e refrattaria ai contenuti, la scelta è stata un involontario assist agli avversari, intenzionati a trasformare il voto sulla costituzione in un referendum sul premier. Ma gli errori di cui parliamo sono anche il riflesso della forte pressione mediatica che la politica subisce nel Paese, e che suggerisce, a chiunque voglia proporsi e confermarsi leader, di personalizzare la sua opzione. Diciamo che il premier ha risposto a una necessità del nostro sistema ma fatto male i calcoli. Personalizzando la battaglia referendaria, ha riacceso la passione civile dei cittadini italiani nel momento meno indicato: in primo luogo quando la sua immagine iniziava a subire un certo appannamento, pagando il prezzo inevitabile di riforme necessarie ma scomode e non prive di difetti, come quella della scuola, in un Paese geloso del suo immobilismo; in secondo luogo quando spirava un vento antielitario che non era, come qualcuno credeva, una tramontana di tre giorni, ma piuttosto un monsone destinato a segnare un’intera stagione di instabilità in Europa e in Occidente.

A tal proposito la mappa del risultato elettorale ci consegna una divisione netta dell’Italia del sì e del no attorno ad alcune coordinate: la geografia, il censo e, in minor misura, il livello di istruzione. Il No sfonda a Sud e nei vari Sud del Paese, tra i ceti meno abbienti e meno istruiti, cioè in un’area di esclusione sociale che la crisi del ceto medio ha acuito, e a cui si accompagnano ampissimi spezzoni della burocrazia pubblica, come la scuola, l’università e parte del pubblico impiego, affetti da una cronica frustrazione. Il Sì raccoglie proseliti nella parte alta della piramide sociale, tra gli imprenditori e i liberi professionisti, perdendo smalto man mano che si scende verso la base. È impressionante la proporzione diretta che esiste nelle metropoli tra il risultato del Sì e il reddito pro-capite: a Napoli, nei quartieri di Chiaia e Posillipo i favorevoli alla riforma superano il 46%, come nella città metropolitana di Milano. Al Vomero e all’Arenella scendono poco sopra il 30%, e nei quartieri periferici e più deboli di Scampia e Secondigliano non arrivano al 25. Questa geografia racconta una classe dirigente assediata in un centro genericamente metropolitano che non ha più contatti con il resto della società, e, attorno, le guarnigioni della rabbia e della protesta sociale con i loro condottieri, che si contendono le spoglie della democrazia rappresentativa. È un’iperbole drammatica, ma non molto lontana dalla realtà.

Poi ci sono i giovani. La loro adesione al No è plebiscitaria, ma non deve stupire: se hanno inibito fino ad annientare la loro naturale spinta trasformativa è perché hanno maturato coscienza piena del tradimento generazionale. Sono quelli che di più soffrono lo scarto apertosi nelle società globali, e in Italia in misura maggiore, tra aspettative e realizzazioni concrete. E qui entra in gioco la modesta performance di quelle che lei definisce le ricette liberali e socialiste rispetto alla crisi. Mi piace raccontarla in altro modo: è cioè l’incapacità della democrazia in Europa di governare l’innovazione e i suoi effetti bifronti sulle società postmoderne.

Ma torniamo al referendum. Quello che lei chiama mago della pioggia, e cioè Grillo, ha saputo far convogliare questa enorme massa di disagio in due canali: nel primo ha utilizzato il radicalismo morale per dare forma alla protesta e alla rabbia sociale; nel secondo ha sviluppato una dialettica partecipativa dal basso attraverso la rete, che ha riempito il vuoto lasciato dalla caduta dei corpi intermedi della politica tradizionale. Alla morte delle sezioni e dei circoli, allo scolorire dei comizi e di tutte le infrastrutture immateriali del vecchio pensiero politico, Grillo ha sostituito le piazze virtuali dove la passione civile si propone e si percepisce come autodeterminazione. È un’illusione, utopia di una democrazia diretta attraverso il web, ma non ancora smentita alla prova dei fatti, perché le esperienze di governo dei Cinquestelle, per quanto modeste o fallimentari, ancora non fondano quella che si direbbe una prova politica. Tant’é vero che la fretta che i grillini hanno ora di andare al voto è pari tanto alla convinzione di trovarsi con l’onda dei consensi in poppa, quanto alla preoccupazione di non subire un danno reputazionale dal protrarsi dell’avventura di Virginia Raggi alla guida del Campidoglio.

M.A.: Caro Direttore, quanto agli errori tattici seguiti sono d’accordo soprattutto su un punto: era il momento meno indicato. Sono meno d’accordo invece sulla personalizzazione, e meno ancora sull’opportunità dello spacchettamento. Sulla personalizzazione, in fondo lo dice lei stesso: è nelle cose, prima ancora che nelle scelte di leadership. Difficile del resto capire con quali altre armi Renzi avrebbe potuto motivare il suo elettorato. Più che su un limite di Renzi, mi sembra che ragioniamo su un limite ormai cronico del sistema politico italiano.

Lo spacchettamento, invece, proprio no: non credo che sia possibile fare una buona riforma per via referendaria, ritagliando con le forbici il lavoro fatto dal Parlamento. È chiaro che la suddivisione in più quesiti avrebbe magari consentito di vincere su alcuni punti minori, come l’abolizione del Cnel o quella delle Province. Forse Renzi avrebbe in tal caso limitato i danni, ma la sostanza del giudizio politico sarebbe rimasta immutata.

Del resto, la sua analisi è di gran lunga più convincente quando affronta i dati reali: la crisi e lo scollamento del ceto medio, il disagio fin quasi all’estraneità delle classi meno abbienti, il disincanto delle giovani generazioni. Gli errori tattici credo non abbiano inciso quasi per nulla: se è fondata la sua analisi, e credo lo sia, anche a non volerli commettere sarebbe cambiato molto poco.

Al tirar delle somme, resta il fatto che Matteo Renzi ha pensato di proporre al Paese come volano del cambiamento una riforma dell’ordinamento della Repubblica, a mio giudizio incisiva, che rispondeva a delle obiettive necessità di sistema, ma che non riguardava da vicino le condizioni reali di vita delle persone. E il Paese ha risposto di no, che non crede affatto che la ripresa economica e sociale dipenda da una migliore organizzazione dei poteri pubblici.

Questo è il nodo della questione. Sono francamente ridicoli quelli che si inebriano al pensiero che gli italiani hanno scelto – magari previa consultazione di un buon manuale di diritto costituzionale – fra Calamandrei e Boschi, fra Togliatti e Renzi, fra vecchi e nuovi costituenti. Gli italiani hanno detto chiaro e tondo, invece, che non è questo il punto: i giovani hanno detto che temono per il loro futuro, le piccole imprese hanno detto che pagano ancora troppe tasse, il personale scolastico che sono scivolati indietro nella considerazione della società e via di questo passo. So bene, e mi duole, che c’è in questo ragionamento un pericolo classista: i temi costituzionali non sarebbero per la generalità delle persone. Allora correggo il tiro e torno alla preoccupazione machiavelliana per l’occasione: questa non era l’occasione. Il momento non era opportuno, per tutti i motivi che lei ha spiegato. Che assumano però a uno: la crisi non è affatto alle nostre spalle.

Anche Renzi ha provato a correggere il tiro, in verità, cercando di imprimere alla riforma il significato di una legge contro la casta: non c’è riuscito, e non poteva riuscirvi. Perché quel fronte è ormai presidiato dai Cinquestelle, perché non si fanno le riforme costituzionali per tagliare i costi della politica, e perché dopo quasi tre anni di governo quello che dovevi fare su questo fronte dovevi averlo già fatto. Se pensi che le elezioni si vincono ancora su quel versante, coi tagli agli indennizzi e alle poltrone, hai perso prima ancora di cominciare.

Ora però resta da capire che fare. Con buona pace di tutti gli altri – la sinistra del Pd e le altre frange di contorno, i vari pezzi del centrodestra – si avvicina sempre più il momento in cui agli italiani le elezioni chiederanno una cosa soltanto, se vogliono o no un governo pentastellato (un monocolore?). Io mi auguro solo che le altre forze politiche si attrezzino sul serio per misurarsi con questa domanda, la sola che conti, perché dalla Brexit a Trump si è visto ormai che l’elettorato non teme più il salto nel buio, l’avventura o l’inesperienza. Anzi: magari è proprio quello che vogliono! La parola stabilità piace ai mercati e alle persone responsabili, ma non vuol dire nulla per chi ha le tasche vuote.

A.B.: Caro Professore, c’è un segnale nelle reazioni pentastellate al referendum che spiega il tentativo del movimento di compiere un salto di qualità e proporsi come forza di governo. «Non chiamateci più populisti», diceva l’altra sera in TV Alessandro Di Battista, rivendicando con la vittoriosa difesa della Costituzione un’acquisita maturità. Che evidentemente non c’è, e non può esserci, per debolezza e ambiguità di un pensiero politico in cui coesistono, a fianco ad alcune intuizioni felici, troppe contraddizioni. E non può esserci, ancora, fino a quando la selezione della classe dirigente pentastellata oscillerà tra il settarismo di una comunità arbonara e ll’anomia di un plebiscito internettiano.

Ma, come lei dice, la mancanza di maturità non esclude la vittoria, soprattutto se i partiti tradizionali, e in primo luogo il Pd, continuano a suicidarsi cronicizzando uno scontro all’ultimo sangue dietro il quale i cittadini non vedono che una lotta di potere fra fazioni. Non v’è dubbio che il Movimento sia la forza politica, anche attraverso la Rete, è riucita a sintonizzarsi meglio con gli umori del Paese, e in parte a determinarli. Lo ha capito Matteo Renzi, che dimettendosi anticipatamente in pubblico davanti alla TV e non, come vorrebbero le forme ufficiali della demmocrazia, sul Cole davanti al capo dello Stato, ha ritrovato il lessico del «cuore» smarrito nel Palazzo, suscitando emozione e rispetto tra i suoi sostenitori, ma anche tra gli avversari. Un congedo in stile populista, il suo, se dovessimo definirlo secondo i canoni della tradizione. Ma, che piaccia o no, la politica in Italia è rmai questo. E se per salvare la sostanza della democrazia rappresentativa bisogna giocare sulla mozione degli affetti, allora sì, forse ha ragione lei: la personalizzazione è il linguaggio obbligatorio del leaderismo contemporaneo. A tempo scaduto il premier è sembrato ribadirlo. A tempo scaduto, ma lui sa bene che stanno per iniziare i supplementari e che la partita è ancora alla sua portata.

(Il Mattino, 6 dicembre 2016)

Zapatismo in salsa partenopea

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Come stanno veramente le cose, a Napoli, se in una tiepida domenica di febbraio il suo Sindaco, Luigi De Magistris, può salire su un treno, approdare intorno alla mezza nella Capitale, all’Assemblea di Cosmopolitica, nel luogo fondativo di una nuova formazione di sinistra-sinistra, e lì indossare, fra gli scroscianti applausi dei partecipanti, i panni di Emiliano Zapata, il rivoluzionario messicano d’inizio Novecento?  De Magistris racconta l’esperienza di Napoli, e parla dell’acqua pubblica, della cittadinanza onoraria «al capo dello Stato della Palestina» e al leader curdo Abdullah «Apo» Ocalan, di unioni civili e testamento biologico. Non dice una parola sullo stato degli edifici, dei trasporti o delle strade, o sulla classifica dell’eurobarometro che vede Napoli penultima in Europa per efficienza amministrativa:  la poesia della rivoluzione non va molto d’accordo con la prosaica cura quotidiana della città. Poi De Magistris si scaglia contro l’accerchiamento istituzionale, e mette «il corpo umano» (niente meno!) «contro il liberismo. contro la camorra, i grandi partiti, le cricche e le masso-mafie» così: come se fossero la stessa cosa. Ma il culmine lo raggiunge quando spiega, in un crescendo irresistibile, la cosa di cui va più orgoglioso: il sistema di autogoverno dei napoletani. Che non significa che a Palazzo San Giacomo non sia più De Magistris a firmare le delibere, ma che lui non dà l’ordine di sgombero quando i napoletani occupano edifici abbandonati o in disuso: «mi prendo la denuncia e li vado a ringraziare, perché stanno liberando la città». Lo chiama «zapatismo in salsa partenopea», e consiste non nel ripristinare servizi e luoghi della città, nella manutenzione urbana o nel rifacimento dei palazzi, ma nel tollerare, anzi incoraggiare le occupazioni di luoghi, pubblici e privati. Napoli è «fuori controllo» afferma il primo cittadino (non un turista esasperato o un osservatore annoiato). Ma niente paura: «è il popolo che sta trovando la sintesi».

Dopo la comune di Parigi, studiata da Marx, e quella di Morelos, organizzata da Zapata, c’è dunque la Napoli di Luigi De Magistris, in connessione sentimentale col suo popolo. E una qualche connessione ci deve essere effettivamente, se è vero quello che il sindaco racconta, quando rievoca i giorni difficili vissuti come  sindaco di strada: lì è scattato qualcosa. Stare fuori dal Palazzo gli ha fatto bene: lo ha convinto che poteva mettersi dalla parte di quei cittadini – e sono la maggioranza – che si lamentano di tutto quello che a Napoli non funziona, senza assumersene neanche di striscio la responsabilità, nonostante il suo ruolo istituzionale, ma anzi addossandola agli altri, ai «poteri forti» che affamano la città. Tutto quello che c’è di buono a Napoli viene dal basso, dalle associazioni e dai centri sociali, e tutto quello che c’è di male viene dall’alto. E il Sindaco ovviamente colloca se stesso in basso, in mezzo al popolo: per strada, appunto.  Il racconto che in tempo di guerra, o sotto embargo, i governanti messi al bando dalla comunità internazionale fanno ai loro connazionali (quasi sempre, in realtà, sudditi) De Magistris ha scoperto che poteva farlo lui, in tempo di pace, a Napoli., senza tema di contraddizione, scaricando sulle banche o sul governo, sul liberismo o sui giornali, sul centrodestra e il centrosinistra, tutti i mali della città.

Non è però un discorso che ci si possa limitare a confutare: non perché sia vero, ma perché le confutazioni si situano sul piano logico, non su quello politico. Sul piano politico, una simile narrazione avrà presa se e finché mancherà una risposta reale ai problemi che De Magistris si limita a rimuovere, costruendo con un abile spostamento la figura dei nemici del popolo. Se il tratto meridionalista delle politiche nazionali si perde, se Napoli rimane periferia sia per Roma che per Bruxelles, se non si impone una nuova classe dirigente, se un consenso ampio non si raccoglie intorno a una nuova proposta politica, e non diviene egemone, non si fa largo fra i detriti del passato e le incertezze politiche e culturali del presente, allora sarà sempre possibile al Sindaco col maglione rosso accendere gli animi al grido di «viva il popolo!», convertendo il disordine in segno felice di anarchia e libertà, e l’incapacità di gestire il patrimonio pubblico in esperienza luminosa di autogoverno. Il sonno di un’autentica politica riformatrice genera De Magistris, e svegliarsi rimane sempre un’operazione complicata.

(Il Mattino, 23.02.2016)

Gli USA e le primarie dei populisti

2010-06_cartoon.jpgNell’aprile dello scorso anno, quando Hillary Clinton annunciò la sua candidatura alla Casa Bianca, si aprirono i giochi. Letteralmente. La SNAI lanciò le scommesse sulle presidenziali americane: Hillary Clinton stava a 2, Jeb Bush a 5. I favoriti erano loro. Bernie Sanders e Donald Trump non erano nemmeno quotati.

Alla vigilia del voto nello Iowa, con cui il rutilante circo delle primarie comincia a attraversare l’America, la situazione è molto diversa. Sono i due outsiders a tenere il banco nei rispettivi campi. Da una parte il socialista Sanders; dall’altra il miliardario Trump.

Le primarie, in America, sono una roba vera. E soprattutto una storia lunga molti mesi. Non si contano i candidati che, partiti con il vento in poppa, hanno dovuto ben presto ripiegare le ali e uscire di scena.

Evitiamo dunque di fare previsioni sulle sorprese che la politica americana ci riserverà nei prossimi mesi, e limitiamoci a guardare con occhi europei quello che sta accadendo.

Un paio di cose si fanno subito evidenti, nonostante le diversità di sistemi elettorali, politici e istituzionali. I favoriti della vigilia si prestavano ad essere descritti come espressione dell’establishment. Di più: una è moglie di un ex Presidente, l’altro è figlio e fratello di ex Presidenti, Hillary Clinton e Jeb Bush sono i rappresentanti delle due principali «case regnanti» degli ultimi trent’anni. L’una e l’altro possono inoltre contare sul sostegno delle rispettive macchine di partito.

I candidati che rubano loro la scena si lasciano invece rappresentare come candidati «radicali», «estremisti», «populisti». Il significato delle parole è abbastanza fluido perché un termine slitti sull’altro e mantenga contorni piuttosto vaghi. Populismo, in particolare, è una sorta di parola-baule, dentro cui ci finisce un po’ di tutto: e dunque sia le piazzate di Trump contro gli immigrati, sia le intemerate di Sanders contro i ricchi vengono catalogate sotto la voce populismo. Ma un filo comune denominatore c’è: è l’avversione contro quelli di Washington. Noi diremmo: contro il Palazzo, poco importa se a tuonare contro il Palazzo sia un miliardario che i palazzi li costruisce, oppure un politico navigato, con alle spalle una trentina d’anni di incarichi istituzionali.

Il fatto però che entrambi, almeno a giudicare dai sondaggi, abbiano fatto breccia nell’opinione pubblica indica chiaramente che l’affanno delle tradizioni politiche nazionali – la consunzione, quasi, del lessico politico-intellettuale del Novecento – non è un problema solo europeo. Qualche segnale, in fondo, era già venuto nel 2008, quando Barack Obama, primo afroamericano, sbaragliò il campo da outsiders, i favori del pronostico essendo anche quella volta di Hillary. Nell’altra metà del campo i repubblicani puntarono invece su un uomo di apparato, Mitt Romney, che evidentemente non suscitava gli entusiasmi di un elettorato già radicalizzatosi. E persero.

L’ondata populista che sta scuotendo l’Occidente – ecco un punto di differenza  – in America si riversa però dentro i partiti, mentre da noi – come in Grecia, o in Spagna – sceglie altre vie. Se l’ex sindaco di New York, Bloomberg, dovesse davvero candidarsi da indipendente, preoccupato dalle figure estreme che tengono il campo, il rovesciamento sarebbe completo: in Europa nascono nuove formazioni politiche anti-sistema; in America, sarebbe invece la risposta di sistema a doversi inventare una strada nuova.

Il confronto con l’America è però istruttivo per un’altra ragione. Gli Stati Uniti sono un Paese in salute. Obama lascia un’economia in crescita. Qualche mese fa, l’economista James Galbraith spiegava il successo di Syriza o di Podemos, con le politiche di austerità adottate dall’Unione europea in piena recessione. Al contrario, aggiungeva, Obama ha praticato una strategia keynesiana, con imponenti iniezioni di denaro pubblico e programmi di sviluppo da miliardi di dollari. Ora, la spiegazione di Galbraith può darsi funzioni in economia, ma evidentemente non funziona in politica, visto che nonostante i successi della politica economica obamiana, democratici e repubblicani faticano ad esprimere candidati in linea con le tradizioni più moderate e centriste dei rispettivi partiti. L’elettorato sembra chiedere segnali di discontinuità, e persino gesti di rottura. Li chiede in America non meno che in Europa: il che vuol dire che ce la possiamo prendere con l’euro, con la crisi o con la Merkel finché vogliamo, ma un malessere più profondo sta forse cominciando a manifestarsi. Se così fosse, vorrebbe dire che in gioco non è solo il futuro di tradizioni e ceti politici, ma il destino stesso della democrazia.

(Il Mattino, 30 gennaio 2016)