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Il tramonto del talk show

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Il figlio terzogenito di Totò Riina, condannato per associazione mafiosa, che parla dal primo canale della televisione pubblica e promuove il suo libro: Riina family life (una cosa andrebbe detta pure sul confidenziale titolo in inglese, ma questa è un’altra storia). Salvo Riina che nel salotto televisivo più autorevole della Rai, «Porta a Porta», racconta com’è vivere, guardare la tv e mangiare biscotti in casa del capo dei capi della mafia e quanto bene lui volesse al padre e – immagino – quanto bene il padre volesse a lui.

Chi la mette così non concede attenuanti a Bruno Vespa: la trasmissione di ieri non s’aveva da fare. Chi invece riporta l’intervista e le domande del giornalista, e anche i suoi silenzi abbastanza sbigottiti ad ogni risposta reticente di Salvo Riina, che si tiene per sé ogni giudizio sugli omicidi e gli ergastoli del padre –  lasciando intendere che sì, insomma, d’accordo, ma cosa c’entra l’affetto di un figlio? – chi la mette in quest’altro modo ha tutto il motivo di ricordare la prima regola del giornalismo, che è quella di dare la notizia, e dunque di mettere il microfono dovunque vi sia una storia da raccontare e far conoscere all’opinione pubblica.

Nel primo caso Riina parla; nel secondo, invece, risponde. Nel primo caso Riina si prende i riflettori e la scena e fa pubblicità alla sua immane fatica letteraria; nel secondo, la luce gli finisce addosso per capire come sia possibile raccontare la domestica felicità di una famiglia mafiosa, lasciando fuori dalla porta di casa le stragi di Capaci, di via d’Amelio e tutte le altre vittime della mafia. Nel primo caso è soltanto spettacolo; nell’altro è autentico giornalismo.

Dove sta la verità? Vorrei prendere questa domanda alla lettera: vorrei soffermarmi sul «dove», cioè sul luogo, sullo studio, sul format. Non penso infatti che sia in discussione l’accuratezza dell’intervista. Nei commenti seguenti alla messa in onda, non ho trovato riprovazione per il tenore delle domande. Non direi nemmeno che si possa trattare della mancanza di un adeguato contraddittorio. Le parole più belle mi sono parse le prime pronunciate del figlio di Vito Schifani, uno degli agenti uccisi a Capaci, subito dopo la fine dell’intervista: povero lui, ha in sostanza detto Antonio Emanuele Schifani, povero lui, Salvo, che non ha potuto avere un’adolescenza normale e libera, come quella che ho potuto invece avere io. Che è come dire: anche quando la mafia vinceva in realtà perdeva, stava perdendo, e chi ha vinto sono io, in tutti questi anni ho vinto io per la vita che ho avuto e pure questa sera vinco io, perché non sono costretto a parlare a mezza bocca come Salvo Riina.

Di cosa si tratta allora? Di due cose, credo: della bardatura istituzionale che la trasmissione di Bruno Vespa si è data e anzi si è conquistata nel corso degli anni, e della stessa natura del talk show. Per l’una e per l’altra ragione è difficile ascoltare le parole del figlio di Totò Riina come le si può eventualmente leggere su un giornale, o magari in rete, su un qualunque canale video. Non è la stessa cosa: non c’è infatti, in questi ultimi casi, alcun supplemento di legittimazione ulteriore, che venga regalato all’intervistato. Faccio un esempio, per chiarire il punto: cosa si direbbe se Salvo Riina andasse come ospite in studio al Tg1 delle 20? Non sarebbe un po’ troppo? Eppure, se bastasse rilevare che di notizia si tratta in ogni caso, e anzi persino di uno scoop, non vi sarebbe ragione per non riservargli anche uno spazio del genere. A lui o magari al padre. E invece gli spazi – anche quelli televisivi – non sono affatto sedi neutrali; sono anzi spazi qualificati, connotati anzitutto dalla loro storia e dalla loro funzione. Qui non è in questione, io credo, la natura di servizio pubblico: una notizia è una notizia anche per la tv di Stato. Penso invece che si tratti di un vincolo meno formale ma non per questo meno robusto, per cui Porta a Porta ha potuto essere il luogo quasi ufficiale in cui Berlusconi firmava il contratto con gli italiani, o dove giungeva in diretta la telefonata diPapa Wojtyla. Poi, certo, anche quello dei racconti dei tanti delitti di cronaca nera, ma per l’appunto: non si può derubricare la mafia a un episodio in cronaca, da raccontare magari con qualche morbosità.

C’è poi la questione dei talk show. Questione che si è posta già con i Casamonica in studio, qualche mese fa. Anche in quel caso, veniva fatto di chiedersi se la normalità di una chiacchierata in un salotto televisivo non avesse dei limiti intrinseci: invece dell’inchiesta, il dibattito. Dove tutti prendono la parola allo stesso titolo, con pari educazione ed eleganza – altre volte dandosi invece sulla voce – senza che però si riesca a bucare per davvero la scena allestita. È l’ambiguità di ogni rappresentazione, che corre sempre il rischio di velare, invece di far vedere, la realtà rappresentata. Ma ci siamo talmente abituati a questa forma di intrattenimento televisivo, che abbiamo quasi perso memoria di altre forme di giornalismo, più scabrose, meno confezionate, più votate al reportage e meno al siparietto, più interessate alle voci che provengono dalla realtà e meno preoccupate di sé.  Se le polemiche di queste ore servissero a spingere la Rai in questa direzione, forse non sarebbero del tutto inutili.

(Il Mattino, 8 aprile 2016)

La realtà persa sulle poltrone del talk show

Immagine 11 settembre 2015

Se fosse possibile mantenere un filo di leggerezza, si potrebbe scomodare una massima evangelica: «oportet ut scandala eveniant». E cioè: un bello scandalo è proprio quel che ci voleva. Non però per tirar su gli ascolti, o per inaugurare con il botto la nuova stagione televisiva, ma per avviare una riflessione più generale sul giornalismo televisivo. Che s’è seduto sulle poltrone e i divanetti dei talk show, e di lì si schioda sempre più faticosamente, sempre più difficilmente.

Naturalmente, la riflessione deve andare oltre l’indignazione o l’amarezza per la trasmissione di Porta a Porta dell’altra sera, quando sono stati ospiti di Bruno Vespa la figlia ed il nipote del patriarca del clan dei Casamonica, già omaggiato nei giorni scorsi a Roma di uno sfarzoso funerale. Lì dove si sono seduti nelle passate stagioni, e ancora si siederanno, le più alte cariche dello Stato, nonché personaggi celebri del mondo della cultura, della politica, dello spettacolo, proprio lì erano accomodati Vera e Vittorino Casamonica, a raccontare quanto fosse grande il «re di Roma».

La trasmissione ha sollevato un’ondata robustissima di critiche. Al cui centro però non può trovarsi il semplice fatto che Vespa ha dato la parola ai familiari del boss deceduto. Il giornalismo dà la parola a chiunque abbia qualcosa da raccontare, a chiunque permetta di comprendere fatti e circostanze meritevoli di attenzione, a chiunque consenta di avvicinare e conoscere pezzi del nostro Paese, per gradevoli o sgradevoli che siano. Ci si regola in base alla notizia: se la notizia c’è, la si dà. Ed è una notizia ascoltare chi fosse Vittorio Casamonica secondo i suoi familiari. Del resto, è evidente: quale giornale non ospiterebbe un sevizio, un’inchiesta, un reportage che aiutasse a capire i mondi-di-mezzo da cui, lo si voglia o no, sono lambite anche le nostre esistenze? Quello dei Casamonica è uno di questi mondi: nei codici di comportamento, nelle abitudini di consumo, persino nei gusti musicali, e naturalmente nel coacervo di interessi e nelle dinamiche sociali intrise di violenza che lo attraversano.

Il motivo di riflessione, dunque, è un altro. E cioè non se queste cose si devono vedere, sapere, raccontare, ma come lo si possa fare. Come, e dove. Lo studio televisivo con le poltroncine sul proscenio – da molti anni signore incontrastato dell’approfondimento giornalistico nella televisione italiana  – è il mezzo, è il luogo adatto? Funziona allo scopo?

Di sicuro è funzionale ai costi. Per fare uno share di tutto rispetto, infatti, di soldi ce ne vogliono pochi. Ci vuole senz’altro un buon conduttore e una buona redazione, ma poco altro.

O meglio, quell’altro che ci vuole è l’Ospite. Il quale ospite rientra necessariamente in una di queste due categorie: o è una personalità di riconosciuta autorevolezza, o è persona  che dall’apparire in trasmissione ricava una autorevolezza, se non riconosciuta, riconoscibile dal pubblico. E dunque ci va, anzi: smania per andarci,.

Con quali effetti, però? Un effetto di omaggio. Lo ricevono il politico e l’esperto, il cantante e il cardinale, il professore ed il campione sportivo, il testimone e il «caso umano». Tutti, indistintamente. Tutti si siedono sulle stesse poltroncine, tutti sono incorniciati dalle stesse telecamere. Tutti sono nello stesso spazio: in studio. Così, per quanto ficcanti siano le domande o energico il contraddittorio, tutto si muove dentro lo stesso acquario, e su tutto prevale quell’unica logica di rappresentazione.

Un grande antropologo britannico, Tim Ingold, dice che per studiare gli uomini ci vuole osservazione, non oggettivazione. La prima entra dentro le cose e gli uomini e si fa insieme a loro; la seconda li tiene a distanza, li immobilizza ed anzi li raggela. Possiamo fare un passo ulteriore. Seduti nel salotto televisivo, intronizzati nella figura dell’Ospite, non solo gli uomini non vengono osservati, ma vengono soltanto esibiti.

Questa esibizione è in sé spudorata, ed è infatti la televisione il regno della più assoluta spudoratezza.

Ma allora la domanda è: cosa vediamo davvero di quel mondo di mezzo, che vive in una zona grigia, più o meno nascosta, una zona ambigua, torbida, sfuggente, quando non proviamo ad entrarci dentro, magari con un’inchiesta d’altri tempi, ma lo invitiamo nel salotto televisivo, lo portiamo sotto le luci dei riflettori? Quando ai Casamonica togliamo la musica che loro avevano scelto per il funerale  del capofamiglia, e ci mettiamo quella della sigla del programma?

La domanda non suoni retorica. Perché il problema di scoprire che paese l’Italia sia diventata, cosa sono i quartieri delle grande città, chi comanda nei circuiti dell’economia legale e di quella illegale, chi controlla il territorio e con quali mezzi, quali modelli sociali e culturali si impongono, cosa succede nei luoghi reali di vita delle persone esiste. Dentro tutto ciò ci sono pure i Casamonica. Ed esiste pure, aggiungiamolo, la necessità di raccontare le ginestre che sorgono in mezzo al deserto, o i pezzi di paese che cambiano, le cose nuove che si inventano e quelle vecchie che vanno a morire. Ma c’è la voglia di raccontarle davvero queste cose? E come, e da dove la Rai pensa di farlo? Forse tutta la levata di scudi più o meno moralistica di queste ore non vale la più banale richiesta che si può rivolgere al servizio pubblico, di provare a fare, insieme allo spettacolo e alle sue pur legittime esigenze, anche un’altra non piccola opera, che è opera di conoscenza.

(Il Mattino, 12 settembre 2015)