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Soddisfatti ma infelici

Non essere cattivo

La sintesi che il Censis offre dell’annuale rapporto sulla situazione sociale del Paese si fonda su due elementi contraddittori: da un lato i numeri mostrano che l’Italia ha ripreso a crescere; dall’altro che sono in crescita anche le “passioni tristi” della malinconia e del risentimento.

L’Italia va: cresce l’industria, cresce la produttività del sistema manifatturiero che continua a rappresentare la spina dorsale di un Paese a forte vocazione industriale. Crescono le esportazioni e crescono finalmente anche i consumi delle famiglie, dopo il “grande tonfo” degli anni passati. Persino la spesa per servizi che il Censis classifica come “culturali e ricreativi” è in aumento.

Si tratta tuttavia di uno scenario che ha ancora ombre, oltre che luci. L’ombra più lunga che pesa sul futuro del Paese è il calo degli investimenti pubblici, nonché il divario fra le diverse aree del Paese (difficilmente colmabile senza un forte impegno dello Stato). Colpisce ad esempio il diverso trend demografico dei grandi centri urbani: le città del Nord crescono, al Sud registrano un tracollo: così la finiamo di dire che tutti vorrebbero vivere a Napoli perché a Napoli ci sono mare e sole, mentre a Belluno no.

Ma soprattutto colpisce l’altro lato della medaglia, quello che il Censis chiama “l’Italia dei rancori”, e per il quale viene offerta una spiegazione abbastanza intuitiva: “Non si è distribuito il dividendo sociale della ripresa economica e il blocco della mobilità sociale crea rancore”. Detto fuor di metafora: non tutti gli italiani stanno meglio, e quelli che stanno peggio, o che semplicemente non hanno avvertito alcun beneficio dalla ripresa dell’economia, covano comprensibilmente motivi di insoddisfazione, che sfociano in insofferenza e risentimento.

C’è però un numero che sembra non quadrare, e che deve perciò destare particolare attenzione. Secondo il rapporto del Centro Studi, a dichiararsi molto o abbastanza soddisfatto della vita che conduce non è affatto una minoranza, un ristretto numero di italiani che ce l’hanno fatta, o che sono stati baciati dalla sorte, ma è addirittura il 78,2% della popolazione. Chi l’avrebbe mai detto! Ben tre italiani su quattro si dicono contenti del proprio stile o tenore di vita.

Ma, se è così, come si spiega quel sentimento di sfiducia che percorre la società italiana, che ne alimenta la rabbia e, più spesso, la rassegnazione? Come mai non fa opinione – o forse meglio: come mai non dà il tono al discorso pubblico – quel 78,2% di italiani che si gode una propria, piccola felicità quotidiana? Come mai prevale invece il rancore? Forse, l’unica risposta plausibile è la seguente: se gli italiani sono contenti della vita che fanno, e se d’altra parte non nutrono fiducia nel futuro e covano sentimenti di rabbia e frustrazione, è perché la loro felicità è una felicità puramente privata, quindi dimezzata, legata a una dimensione del vivere del tutto scollegata dallo spazio pubblico in cui si dà nome e senso alle cose.

Qualcosa del genere viene indicato, nella sintesi del rapporto, oltre che dalla consueta gragnuola di percentuali negative che investono la politica e le istituzioni, in cui più nessuno sembra credere, anche alla voce: immaginario collettivo. Che misera cosa è, infatti, un immaginario collettivo in cui primeggiano i selfie e i tatuaggi, lo smartphone e la chirurgia estetica (e in cui comunque rimangono saldi beni primari come la prima casa e l’automobile)? Al primo posto in questa speciale classifica delle faccende che occupano i pensieri degli italiani e ne plasmano bisogni e desideri stanno loro, i social network, che hanno ormai conquistato, secondo il Censis, un “ruolo egemonico”.

Ora, questa parola, gravida di significato, richiede una riflessione in più. Perché se diciamo soltanto che sono i social network a fare opinione, a dettare l’agenda, a formare il sentiment del Paese, rischiamo di cadere in un banale determinismo tecnologico. La sfera pubblica cambia: come potrebbe essere altrimenti? Cambia persino l’umanità dell’uomo, figuriamoci se non cambiano i modi in cui si disegna uno spazio sociale nuovo, nel quale sono totalmente destrutturate, quando non semplicemente assenti, le tradizionali appartenenze, i tradizionali vincoli, le tradizionali forme della rappresentanza. Ma la disintermediazione, che sperimentiamo tutte le volte in cui in rete ci viene richiesta la nostra personale, individualissima opinione, o ci affidiamo avidamente alle altrettanto individuali opinioni altrui, aggregate su base puramente statistica, non è un processo neutrale, meramente tecnico. Nessuna forma di razionalità sociale possiede queste caratteristiche. E nessuna, direbbe la vecchia critica marxista, è sganciata da interessi di classe – noi diciamo almeno: anonima e disinteressata. Ognuna ridisegna invece i luoghi del senso e del non senso, e dunque di quello che, per ciascuno di noi, vale la pena fare o non fare. A questo però la politica non arriva più, e con essa non ci arrivano le classiche agenzie di mediazione sociale: i partiti, i sindacati, la scuola. Ma neppure i distretti industriali, che fornivano supplementi identitari a livello di territorio.

Così, questa è oggi l’Italia: divisa, oltre che da storiche differenze economiche e geografiche, anche tra una moderata, incerta, trascurabile felicità privata e un generale discredito pubblico, un rattrappimento delle ragioni comuni, introvabili nel pulviscolo della Rete. E insieme una diffusa sensazione di disgusto e l’assenza di quelli che il Censis chiama “miti positivi”.

Questa legislatura, che si chiude con dati finalmente convincenti sul versante dell’economia, ha insomma il dovere di mandare qualche segnale anche su quell’altro versante, sul quale il lavoro di ricostruzione dell’ethos civile, politico e culturale del Paese evidentemente è ancora di là dal cominciare.

(Il Mattino, 2 dicembre 2017)

Mezzogiorno, la surroga della Chiesa

imagesLa Chiesa si dà convegno per parlare di lavoro, del futuro dei giovani e di Mezzogiorno. Lo fa chiamando a ragionare di problemi sociali, di welfare, di prospettive occupazionali, il Presidente della CEI, il cardinal Bagnasco, e il Presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca; il Ministro per il Mezzogiorno, De Vincenti, e un economista di chiara fama come il professor Becchetti. E poi i vescovi delle chiese del Sud, riuniti dal Cardinale Sepe, il prossimo nove febbraio, per lanciare un messaggio che ha già, fin nell’annuncio, un fortissimo carattere performativo: segnala cioè, per il solo fatto che viene lanciato, che gli altri corpi intermedi della società hanno perduto questa capacità. La Chiesa parla, mentre gli altri – i partiti, i sindacati – sembrano aver perduto ogni voce.

Merito di Papa Francesco? Sicuramente il clima aperto dal pontificato del gesuita Bergoglio qualcosa c’entra. L’enciclica «Laudatosi’»ne ha in certo modo restituito la fisionomia ideologico-culturale, se è lecito dir così. In quel documento, il Pontefice metteva sotto accusa la finanziarizzazione dell’economia, stigmatizzava le diseguaglianze prodotte da una società retta esclusivamente dalle regole del mercato, invitava gli Stati ad agire, guardava alle sfide del mondo globale – soprattutto sui temi ambientali – dalla parte dei paesi in via di sviluppo. Vi era insomma la promessa di un impegno politico, che l’iniziativa assunta dal Cardinale di Napoli raccoglie ora concretamente. Ed era qualcosa di più dell’opzione preferenziale per i poveri, che appartiene alla dottrina della Chiesa: era – ed è – una maniera di essere presenti nella società, affidata più che a questioni teologiche a temi economico-sociali, che la crisi rende più impellenti.

Ma non sono i cambiamenti nella Chiesa a dare il senso della prossima iniziativa della Curia napoletana. È piuttosto l’atrofizzazione dei partiti, sempre meno in grado di portare al confronto con la società civile scelte e ideali, interessi e valori, programmi e politiche, a procurare risalto al convegno ecclesiastico.

Il fatto è che i partiti subiscono una perdita doppia. Da un lato, c’è una perdita di intelligenza della realtà, una sempre minore capacità di elaborazione, persino un deficit di immaginazione: dall’altro, e più gravemente, c’è una perdita di credibilità che rischia di minare anche i più nobili tentativi di riprendere il filo di una discussione pubblica sui grandi temi della società, del Mezzogiorno, del lavoro.

Ad esempio. Sono attualmente in discussione in Parlamento norme in tema di contrasto alla povertà e di riordino del sistema dei servizi sociali. C’è l’idea, su cui sta lavorando il governo, di introdurre una misura nazionale di contrasto della povertà e dell’esclusione sociale, con l’obiettivo di garantire su tutto il territorio nazionale gli stessi livelli di assistenza delle prestazioni a contenuto sociale. Quel che non c’è, e che non ci sarebbe anche quando il progetto dovesse andare in porto, è l’investimento politico, culturale, persino simbolico su un tema simile, la capacità di costruire identità, di fare comunità, di creare legami e motivi di condivisione.

Nella società, i partiti non ci sono più. Ci sono nelle istituzioni, forniscono personale agli apparati dello Stato, rimangono con difficoltà drammaticamente crescenti il canale di legittimazione delle istituzioni democratiche, ma nella società non ci sono. C’è il terzo settore, c’è il volontariato, ci sono le parrocchie (un po’ più vuote di prima), resistono altri (pochi) centri di aggregazione. Ma i partiti no. I partiti sono come certe rilevazioni metereologiche di una volta: non pervenute. Manca la stazione emittente. Nessuno lancia segnali, da quelle parti. Cosa manca? È colpa di chi?

Qualche anno fa Zygmunt Bauman, recentemente scomparso, scriveva che nelle società contemporanee le nuove povertà sono caratterizzate essenzialmente da una situazione di «sottoconsumo». Il centro del discorso di Bauman stava nell’idea che i poveri siano oggi non tanto persone che non producono, ma che non consumano: «una voce passiva del bilancio della società attuale».Bauman riteneva che una società della piena occupazione non sarebbe più tornata. Per la prima volta nella storia, scriveva il sociologo polacco, i poveri sono semplicemente inutili, privi di valore, di troppo. Non servono nemmeno come manodopera di riserva. Non c’è, insomma, nulla di buono che si possa cavare da loro: sono un peso e sono indesiderati. La repentina caduta del consenso intorno ai sistemi di welfare nasce, per Bauman, da questa inedita condizione. Perché però ricordare queste analisi? Con una disoccupazione giovanile al 40%, certe riflessioni rischiano persino di apparire oziose. E invece è il contrario. Perché la figura del povero, o del disoccupato, o dell’emarginato, cambia di significato a seconda di come cambia il clima generale della società.

L’iniziativa della Chiesa partenopea dice proprio questo: che occorre prendere questi temi anche dal lato dei modelli culturali di riferimento, della trama di valori che essi sottendono, del campo di idee in cui chiedono di essere interpretati. I partiti hanno completamente rinunciato a questo profilo: credevano di buttar via la zavorra, hanno perduto in realtà la loro stessa ragion d’essere.

(Il Mattino, 3 febbraio 2017)