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Lotta  al divario, l’ «ammuina» non serve più

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Basta che non si tratti soltanto di fare ammuina. Che quelli che stanno a prua vanno a poppa, e quelli di poppa vanno a prua. E così, dando l’impressione che vi sia sulla nave un gran daffare, si lasciano invece le cose come stanno. Se questa è la preoccupazione del premier, allora si comprende la risposta sbrigativa rilasciata ieri: «mentre qualcuno piange, altri fanno». Incalzato dalla stampa, dopo la pubblicazione del Rapporto Svimez 2015 sull’economia del Mezzogiorno, il Presidente del Consiglio ha lasciato intendere due cose. La prima, che non è interessato a entrare in una discussione sul Mezzogiorno, sui ritardi, sulle colpe, sulle responsabilità, sulle cause, e su tutto quello che la «questione meridionale» torna a muovere nel nostro Paese. La seconda, che a metterla ancora e sempre con l’analisi storica, l’analisi culturale, l’analisi sociologica, l’analisi antropologica si cade in quella cultura del piagnisteo sterilmente rivendicativa, che al Sud non fa fare un solo passo avanti. La storia del piagnisteo varrebbe insomma quanto i «gufi» o i «frenatori» o i «rosiconi», cioè quanto le altre metafore che il premier ha messo in circolo in questi mesi di governo per indicare tutti quelli che ostacolano lo sforzo riformatore del governo. Ed è vero, probabilmente, che neanche la discussione, rilanciata dalla minoranza del Pd in questi giorni, sul Ministro del Mezzogiorno, o su una eventuale delega per il Mezzogiorno cambierebbe di per sé la qualità di questo sforzo.

Dopodiché però la Direzione nazionale del partito democratico si riunisce proprio oggi per parlare di Mezzogiorno. Le parole che Renzi non ha detto, preferendo che a parlare siano i fatti, bisognerà pure che si ascoltino oggi, e che formino una politica. Se infatti la direzione non sarà soltanto uno scroscio di mezza estate, o un’altra maniera di fare ammuina, qualcosa i democrati dovranno pur dire, in proposito. Perché di sotto a tutte le parole stanno le cose, e le cose, per il Sud, non stanno affatto bene. Cosa bisogna dunque attendersi? Per esempio che si capisca bene dove vanno a parare le riforme che il governo sta mettendo in campo, ultima la banda larga per la quale il governo ha stanziato ieri due miliardi di euro e rotti. Ecco un segno concreto, concretissimo, che andrebbe rubricato non solo tra le parole ma tra le cose: per ogni impegno di spesa, o per ogni programma di investimenti, o per ogni allocazione di risorse, o per ogni prelievo fiscale, il governo dovrebbe indicare con chiarezza di volta in volta in che modo preveda che vada a riduzione del divario fra il Nord e il Sud del Paese. Questo significherebbe assumere la questione meridionale come una questione nazionale: ritornello che viene spesso ripetuto in maniera retorica, senza che si riesca davvero ad orientare le politiche nazionali nella direzione auspicata.

La si giri però come si vuole: senza una chiara, forte, ambiziosa scommessa politica, non vi sarà alcun riorientamento di questo genere. Perché è indubbio che la seconda Repubblica è stata – come si dice – a trazione nordista e leghista. Qui non si tratta di piagnucolare perché non siedono al governo ministri partenopei, ma di prendere semplicemente atto che nel discorso pubblico il significante «Mezzogiorno» si è accompagnato in questi anni ad una serie di termini negativi che hanno spinto la politica a tenersene sempre più alla larga. Fare il contrario richiede dunque coraggio ed iniziativa politica, che è però quello che ci si aspetta che il Pd abbia, ora che ha – o avrebbe – una classe dirigente meridionale alla guida di tutte o quasi le istituzioni locali.

Non è pensabile neppure che i suoi rappresentanti procedano però in ordine sparso, covando rivalità e gelosie, senza condividere un disegno di più ampio respiro. Forse è presto per nutrire questa preoccupazione, visto che abbiamo da poche settimane i nuovi presidenti della due più importanti regioni del Sud Italia, Campania e Puglia. Una cosa è certa, però: che le loro voci non vanno ancora all’unisono, e non sembra che vogliano andarci, per provare a costruire una sponda forte di interlocuzione col governo. Ieri Vincenzo De Luca ha diramato un comunicato in cui elenca le necessità logistiche e infrastrutturali a cui dovrebbe far fronte un grande piano mirato di investimenti nel Mezzogiorno. Fin qui si trattava di richiamare il governo alle scelte concrete che si debbono compiere nei prossimi mesi, e su cui più che di ragionamenti c’è bisogno di un sì o di un no. Ma  insieme a questo elenco sta una nota polemica, messa lì solo per dire: io sono un’altra cosa da tutti gli altri che parlano soltanto. Sarà vero. Sta il fatto però che distinguersi significa anche dividersi, o addirittura isolarsi, ed è difficile che il ricco piano che De Luca proporrà nella Direzione di domani possa realizzarsi in forza di divisioni e contrapposizioni. Pure quelle, alla lunga, rischiano di produrre solo ammuina.

(Il Mattino, 7 agosto 2015)

I democratici e la zavorra delle regole

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A leggere i giornali, a inseguire le dichiarazioni di questo o quel dirigente del Pd, potrebbe sembrare che il principale problema politico del partito democratico sia la determinazione delle regole con le quali tenere il congresso. Non questioni di linea o di identità, non le ricette economiche per tirare fuori il paese dalla crisi, ma le regole. Il che vorrebbe dire che sono problemi già archiviati la perdita di nove milioni di voti alle elezioni di febbraio, e la rovinosa frana del partito nell’elezione del presidente della Repubblica: fatti dirompenti avvenuti non nel secolo scorso, ma soltanto poche settimane fa. In quei giorni, Bersani e l’intero gruppo dirigente del Pd si dimisero, ma chi leggesse oggi i giornali difficilmente troverebbe tracce di una sia pur lontana consapevolezza che quelle giornate hanno segnato, per il Pd, un punto di non ritorno. Quel che si trova invece, è una discussione vagamente onirica, e in ogni caso difficile da spiegare al cittadino medio, intorno alle regole, alla celebrazione dei congressi locali prima, durante o dopo la scelta del futuro segretario, alla separazione o all’unione della figura del segretario con quella del presidente del consiglio, al ruolo degli iscritti, alle primarie aperte o chiuse, alle deroghe allo statuto, in un’orgia politicista da cui nemmeno l’osservatore più attento saprebbe venir fuori. Le avvertenze per l’uso del congresso – l’amara medicina che occorre mandar giù – rischiano di contenere più istruzioni di quelle che una casa farmaceutica può infilare nel bugiardino, e soprattutto indicare una quantità abnorme di effetti collaterali indesiderati.

Eppure il nodo è semplice: si tratta di Matteo Renzi. Quelli che vogliono tenerlo lontano dalla corsa alla segreteria del Pd insistono sulla necessità di evitare la sovrapposizione fra candidato premier e segretario del partito, come se, messa per iscritto una simile regola, sarebbe ipso facto scongiurata l’ipotesi di una vittoria di Renzi al congresso, e la sua futura candidatura a Palazzo Chigi. Quelli che invece ne sostengono l’irresistibile ascesa, temono imbrogli sulle regole: ma se l’ascesa è irresistibile, non è chiaro cosa abbiano da temere.

Per uscir fuori dall’aporia, Antonio Funiciello, responsabile cultura del Pd, ha indossato le vesti solenni del re Salomone e formulato la seguente proposta: se vince Renzi, visto che ci tiene, facciamo che il segretario possa essere anche il candidato alla guida del governo; se invece vince un altro, che non tiene alla cosa, manteniamo pure la separazione. Sembra una barzelletta, ma è invece la spia di un dibattito insensato, coltivato da chi si illude che i processi politici reali possano essere indirizzati con regolette, emendamenti, norme statutarie.

Ed il processo politico in corso sta sotto una parola alla quale, con ogni evidenza, il Pd non ha saputo fin qui corrispondere. Quella paroletta è: discontinuità. Se Bersani ha perso, è per quello. Se Renzi gode di un largo consenso, è per lo stesso motivo. Ma nel Pd è ancora in corso il tentativo di rimanere ostinatamente attaccati all’autoproclamata «non sconfitta», approfittando dell’ultima zattera che Renzi non può, al momento, rovesciare: il governo Letta. Che rischia così di divenire ostaggio delle forze che resistono ad ogni mutamento di equilibri, all’interno del Pd (e, in parte, anche fuori). Il che all’azione del governo di sicuro non giova.

L’argomento è: un Pd a guida Renzi metterebbe a rischio il governo. Ma è un argomento che per un verso prova troppo, e per l’altro non prova nulla. Prova troppo, perché i maggiorenti del Pd potrebbero altrettanto bene dire che qualunque fatto nuovo metterebbe in pericolo l’esecutivo, anche la semplice celebrazione del congresso, ed infatti son lì che cincischiano ancora sulla data. Non prova però nulla, perché anzi presuppone ciò che il congresso dovrà, se mai, dimostrare: che questo governo deve rimanere in carica per fare le cose che occorrono al paese.

Questo è il terreno sul quale si dovrebbe infatti svolgere il confronto politico nel Pd (e, si spera, anche fuori): quali sono le vie che si intendono tracciare per il paese, entro quale campo di forze, in Italia e in Europa. Ed è questione di programma, ma ancor prima di una più generale visione degli interessi nazionali e del posto dell’Italia nel mondo. Il mondo, infatti, non sembra proprio che se ne stia lì fermo, in attesa che il Pd scelga di quali regole dotarsi (e magari di quali regole darsi per decidere quali regole darsi, perché all’autoreferenzialità non c’è mai fine).

Quanto a Renzi, ha sicuramente incarnato la discontinuità, almeno in una prima fase, all’insegna dello slogan contundente della rottamazione. E con lo strattone di ieri ha voluto ricordare a tutti che è ancora di quell’idea. Ma tocca anche a lui mettere contenuti in questa esigenza di rottura, e indicare così un terreno effettivo di sfida e di cambiamento, più scabro di una parola d’ordine vincente, più concreto di una battuta ad effetto. Perché a volte sembra, come ha detto ieri, che gli altri giochino con lui al tiro al piccione. E questo non funziona. Ma altre volte sembra che lui voglia vincere sul velluto, quasi non giocando la partita, e neanche questo, per la verità, può andar bene.

Il Mattino, 3 luglio 2013