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Mattarella e la forza della mitezza

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L’arroganza, la protervia, la prepotenza. E poi, al polo opposto, c’è la mitezza. Quando Norberto Bobbio scrisse il suo fortunato elogio della mitezza, aveva in mente una virtù che doveva anzitutto esercitarsi nelle relazioni personali, come disposizione a non sopraffare l’altro, a non esibire la propria forza. Una virtù che si costruisce trattenendosi, ritirandosi dal potere che si potrebbe usare e che si decide invece di non usare. Una virtù che si attaglia benissimo al ruolo che svolge, nell’ordinamento italiano, il presidente della Repubblica.

In realtà, i giuristi hanno ormai adottato l’immagine coniata da Giuliano Amato, di un potere «a fisarmonica», che si espande o contrae a seconda delle condizioni complessive in cui si trova il sistema politico. E certo, maggiore è la fibrillazione in cui il sistema versa, più è richiesto al Presidente di svolgere una funzione di equilibrio e di garanzia.

Manca ormai meno di una settimana al referendum costituzionale, e forse è il momento giusto per un elogio della mitezza che il presidente Mattarella ha fin qui dimostrato. Non è solo una questione di galateo, o di stile personale ispirato alla sobrietà. Non è nemmeno un nobile esercizio di pazienza o di cristiana rassegnazione. I toni del confronto politico si sono di molto alzati, e non solo perché è aumentato il rumore della propaganda, o perché non sono mancate le grida scomposte e le espressioni ingiuriose, ma perché più volte sono venuti al pettine i nodi politici e istituzionali che, all’indomani del voto, bisognerà che siano sciolti. E il primo a cui tocca disbrigare quei nodi è proprio il presidente della Repubblica.  Ci sarà o no una crisi di governo, nel caso in cui il no dovesse prevalere? E che genere di crisi sarà? Quali saranno i suoi passaggi parlamentari? E quale governo si farà, dopo? Ma anche in caso di vittoria del sì, non è detto affatto che prosegua tranquilla la navigazione di questa legislatura, e le elezioni potrebbero essere già dietro le porte. E il nodo della legge elettorale, sul quale si attende ancora la pronuncia della Corte costituzionale? Il combinato disposto di Italicum e riforma costituzionale è stato presentato da alcuni come un pericolo, che avrebbe dovuto mettere in allarme le supreme magistrature del Paese. Ma anche il combinato disposto di una mancata riforma e di una bocciatura dell’Italicum porta con sé una quantità di dubbi e di incertezze non piccola, e il rischio di un’impasse istituzionale. E gli stessi partiti, che rimangono i primi interpreti della volontà popolare: anche per loro, il 4 dicembre potrà provocare un energico rimescolamento di carte. Non c’è solo il Pd, la maggiore forza politica presente in Parlamento, che andrà a congresso il prossimo anno. Anche il centrodestra non è chiaro quale fisionomia assumerà, e neppure chi lo guiderà (e verso dove). Persino nei Cinquestelle, che appaiono molto più compatti dietro il megafono di Grillo, non è detto affatto che il processo di selezione della leadership non procuri qualche scossone. Deciderà la Rete, dicono con finta ingenuità, come se, siccome decide la Rete, non si trattasse di una vera decisione politica, con tutti i sussulti che ciò comporta.

E quindi: dal prosieguo della legislatura alla tenuta del governo, dalla legge elettorale ai rapporti politici, le incognite non mancano, così come non mancano i punti di applicazione dei poteri del presidente della Repubblica. Ebbene, immaginate che cosa comporterebbe un altro stile presidenziale, fatto di dichiarazioni pubbliche, interviste, magari messaggi alle Camere, e insomma l’esercizio di una moral suasion condotto in pubblico. Immaginate se salissero i giri anche del «motore di riserva» della Repubblica, se la presenza del Presidente fosse avvertita in questi giorni come più marcata, più decisa, più determinata: un putiferio.

Eppure, si potrebbe persino dire che il Presidente ne avrebbe ben donde. Da un alto è indubbio che, da Sandro Pertini in poi, il volume delle esternazioni è progressivamente cresciuto, in corrispondenza con i mutamenti del sistema politico, la diminuita partecipazione, la crisi di credibilità, la frammentazione dei partiti e degli schieramenti, la fine del bipolarismo. In questo confuso scenario, il Quirinale ha assunto negli anni una posizione sempre più centrale, ma anche propulsiva, fin quasi ai limiti dell’iniziativa politica diretta. Dall’altro, il Presidente rimane pur sempre il garante degli equilibri costituzionali, il difensore dei diritti fondamentali e del bilanciamento dei poteri previsto dalla Costituzione: una riforma vasta e incisiva fa necessariamente arrivare fin sul più alto Colle della Repubblica le più diverse sollecitazioni.

Dinanzi a tutte queste spinte, attuali o potenziali, reali o virtuali, c’era materia per dare una curvatura per dir così «governante» alla propria funzione, certo con il rischio di incrinare la stabilità del quadro politico e istituzionale. Mattarella si è ben guardato dall’assumere un simile profilo, mettendo a disposizione la propria forza moderatrice, la propria interpretazione mite del ruolo presidenziale. Ha scelto di pesare il meno possibile sul 4 dicembre. Il Paese ne guadagna una certezza: nessuno mette in discussione che siano in buonissime mani le decisioni che dovranno essere prese a partire dal giorno cinque. Bobbio diceva che compagna della mitezza è la semplicità, «il rifuggire intellettualmente dalle astruserie inutili, praticamente dalle posizioni ambigue». Comunque andrà il voto, la mitezza di Mattarella garantisce al Paese che non saranno percorse strade astruse o ambigue, soluzioni improvvisate o dissennate. E scusate se è poco.

(Il Mattino, 28 novembre 2016)

La modernità di Croce nella Napoli fuori tempo

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Se la vera storia è sempre storia contemporanea, come diceva Benedetto Croce , non è Napoli, la sua città, la città di Palazzo Filomarino e dell’Istituto Italiano per gli Studi Storici, la più evidente smentita di quel detto crociano?

Gilles Deleuze diceva che i concetti filosofici hanno una singolare caratteristica: sono firmati. Così ad esempio il cogito è il cogito di Cartesio, l’ignoranza è socratica e l’amore è platonico. Certo vi è, in questa maniera di richiamare momenti della storia del pensiero, una straordinaria semplificazione, persino banalizzazione; ma c’è anche una traccia visibile, non cancellabile, della grandezza di un pensatore, che non scompare mai del tutto nei prodotti del suo pensiero (come accade agli artisti: alle madonne di Raffaello, alle mele di Cézanne…). Così è stato per Croce: i “distinti” – questi precari paletti piantati dal filosofo per evitare che tutto precipitasse e si dissolvesse nella pura circolazione dialettica dello spirito – non sono, per l’appunto, i distinti “crociani”?

Così è anche per quel detto, che dovrebbe riassumere il più alto pensiero di Benedetto Croce sulla storia –  in cui da ultimo doveva risolversi la stessa filosofia – non reca forse il sigillo finale del suo pensiero?

Croce contemporaneo? Il convegno che, alla presenza del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, si apre questa mattina nella sede dell’Istituto Italiano per gli Studi Storici per i centocinquant’anni dalla nascita del filosofo di Pescasseroli, vuol dimostrare appunto questo: che se c’è stato un tempo – nel secondo dopoguerra – in cui l’idealismo crociano ha brillato per la sua assenza, quel tempo è ormai alle nostre spalle, e il suo pensiero torna oggi di attualità. Dimostra la sua vitalità nel diffondersi internazionalmente, e nella stessa ripresa di interesse che c’è attorno alla sua opera. D’altra parte, è così grande il lascito crociano, in libri e istituzioni, e la storia politica e culturale del Paese ne è così impregnata, che a meno di non voler rimuovere mezzo secolo di vita italiana non si può non tornare a Croce.

Poi però lo sguardo cade sulla sua città, Napoli – la città in cui Croce è vissuto e ha operato, a cui ha dedicato pagine memorabili, fra letteratura arte e storia, e in cui ha infine lasciato una parte ancora viva della sua eredità – e la domanda su cosa significhi essere contemporaneo, stare nell’attualità del proprio tempo, diviene inevitabile. Quanta parte della città è davvero in linea con il presente, e non è piuttosto rimasta indietro, o ha deviato lunghi percorsi della storia diversi da quelli che ne determinano, appunto la contemporaneità? Quanti tempi sono com-presenti insieme, nei palazzi e nelle strade di Napoli? Si può capire Napoli, i suoi problemi e le sue contraddizioni, le difficoltà e gli sbalzi della sua vita pubblica, disponendoli in ordine, in un unico tempo? È allo stesso titolo contemporanea la vita politica partenopea, quella artistica, quella sportiva o quella industriale?

In un celebre saggio sul malessere della cultura, Freud provò ad immaginare Roma come un «essere psichico, in cui nulla di ciò che una volta è stato può perdersi» e dove dunque sorgono insieme gli antichi monumenti e le più recenti costruzioni. Ebbene, quel che era nello scritto di Freud solo un’immaginazione non è reale e sotto i nostri occhi tutti i giorni, in questa città? Non vi si trovano insieme, nello stesso spazio, persone e cose e pensieri che appartengono a tempi diversi, e che si sovrappongono senza mai districarsi linearmente, resistenti all’idea di disporsi in successione o anche di lasciarsi ricapitolare in un unico presente, e in un unico concetto o idea dello Spirito?

L’unità che la parola “contemporaneo”assicurava serviva in realtà a Croce per tenere in un solo sguardo la declinante storia d’Europa, sconvolta dalla catastrofe della guerra. Nel «Contributo alla critica di me stesso», Croce raccontò che in età giovanile, la filosofia gli era venuta incontro come «bisogno di rifarmi in forma razionale una fede sulla vita e i suoi fini e doveri, avendo perso la guida della dottrina religiosa e sentendomi nel tempo stesso insidiato da teorie materialistiche, sensistiche e associazionistiche, circa le quali non mi facevo illusioni». La filosofia e la storia furono dunque per lui il terreno sul quale provare comunque a ricostruire una trama di senso, essendo perduta ogni fede trascendente e non volendosi rassegnare a prospettive di stampo empiristico o materialistico. La libertà – parola chiave nel lessico crociano, parola anche questa, in certo modo, firmata – era la «forma razionale» in cui riacchiappare i rotti legami dell’esistenza. La drammaticità di questa impresa poté accentuarsi e si accentuò, nel corso degli anni: di fronte alle immani tragedie del secolo, era sempre meno ottimistico il modo in cui Croce rimetteva nelle mani dell’uomo il suo stesso farsi storico. Ma gli rimase sempre la convinzione che la libertà fosse una, che uno fosse l’uomo, uno lo Spirito, uno il senso o la ragione delle cose. Questa unità gli permise di guardare sempre alla storia come al terreno dell’universale, mai ultimo e definitivo, in cui la civiltà può perdersi o salvarsi.

Questa fede “minimale”mai lo abbandonò. E forse non possiamo non nutrirla anche noi, non possiamo non tenerci contemporanei a Croce almeno per quel lato per cui, in mezzo ai tempi diversi del presente, ai suoi anacronismi e alle sue ucronie, cerchiamo comunque di riunirli secondo una comune, anche se fragile, idea di umanità.

(Il Mattino, 22 settembre 2016)

La cura per un paese normale

Crisi: Mattarella, Italia migliora, bene 2016Il primo discorso di fine anno di Sergio Mattarella è stato il discorso di un Presidente, che interpreta alla lettera il posto che la Costituzione gli assegna nell’ordinamento della Repubblica: capo dello Stato e rappresentante dell’unità nazionale. Perciò: nessun riferimento alla dialettica politica fra i partiti, spesso fuori  dalle righe, o ai prossimi, decisivi appuntamenti col voto, nel 2016: referendum confermativo ed elezioni amministrative. Nessun riferimento alle difficoltà, infine superate, di elezione dei giudici costituzionali, o alla crisi bancaria, o al cambiamento della legge elettorale. Mattarella ha scelto di riferirsi unicamente all’Italia, alle condizioni di vita degli italiani. Nel suo discorso hanno così trovato posto anzitutto «le principali difficoltà e le principali speranze della vita di ogni giorno». In primo luogo il lavoro, da cui il Presidente ha preso le mosse: i segnali di ripresa economica del Paese non sono ancora sufficienti a dare il lavoro ai troppi che sono privi. Poi il tema dell’intollerabile livello di evasione fiscale, che danneggia l’economia sana e i cittadini onesti. Quindi le materie dell’ambiente, del terrorismo, dell’emigrazione.

Non si è trattato però di un semplice catalogo di argomenti, sciorinato per creare sintonia con la platea televisiva; si è trattato piuttosto di un esplicito richiamo al dovere fondamentale dei cittadini di avere «cura della Repubblica», espressione che Mattarella ha già impiegato altre volte e che dà bene il senso del modo in cui egli intenda il proprio ruolo, e del modo in cui esorti gli italiani a intendere il proprio. E sotto quella parola, «cura», si sente declinato un richiamo ai principi e ai doveri delle istituzioni e dei cittadini, più che ai diritti. È come se le  diverse questioni economiche e sociali, o ambientali, o internazionali, affrontate nel discorso, ricevessero, nelle parole di Mattarella, un supplemento di significato, che le riporta alla preoccupazione di fondo del Presidente, declinata però nel suo uso quotidiano, nella vita di tutti i giorni: aver cura dell’Italia, avere a cuore il nostro Paese. Il dovere, l’impegno, la responsabilità: sono questi, infatti, i termini per i quali correvano le parole del discorso presidenziale.

Altro tratto stilistico distintivo è stato il riferirsi alle istituzioni nel loro insieme, senza mai far riferimento al governo o al Parlamento o ad altri organi dello Stato, e il tenere sempre insieme all’impegno delle istituzioni pubbliche quello della società, dei cittadini, della sfera privata dei rapporti economici e civili. Nessuna contrapposizione fra società civile e società politica, dunque, ma un’idea di Paese come concerto di energie diverse, impegnate tutte con eguale responsabilità.

Su due temi Mattarella è sembrato mostrare una particolare sensibilità: quello ambientale e quello migratorio. E in entrambi i casi i riferimenti sono andati alle preoccupazioni quotidiane dei cittadini, agli stili di vita e alla doverosità dei comportamenti, più che alle sedi politiche di dibattito e decisione. Sull’ambiente, ad esempio, Mattarella non ha richiamato i recentissimi risultati della Conferenza di Parigi e l’accordo sulla riduzione dei gas serra, ma ha preferito parlare dell’inquinamento delle nostre città, della limitazione nell’uso delle auto private (e, al contempo, del dovere di erogare servizi di trasporto pubblico efficienti). A proposito di emigrazione, il Presidente ha dedicato un cenno veloce, ma incisivo, all’insistenza con cui l’Italia chiede all’Unione europea un salto di qualità nel governo collegiale del fenomeno migratorio, ma poi ha voluto dedicarsi al valore dell’accoglienza, della convivenza, dell’integrazione. E, con equilibrio, ha aggiunto che accoglienza implica comunque rigore, severità verso i comportamenti irregolari o illegali, e «rispetto per le leggi e la cultura del nostro Paese».

Ci voleva, un discorso così. Chiaro, comprensibile, senza acuti o note polemiche, rivolto più ad esortare che a stigmatizzare, misurato e rispettoso dei poteri, fermo nei principi ma non per questo ostile ai cambiamenti, un discorso di un Presidente della Repubblica che tiene alla fisiologia dei rapporti fra le istituzioni, e fra le istituzioni e i cittadini, che esercita per questo il suo ufficio di raccordo, e che può dunque aiutare l’Italia a ritrovare l’assetto, politico e istituzionale, di un Paese normale.

(Il Mattino, 2 gennaio 2016)