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Gli USA e le primarie dei populisti

2010-06_cartoon.jpgNell’aprile dello scorso anno, quando Hillary Clinton annunciò la sua candidatura alla Casa Bianca, si aprirono i giochi. Letteralmente. La SNAI lanciò le scommesse sulle presidenziali americane: Hillary Clinton stava a 2, Jeb Bush a 5. I favoriti erano loro. Bernie Sanders e Donald Trump non erano nemmeno quotati.

Alla vigilia del voto nello Iowa, con cui il rutilante circo delle primarie comincia a attraversare l’America, la situazione è molto diversa. Sono i due outsiders a tenere il banco nei rispettivi campi. Da una parte il socialista Sanders; dall’altra il miliardario Trump.

Le primarie, in America, sono una roba vera. E soprattutto una storia lunga molti mesi. Non si contano i candidati che, partiti con il vento in poppa, hanno dovuto ben presto ripiegare le ali e uscire di scena.

Evitiamo dunque di fare previsioni sulle sorprese che la politica americana ci riserverà nei prossimi mesi, e limitiamoci a guardare con occhi europei quello che sta accadendo.

Un paio di cose si fanno subito evidenti, nonostante le diversità di sistemi elettorali, politici e istituzionali. I favoriti della vigilia si prestavano ad essere descritti come espressione dell’establishment. Di più: una è moglie di un ex Presidente, l’altro è figlio e fratello di ex Presidenti, Hillary Clinton e Jeb Bush sono i rappresentanti delle due principali «case regnanti» degli ultimi trent’anni. L’una e l’altro possono inoltre contare sul sostegno delle rispettive macchine di partito.

I candidati che rubano loro la scena si lasciano invece rappresentare come candidati «radicali», «estremisti», «populisti». Il significato delle parole è abbastanza fluido perché un termine slitti sull’altro e mantenga contorni piuttosto vaghi. Populismo, in particolare, è una sorta di parola-baule, dentro cui ci finisce un po’ di tutto: e dunque sia le piazzate di Trump contro gli immigrati, sia le intemerate di Sanders contro i ricchi vengono catalogate sotto la voce populismo. Ma un filo comune denominatore c’è: è l’avversione contro quelli di Washington. Noi diremmo: contro il Palazzo, poco importa se a tuonare contro il Palazzo sia un miliardario che i palazzi li costruisce, oppure un politico navigato, con alle spalle una trentina d’anni di incarichi istituzionali.

Il fatto però che entrambi, almeno a giudicare dai sondaggi, abbiano fatto breccia nell’opinione pubblica indica chiaramente che l’affanno delle tradizioni politiche nazionali – la consunzione, quasi, del lessico politico-intellettuale del Novecento – non è un problema solo europeo. Qualche segnale, in fondo, era già venuto nel 2008, quando Barack Obama, primo afroamericano, sbaragliò il campo da outsiders, i favori del pronostico essendo anche quella volta di Hillary. Nell’altra metà del campo i repubblicani puntarono invece su un uomo di apparato, Mitt Romney, che evidentemente non suscitava gli entusiasmi di un elettorato già radicalizzatosi. E persero.

L’ondata populista che sta scuotendo l’Occidente – ecco un punto di differenza  – in America si riversa però dentro i partiti, mentre da noi – come in Grecia, o in Spagna – sceglie altre vie. Se l’ex sindaco di New York, Bloomberg, dovesse davvero candidarsi da indipendente, preoccupato dalle figure estreme che tengono il campo, il rovesciamento sarebbe completo: in Europa nascono nuove formazioni politiche anti-sistema; in America, sarebbe invece la risposta di sistema a doversi inventare una strada nuova.

Il confronto con l’America è però istruttivo per un’altra ragione. Gli Stati Uniti sono un Paese in salute. Obama lascia un’economia in crescita. Qualche mese fa, l’economista James Galbraith spiegava il successo di Syriza o di Podemos, con le politiche di austerità adottate dall’Unione europea in piena recessione. Al contrario, aggiungeva, Obama ha praticato una strategia keynesiana, con imponenti iniezioni di denaro pubblico e programmi di sviluppo da miliardi di dollari. Ora, la spiegazione di Galbraith può darsi funzioni in economia, ma evidentemente non funziona in politica, visto che nonostante i successi della politica economica obamiana, democratici e repubblicani faticano ad esprimere candidati in linea con le tradizioni più moderate e centriste dei rispettivi partiti. L’elettorato sembra chiedere segnali di discontinuità, e persino gesti di rottura. Li chiede in America non meno che in Europa: il che vuol dire che ce la possiamo prendere con l’euro, con la crisi o con la Merkel finché vogliamo, ma un malessere più profondo sta forse cominciando a manifestarsi. Se così fosse, vorrebbe dire che in gioco non è solo il futuro di tradizioni e ceti politici, ma il destino stesso della democrazia.

(Il Mattino, 30 gennaio 2016)