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Primarie Pd, le idee per scegliere

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Primarie a bassa intensità, noiose, clandestine. Primarie scontate, primarie con rito abbreviato, primarie spopolate: definite in molti modi, rappresentano comunque l’appuntamento più largo e partecipato che in questo modo offre la vita interna dei partiti italiani. E dunque vale la pena darci un’occhiata, provare a orientarsi tra i profili e i programmi dei tre cavalieri – Renzi, Orlando, Emiliano – che in singolar tenzone si contendono la guida del partito (e, a norma di statuto, anche la premiership).

Sinistra

Ci sono quelli che dicono che la distinzione fra destra e sinistra non ha più molto senso. E tuttavia il partito democratico (che con Renzi segretario ha definitivamente aderito al socialismo europeo) continua a definirsi come un partito di sinistra, e tutti e tre i candidati condividono questa collocazione. Cambiano però gli aggettivi qualificativi, che sono necessari per apprezzare le differenze. La sinistra di Orlando somiglia alla tradizione socialdemocratica, e l’insistenza sul tema dell’uguaglianza fa sì che “democratico” sia senz’altro l’aggettivo da scegliere per la sua proposta programmatica. Quella di Renzi è invece una sinistra liberale, con più robusti innesti di liberalismo nelle proposte economiche, nell’idea di modernizzazione, nell’insistenza sul tema dello sviluppo. Emiliano, infine, è l’unico che non disdegnerebbe affatto l’aggettivo populista, che prova a presentarsi come l’uomo che lotta contro l’establishment e i potenti («il Pd dei banchieri e dei petrolieri»).

Populismo

A proposito di populismo, detto che per Emiliano non sembra affatto che sia un vero avversario, e che anzi ci andrebbe volentieri a braccetto, Orlando e Renzi usano entrambi la parola per denunciare un pericolo per le istituzioni democratiche, o perlomeno per le politiche di cui il Paese avrebbe bisogno. Orlando lo considera un «rischio mortale» per il Pd e, pensando a Emiliano ma anche a Renzi, denuncia le dosi di populismo entrate nelle vene del partito (ad esempio sul tema dei costi della politica, che Renzi riprende e che Orlando invece non cavalca mai). Per Renzi, al di là di stile, tono e qualche volta argomenti, la vera risposta al populismo stava però nella riforma costituzionale, cioè nel passaggio ad un sistema politico e istituzionale semplificato e più efficiente.

Legge elettorale e sistema istituzionale

Sul primo punto, in cima all’agenda dei prossimi mesi, siamo al ballon d’essai delle dichiarazioni quotidiane. C’è molto tatticismo, e il sospetto fondato che alla fine non cambieranno le cose. Ci terremo probabilmente la legge uscita dalla sentenza della Corte costituzionale, con piccoli aggiustamenti. Renzi, comunque, punta tuttora a correttivi maggioritari; Emiliano si dichiara per un maggioritario con collegi uninominali, e tutti e due vogliono togliere i capilista bloccati. Orlando proviene da una cultura di tipo proporzionalista, ha sposato nella sua mozione la proposta Cuperlo con il premio di lista ma è disponibile ora al premio di coalizione. La riforma costituzionale, dopo il referendum, è invece divenuta un terreno completamente minato: nessuno ci cammina più su. Nella mozione congressuale di Renzi c’è un cenno alla riforma del titolo V (autonomia regionale), in Orlando nemmeno quello. Ma è giusto ricordare che Renzi e Orlando stavano dalla stessa parte, mentre Emiliano ha osteggiato fragorosamente il programma di riforme del governo, e ha votato no al referendum.

Alleanze

Insieme alla legge elettorale sta il punto politico: le alleanze. Gli ultimi giorni si sono giocati su questo tema: Orlando agita contro Renzi lo spauracchio dell’accordo con Berlusconi. Renzi ribatte che Orlando la coalizione con Berlusconi l’ha già fatta. Ma in realtà il tema non può essere declinato concretamente in assenza di una legge. Se rimane un impianto proporzionale, le alleanze si faranno dopo il voto, non prima: secondo necessità. Non è chiaro infatti come si possa evitare l’accordo con il centrodestra senza un meccanismo maggioritario sul modello del tanto deprecato (e dalla Corte costituzionale bocciato) Italicum. Le discriminanti sembrano in realtà altre. Orlando non ha difficoltà a riprendere il dialogo con i fuoriusciti del Pd, Renzi invece ne fa una questione di coerenza: con Pisapia e il suo campo progressista sì, ma come si fa a stringere un’alleanza con D’Alema e Bersani, che il Pd lo hanno rotto? Che senso ha dividersi il giorno prima e allearsi il giorno dopo? Quanto a Emiliano, guarda con interesse agli elettori grillini, e si capisce che cercherebbe alleanze da quella parte.

Unione europea

Dici Europa e li trovi tutti d’accordo: sembra quasi una gara a chi si dice il più europeista di tutti (anche se tutti aggiungono subito dopo che così com’è l’Unione non va). Emiliano, i cui toni populisti non sembrerebbero andare a braccetto con il sogno europeista, innalza addirittura il vessillo degli Stati Uniti d’Europa; Orlando ne fa prioritariamente una questione di policies e punta alla costruzione del “pilastro sociale” che mancherebbe all’Unione; Renzi tiene insieme le due cose e soprattutto prova a rilanciare l’iniziativa politica per cambiare l’Europa, proponendo di affidare alle primarie la scelta del candidato alla Presidenza della Commissione. In realtà, con la probabile elezione di Macron (apprezzato da tutti e tre) e un possibile, rinnovato asse franco-tedesco, gli spazi per i giri di valzer si riducono: Renzi batte i pugni a Bruxelles, Emiliano dice che lo fa troppo poco, e Orlando dice che lo fa inutilmente. Questioni di immagine, più che di sostanza.

Mezzogiorno

Il Mezzogiorno c’è nei programmi di tutti e tre. Ma nessuno dei tre candidati lo ha scelto come terreno sul quale marcare una vera differenza rispetto agli altri due. Neppure Emiliano, che pure è governatore di una regione meridionale, la Puglia. Tutti e tre pongono la questione meridionale come una questione nazionale. Tutti e tre sono consapevoli che l’Italia non potrà mai crescere oltre lo zero virgola se a crescere non sarà anzitutto il Sud. Ma nessuno dei tre ha chiesto un solo voto per il Sud, e alla fine il risultato che prenderanno in Campania o in Sicilia, in Puglia o in Calabria dipenderà molto di più da dinamiche di tipo localistico, che dal profilo programmatico che hanno assunto. E al dunque: Renzi voleva portare il lanciafiamme a Napoli, ma poi non lo ha fatto. Orlando invece a Napoli ci ha fatto il commissario, e chiamarsi fuori non può; Emiliano infine s’è preso lo sfizio di strizzare l’occhio a De Magistris appoggiando pochi giorni fa «l’insurrezione pacifica contro Salvini». Tant’è.

Migranti e sicurezza

Tutti e tre i candidati subiscono la pressione dell’opinione pubblica e tendono a declinare i due temi insieme. Tutti e tre si coprono – come si suole dire – su quel fianco sul quale tradizionalmente i partiti di sinistra si mostrano più scoperti. Così Emiliano spende parole sull’accoglienza e sul bisogno di manodopera straniera della sua Puglia (non proprio un argomento di sinistra), ma nel confronto televisivo tiene a ricordare che lui, da magistrato, girava con la pistola nella tasca dei pantaloni. Renzi fa la polemica con l’Unione europea che scarica sul nostro Paese il peso maggiore nell’accoglienza, ma si allinea alle posizioni più dure in tema di legittima difesa (non proprio una posizione di sinistra); Orlando vuole superare il reato di immigrazione clandestina, ma difende la sua legge che accelera l’esame del diritto d’asilo, togliendo il grado di appello (legge assai poco amata a sinistra). In compenso, nessuno di loro indietreggia di fronte al compito di salvare le vite umane in mare e difendere le Ong.

Economia

Per tornare a trovare differenze più accentuate fra i tre candidati, bisogna allora tornare a guardare ai temi dell’economia e della società. La più chiara di tutte: Orlando e Emiliano sono per una patrimoniale, mentre Renzi la esclude. Il programma economico e sociale di Renzi è per il resto tracciato nel solco di quello seguite dal suo governo. E cioè il jobs act, poi gli 80 euro, «cioè la più grande operazione distributiva che sia mai stata fatta», poi la riforma della pubblica amministrazione e quella della scuola. Orlando in realtà faceva parte del governo e Renzi non ha mancato di ricordarglielo, ovviamente. Ciò non toglie che Orlando ha criticato la politica dei bonus, che vanno a tutti, ricchi e poveri indistintamente, e provato a riprendere il tema più classicamente socialdemocratico della redistribuzione dei redditi («sradicare in tre anni la povertà assoluta»). Emiliano ha forse il programma più a sinistra: critica l’abrogazione dell’art. 18, vuole tassare le multinazionali del web, vuole una forma universale di sostegno al reddito. E però vuole pure la riforma dell’IVA, finanziandola con il recupero dell’evasione dell’imposta.

Partito

Come sarà il partito democratico dal 1° maggio? Se vince Renzi, è l’accusa degli altri due, sarà quello che è stato finora: un partito fortemente segnato dalla leadership di Matteo, tinto di prepotenza e poco inclusivo. Emiliano era sul punto di andarsene, poi è rimasto ma continua a dipingere Renzi quasi come un pericolo. Orlando ha finito la campagna elettorale arrivando a dire che o vince Renzi o vince il Pd. In effetti, Renzi è arrivato alla guida del Pd sull’onda della rottamazione, non mancando di aggiungere che preferiva farsi dare dell’arrogante piuttosto che farsi fermare dai veti incrociati dei maggiorenti del partito. Nella sua mozione, però, gli accenti sono mutati: cita Gramsci, propone non un partito pesante ma un partito pensante, ne mantiene il tratto aperto e contendibile, fondato sul modello delle primarie, ed è soprattutto l’unico che prova a tratteggiare un modello nuovo di militanza. Emiliano chiede invece di cambiare lo statuto e l’identificazione fra candidato premier e segretario nazionale, Orlando propone invece le primarie regolate per legge.

Le persone

Le differenze, tutto sommato, ci sono. Ma sicuramente si disegnano con più nettezza se si guarda alle rispettive personalità. Orlando è quello più “strutturato”, che prova a incarnare la serietà della politica; Emiliano fa quello fuori dalle righe, che sta tra la gente e fuori dal Palazzo (pur essendoci seduto dentro); Renzi vuole essere ancora l’uomo delle riforme, che ha cominciato e vuole continuare. Uomo della mediazione Orlando, uomo della declamazione Emiliano, uomo della rottamazione Renzi. Correzione di rotta per Orlando, rivoluzione gentile per Emiliano, cambiamento per Renzi, bandiera finita nella polvere dopo il 4 dicembre. Non se ne è parlato molto, ma il senso dato a quel voto è un vero discrimine fra i tre. Un no sacrosanto per Emiliano; una severa lezione, per Orlando; uno stop imprevisto dal quale ripartire per Renzi. Solo il voto di oggi potrà indicare la strada. E questo, dopo tutto, è il bello della democrazia (non quella diretta).

(Il Mattino 30 aprile 2017)

Il partito con le lenti bifocali

Acquisizione a schermo intero 22012016 140852.bmpOcchiali bifocali per le primarie napoletane del Pd. Per presbiti e per miopi: per chi vede da lontano (o vede lontano), e chi vede da vicino (o ha la vista corta).

In città, il partito democratico cerca di trovare la quadratura del cerchio intorno a Riccardo Monti; a Roma, si valuta l’ipotesi di puntare su Valeria Valente.

Le logiche con cui vengono individuati i due nomi non sono le stesse, così come sono diversi i profili dei due potenziali candidati in lizza. Riccardo Monti è è Presidente dell’Ice, l’Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane e viene dal mondo privato delle professioni. È un tecnico, giovane e preparato, con una vasta esperienza professionale e un curriculum di tutto rispetto. Ed è fuori dagli schieramenti correntizi che non riescono a trovare la composizione sul nome di un politico, legato al partito. Perché questo è il punto. La debolezza del Pd, i veti incrociati, la latitanza dei dirigenti locali portano all’amara constatazione che qualunque altro nome dividerebbe il partito.

Con argomenti del tutto analoghi si scelse cinque anni fa di puntare sul prefetto Morcone. Al suo nome si arrivò dopo il disastro delle primarie, e l’impossibilità di recuperare un simulacro di unità intorno a esponenti politici locali. Morcone significava serietà, efficienza, senso delle istituzioni. De Magistris vinse le elezioni.

Valeria Valente è invece donna, è anche lei giovane, ma ha alle spalle una lunga militanza nelle file del movimento studentesco prima, della sinistra partenopea poi. Ha esperienza amministrativa, avendo ricoperto l’incarico di assessore  nella giunta Iervolino, ed è coordinatrice regionale dei giovani turchi, l’area politica del presidente del Pd, Matteo Orfini. Ha infine un legame antico con Antonio Bassolino, lo spauracchio di questo ennesimo giorno di passione delle primarie napoletane.

E questo è il punto. Bassolino ha annunciato la sua candidatura constatando l’assenza di una classe dirigente locale. Ha più volte ripetuto che se il Pd fosse stato in grado di esprimere una nuova leadership, avrebbe volentieri continuato a fare il nonno. Un argomento che avrebbe difficoltà a riprendere, qualora fosse davvero la Valente il nome su cui punta il Pd. Perché, oltre a marcare una netta discontinuità generazionale, si dà il caso che Valeria Valente abbia mosso i primi passi in politica proprio sotto l’ala di Bassolino. Sarebbe dunque naturale che, di fronte alla scelta del Pd di scommettere su un nome a lui storicamente vicino, compagna di stanza nella Fondazione Sudd che presiede, Bassolino mettesse da parte le ambizioni personali e desse anzi una mano nella partita più importante, quella che si giocherà per Palazzo San Giacomo.

Difficile, però, fare previsioni. Altri fattori intervengono nella partita. La debolezza politica del Pd parla a favore di Monti. A Napoli non c’è nessuno capace di fare la sintesi, come si diceva una volta. Il nome di Valeria Valente non passa nelle componenti più centriste del Pd. Che continuano a esercitare un ruolo di interdizione, riproducendo un gioco a somma zero che confidano di spezzare solo ricorrendo al papa straniero. Il pregio di Monti – lo standing internazionale, il tratto manageriale ed efficientista – è in realtà lo specchio rovesciato del partito democratico napoletano. Come nel Dorian Gray di Oscar Wilde: il partito invecchia e incartapecorisce in soffitta, vergognoso di sé e dei propri limiti, e mette davanti e manda in giro per la città il volto nuovo e brillante di un uomo di successo, chiamato a rappresentare il cambiamento.

A ciò si aggiunga che a Palazzo Santa Lucia siede un governatore che di un sindaco piddino non sente affatto il bisogno, tanto più se proviene dal mondo bassoliniano, verso il quale ha più di una ruggine. De Luca è abituato a non avere intralci politici tra i piedi; sceglie assessori tecnici per essere l’unico in grado di capitalizzare politicamente l’operato dell’Amministrazione; non ha nessuna ragione per preferire un candidato che avrebbe dalla sua anche la forza di un imprimatur romano.

Ma Roma rilutta. Orfini preme per la soluzione Valente, la più chiara politicamente. Del resto, a Roma il Pd sta convergendo sul nome di Giachetti: anche lì, un politico. Lo schema sarebbe dunque questo: i renziani esprimono il candidato sindaco a Roma, l’altro pezzo – più di sinistra – della maggioranza mette il candidato a Napoli. Dove tra l’altro c’è bisogno di togliere voti di sinistra a De Magistris e ai Cinquestelle. E dove, soprattutto, si può così sperare in un ripensamento di Bassolino.

Non ci vuol molto: è probabile che sapremo domani, nella direzione nazionale del Pd, quali lenti il Pd si metterà sul naso, e il nodo verrà infine sciolto.

(Il Mattino – ed. Napoli, 22 gennaio 2016)

La scelta del sindaco che divide la sinistra

votoAll’indomani delle primarie, il Pd ha in Campania un candidato Presidente, Vincenzo De Luca, ma non ha, stando almeno alle intenzioni espresse, un bel po’ dei voti raccolti alle europee un anno fa. È una situazione in cui il Pd non si era ancora trovato: accusare un calo consistente di consensi, e avere nel suo candidato Presidente non più un punto di forza, ma un punto interrogativo. Naturalmente, il sondaggio che al Pd deve procurare qualche supplemento di riflessione fotografa una situazione ancora in movimento. E in tempi di alta volatilità del voto, nessun numero può ritenersi acquisito. La fotografia, per giunta, è scattata ad una considerevole distanza dal traguardo, fissato a fine maggio, e non può quindi includere alcuni elementi della sfida elettorale ancora in corso di definizione. Resta però il fatto che il Pd si trova per la prima volta a dover recuperare il terreno perduto – cosa, da Renzi in poi, mai capitata – e che il Sindaco di Salerno non riesce a trasferire la sua popolarità in percentuali più lusinghiere di quelle della coalizione che lo sostiene. Nel 2010, quando De Luca perse, ottenne comunque un risultato personale di tutto rispetto, finendo quasi cinque punti sopra la sua coalizione. Stavolta quell’effetto-leader non è visibile: coalizione e candidato presidente sono quasi appaiati.

È un problema che De Luca per primo sa di dover affrontare. Chi infatti conosce la storia dell’istituto che il partito democratico ha introdotto in Italia, mutuandolo dall’esperienza americana, sa che la prima e principale conseguenza delle competizioni primarie consiste nello spostamento del peso politico dal partito al candidato: si indebolisce il primo, si rafforza il secondo. Conta dunque, per il Pd, la capacità di ricostruire attorno al vincitore del primo marzo unità di intenti e di liste, dopo le inevitabili divisioni della campagna elettorale (e l’appello al non voto di Saviano, e i polemici addii di alcuni parlamentari, e i tentativi disordinati di evitare la competizione), ma conta anche di più la fisionomia del candidato prescelto. Il quale non ha un problema soltanto: ne ha due. Il primo problema è rappresentato, come tutti sanno, dalla condanna in primo grado che, per effetto della Severino, gli impedirà, salvo ricorsi o sospensive o pronunce di incostituzionalità, di andare ad occupare il posto di Presidente di Regione, in caso di vittoria. De Luca, ovviamente, non lascia trapelare la minima esitazione: se ha corso le primarie, è per correre anche dopo, contro Caldoro, e quindi ripete come un mantra che lui non ha alcun problema con la legge, e che il Tar metterà le cose a posto un minuto dopo il voto. Ma rimane il fatto che una porzione almeno dell’elettorato di centrosinistra (fuori dalla cinta muraria salernitana) continua a nutrire forti perplessità: vuoi per il complesso profilo giuridico della vicenda, vuoi per un atteggiamento legalitario, e cioè per l’indisponibilità a «fregarsene della legge», come dice De Luca, sbagliata o no che la legge sia. La domanda sull’opportunità della candidatura di De Luca spacca infatti l’elettorato di centrosinistra in due metà quasi eguali.

C’è poi il secondo problema, che non è ancora esploso ma che comunque rischia di creare a De Luca qualche inciampo, se non troverà la soluzione. Lui infatti tira dritto: ma il Pd? Anzi, più precisamente: Matteo Renzi? Renzi darà una mano? Metterà le cose per il giusto verso anche qui? Perché non sarebbe per De Luca auspicabile portare da solo tutto il peso della campagna elettorale, che andrà anzi crescendo col passare dei giorni, e difficilmente si schioderà dal problema rappresentato dalla Severino. Cosa farà allora Renzi? Potrà accontentarsi di girare alla larga da Napoli? Al voto di maggio mancano circa ottanta giorni: Renzi pensa di fare il giro d’Italia in ottanta giorni senza passare per la Campania? Si possono prendere alcune contromisure: il voto regionale è un voto amministrativo, più che politico, quindi – si può dire – Renzi non c’entra; De Luca, poi, mostra una capacità di attrazione su pezzi dell’elettorato moderato che può compensare quello che forse, per via della condanna, non riuscirà a raccogliere alla sinistra del Pd. Ma la latitanza di Renzi dalla sfida nella più importante regione meridionale difficilmente passerebbe inosservata. Una simile condotta imbarazzata non priverebbe solo De Luca della popolarità del leader nazionale, ma rischierebbe di rafforzare, invece di dissipare, i dubbi dell’elettorato sulla sua candidatura.

Proprio quello che De Luca, forse, non si può permettere. A due mesi dal voto, e soprattutto tre punti percentuali dietro Caldoro.

(Il Mattino, 14 marzo 2015)

Primarie, che brutto spettacolo

ImmaginePiù avanti, più moderno di tutte le altre formazioni politiche, il partito democratico fa le primarie. Sono una cosa americana. O almeno: oltre oceano ci fanno un Presidente degli Stati Uniti, volete che non bastino per il segretario del Pd, o per un segretario di provincia? E poi sono una roba nuova, all’altezza del XXI secolo: i defunti partiti novecenteschi non ci avevano mai pensato. Cosa dice invece l’avanzatissimo statuto del partito, all’articolo uno? Che il Pd è un partito di «elettori  ed iscritti». Mica solo di iscritti, quelli che hanno così tanto tempo da perdere, che lo trascorrono come sfaccendati nei circoli; ci sono anche gli elettori, quelli che nel circolo non entrano mai, ma sentono insopprimibilmente di appartenere al Pd il giorno del voto. Con squisita sensibilità democratica, gli elettori non hanno infatti smesso di tesserarsi nemmeno un attimo prima di votare, pur di partecipare al sacro rito. Il Pd voleva primarie così aperte, anzi così spalancate, da non chiudere il tesseramento per tempo, per esempio al momento dell’indizione del congresso. Ci avrebbe guadagnato la regolarità delle operazioni congressuali. Ma il fuoco della partecipazione democratica doveva consumarsi tutto, e comprendere anche le tessere comprate un tanto al chilo, o un numero di iscritti che qua e là supera quello dei votanti. Incidenti di percorso. Che però si sono verificati un po’ ovunque: a Napoli come a Caserta (dove non ci si fa mai mancare nulla), ma anche a Roma e in Sicilia, nel Veneto e in Puglia, in Umbria e in Calabria. E via elencando.

Ma lo statuto non demorde e anzi insiste. Articolo due: i soggetti della vita democratica del partito sono da una parte gli iscritti, dall’altra gli elettori. Il fatto che gli iscritti costituiscano una platea chiaramente definita, mentre la coorte degli elettori abbia connotati decisamente più vaghi (e formi perciò code improvvisate, e comprenda stranieri reclutati alla bisogna) non scoraggia l’ansia di democrazia del partito. E Dio sa se non ve ne sia bisogno!

Ma di cosa, precisamente, c’è bisogno? Lasciamo infatti perdere la retorica della partecipazione e domandiamoci: c’è anche un solo elettore il quale, dopo essersi frettolosamente tesserato senza aver mai pensato di farlo prima, prenderà d’ora in poi a frequentare il circolo e trarrà nuove motivazioni ideali per il suo impegno? Temo di no. Temo che non ve ne sia nemmeno uno.

Allora prendiamo la cosa da un altro lato. C’è qualche dirigente democratico il quale abbia voglia di sostenere che la fase congressuale svoltasi nei giorni scorsi ha consentito al Pd di migliorare la qualità della sua classe dirigente, e voglia portare esempi, in proposito? Sarei curioso di conoscerli.

Ma c’è di più: il Pd ha tenuto distinti il rinnovo delle cariche di partito ai diversi livelli. Il fatto che il livello provinciale si chiuda indipendentemente dalla scelta del segretario nazionale è stato motivato con l’esigenza di evitare il formarsi di cordate, che avrebbero soffocato la discussione e la libertà di schierarsi secondo il proprio libero convincimento. Risultato: nessuno ha visto la mitica discussione materializzarsi da qualche parte, e in luogo delle cordate nazionali sono potuti ricomparire, più protervi di prima, i signori delle tessere, che non hanno dovuto neppure fingere di stare in campo per Cuperlo o per Renzi, per Pittella o per Civati, perché era tutt’altra (e meno nobile) partita.

C’è di più, e pure di peggio: dichiarare infatti che il legame con il livello nazionale avrebbe comportato l’ingessatura del dibattito significa confessare implicitamente che sul piano nazionale non si confrontano più opzioni programmatiche o ideologiche, roba del secolo scorso, ma solo gruppi, alleanze, schieramenti.

Diciamola tutta, allora. Il Pd avrà sicuramente un problema di leadership. Ma che le primarie – almeno: le primarie all’italiana – costituiscano il luogo in cui un leader nasce e si afferma è tutto da dimostrare, visto che il Pd procede da quando è nato a colpi di primarie. Berlusconi, invece: lui non ne ha fatta una. Come non ne hanno fatte  quelli del Novecento, i Togliatti e i De Gasperi, i Craxi e i La Malfa. Che non erano leader, in realtà: erano proprio capi. Forse, allora, se i futuri leader si dimostrassero tali sul terreno delle idee, dei programmi o dell’azione di governo sarebbe una buona cosa, per il Pd e per il Paese tutto.

(Il Mattino, 2 novembre 2013)