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Ma il fuorionda non dice di lui nulla di nuovo

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Il Grande Fratello e Donald Trump: trovate le differenze. Negli studi del Grande Fratello, col favore della notte, il calciatore Stefano Bettarini sciorina con un certo orgoglio all’amico Clemente Russo, il pugile, quello che ti combina con le donne: linguaggio greve, offese e spacconate, maschilismo e sessismo come se piovesse. Donald Trump, quanto a lui: è un vip vero, e ha pure un bel pacco di milioni, come volete che si comporti un tycoon come lui, con le donne? Come Stefano Bettarini (o forse Bettarini si comporta come Trump: non so). Certo, di mezzo c’è l’Atlantico, e l’elezione del Presidente della prima superpotenza mondiale: non è la stessa cosa chiedersi se Bettarini sia degno di rimanere nella casa del Grande Fratello o domandarsi se Trump sia degno dell’altra casa, quella bianca che sta a Washington, al numero 1600 di Pennsylvania Avenue. Ma tutti e due fanno le stesse battutacce sulle donne, cose che nell’editoriale di un giornale si fa fatica a riferire, anche prendendole fra le pinze delle virgolette.

Dunque non le riferirò. Ma non riferirò neppure quello che si trova nelle mail che scambio con un gruppo di amici rigorosamente maschi, o quel che in anni e anni di onorata carriera sui campi di calcetto più scalcagnati della periferia ho detto e sentito, al riparo da microfoni e telecamere (ho un’età: gli smartphone non stavano in tutte le tasche, o in tutti gli accappatoi). Quel che è certo, è che mi manca un buon numero di requisiti per divenire presidente degli Stati Uniti d’America. Tra questi, il non aver vinto le primarie dei repubblicani o dei democratici, e il non avere un cellulare, una casella di posta elettronica o una rete di amicizie maschili a prova di qualunque captazione.

Dite quel che volete, anzi lo dico prima io: l’ultimo candidato che potrei votare in America è Donald Trump. Tra lui e un democratico – qualunque democratico – sceglierei il democratico. Ma anche se fossi costretto a scegliere fra lui e un repubblicano, o addirittura un Bush a piacere, uno qualunque, preferirei un Bush. Insomma: non ho alcuna simpatia per l’uomo, per il politico, per il personaggio. Ma non riesco a convincermi che la partita delle presidenziali possa essere decisa da un fuori onda di dieci e più anni fa. Né riesco a rassegnarmi al venir meno della differenza fra pubblico e privato. Il caso di Bettarini è diverso: perché lui ha accettato per contratto di stare in un posto dove telecamere e microfoni gli ronzano attorno ventiquattro ore su ventiquattro. Ma Trump no, o perlomeno non gli si può chiedere di accettarlo ora per allora, con il senno di poi.

Mi si dirà però che è giusto che l’opinione pubblica sappia tutto, ma proprio tutto quello che pensa Donald Trump. Ed è vero. Ma ditemi: siete così ingenui dal non aver mai sospettato cosa pensi Trump delle donne, siete così ingenui da aver bisogno del fuori onda? Il punto non mi pare che sia questo, ma se convenga – convenga a tutti noi, non a Trump, che se la caverà egregiamente anche qualora non venisse eletto – che cada definitivamente il sapientissimo velo di ipocrisia con cui abbiamo costruito le società liberali moderne. Siamo arrivati dove siamo arrivati grazie a un buon numero di separazioni: separazione della religione dalla politica e della Chiesa dallo Stato, separazione dei poteri, separazione della morale dal diritto, separazione del cittadino dal borghese, separazione del censo dal voto, separazione anche tra pubblico e privato. Prima di smantellare tutte queste separazioni: non sarà il caso di chiedersi almeno cosa ci attende dopo?

Al diavolo Trump! Magari lo scaricano, magari subentra in corsa il vice-presidente: è il mio augurio all’America. Ma non è il caso di augurarsi, per esempio, che quello che c’è nel mio smartphone rimanga per l’appunto solo mio, senza intrusioni di sorta? Qualche anno fa, in una bella commedia di Paolo Genovese, «Perfetti sconosciuti», tre coppie (più uno) accettano per gioco, durante una cena, di rinunciare alla privacy del telefono: i messaggi saranno letti da tutti, le telefonate andranno in viva voce. Non vi racconto le cose terribili che capitano alle coppie, sotto la dittatura di quella trasparenza assoluta: potete immaginarlo (o comunque vedetevi il film). Ma insomma: senza il diaframma di una vita privata, senza la possibilità di dire bugie, non c’è vita in comune: non coniugale, ma nemmeno pubblica. Non mentire, dice il comandamento. Ed è ben detto: ma se è ben detto vuol dire che devo poter mentire, e che si mi togli la possibilità di mentire mi togli anche la possibilità di essere e valere come uomo.

Forse un Presidente degli Stati Uniti d’America non mente mai. In pubblico: d’accordo. Ma quanto alla sua vita privata, ai suoi costumi sessuali, ma anche solo agli scherzi volgari con gli amici? Sbaglio, o il più mitico presidente degli USA, John F. Kennedy, qualche piccola bugia la diceva, sulle sue marachelle private?

Il fatto è che le parole non se ne stanno più ferme là, dove vengono pronunciate: grazie alla tecnologia, ai dispositivi elettronici, alla rete, stanno ormai dappertutto ed è difficilissimo cancellarle. Capiamoci, però: questo significa che il prossimo presidente degli Stati Uniti d’America non potrà più essere quel tipo di uomo che ha trascorso una serata tra amici, e l’ha raccontata a qualcuno. Forse è un bene, tanta moralità e purezza. O forse no, forse è meglio meno verità e autenticità, ma più libertà di distinguere fra le parole dette a un amico o a un pubblico ufficiale, in chiesa o in un comizio, in un sms o in un testamento.

(Il Mattino, 9 ottobre 2016)

Nudi sulla rete, altro che privacy

Acquisizione a schermo intero 16042016 082121.bmpRaccontiamola un’altra volta, la sorte che ci capita in rete e i rischi che corriamo, perché, dopo le rimostranze di Apple contro l’FBI, ora è Microsoft che fa causa al Dipartimento di Giustizia dell’Amministrazione americana, colpevole di ficcare troppo spesso il naso nei profili online e autorizzare violazioni della privacy con troppa disinvoltura. È la mossa più aggressiva finora compiuta da Bill Gates contro il governo federale.

Dunque vediamo: se navigate online, lasciate tracce. Ovunque. Non basta eliminare file, cancellare la cronologia, svuotare le cartelle, proseguire la navigazione in incognito, usare password e falsi account: tutte le operazioni ordinarie che un utente normale esegue non sono sufficienti. Le tracce rimangono e sono captate. E non finiscono sotto la pacata bonomia o l’acume intellettuale degli investigatori da romanzo, con la pipa e la lente d’ingrandimento. No, finiscono dentro enorme banche dati fisicamente dislocate chissà dove, in cui, traccia dopo traccia, si deposita tutta la vostra vita.

Non vi capita già che Facebook vi ricordi i vostri ricordi più personali, che voi però non ricordavate più? Ebbene, voi non li ricordate, ma Facebook sì. I baroni della Rete conservano memoria di ogni cosa, e decidono loro cosa farne. All’ingresso, all’atto della registrazione, ciascuno di noi accetta distrattamente la policy dell’azienda, che leggiamo come leggiamo libretti d’uso e licenze: saltando all’ultima riga. Mettiamo la crocetta e, in un clic, accettiamo che siano le grandi aziende dell’hi tech a scrivere riga dopo riga l’edizione completa del libro del nostro destino.

La vera protezione che abbiamo, forse l’unica, è che a nessuno interessi leggere proprio quel libro: il nostro. Certo, i nostri dati verranno trattati statisticamente, e su di noi pioveranno pubblicità e proposte commerciali sempre più mirate, targettizzate, personalizzate, grazie ad algoritmi sempre più potenti. (Regoletta elementare: se gli algoritmi sono molto potenti, chi li adopera detiene molto potere). E naturalmente ci prendono, ma almeno ci prendono nel mucchio, e soprattutto in maniera del tutto anonima. È a macchine, insomma, che dobbiamo la cortesia dell’ultima offerta last minute, o del nuovo, imperdibile libro di Pinco Pallo.

Ma che succede se, dall’altra parte dello schermo, tra i circuiti dei nostri smartphone entra il Federal Bureau of Investigation? Microsoft ha fatto causa al governo nazionale degli Stati Uniti perché queste intrusioni accadono sempre più spesso, accadono senza che la persona sottoposta a indagine ne sappia nulla, accadono senza neppure che sia fissato un termine temporale a queste palesi violazioni dalla privacy.

In nome della sicurezza, ovviamente, della minaccia terroristica e delle necessarie attività di intelligence. Ma il risultato è un drastico abbassamento della soglia di protezione dei nostri dati personali.  E ciò accade non solo perché in rete, sul nostro conto, si trova ormai più roba di quanta ce ne sia nella nostra stessa testa, ma anche perché vengono meno le garanzie che un’idea illuministica e liberale del diritto ci aveva abituato a considerare intangibili. Pensavamo cioè di non poter finire più in un processo kafkiano, in cui non è chiaro chi indaga sul tuo conto e perché. E pensavamo pure che sotto lo scrutinio degli apparati di sicurezza, con il permesso dell’autorità giudiziaria, si potesse finire solo per un tempo determinato, e in forza di esigenze chiare, circoscritte e ben motivate. La denuncia della Microsoft ci toglie questa ingenua confidenza.

Alle prese con la dose di cavallo delle intercettazioni che i quotidiani ci regalano un giorno sì e l’altro pure, e sotto il pressante invito ad allungare il più possibile i termini della prescrizione (accompagnato da pesanti sanzioni morali per chi pensasse di non accoglierlo), la causa intentata da Microsoft potrebbe farci sorridere.

E invece si tratta di una questione centrale delle società contemporanee, che ha davvero a che fare con le nostre libertà. Ora però, se ho raccontato tutta quella storia, è per sottolineare un paio di altre cose, che una volta che avremo preso partito per il gigante buono contro il poliziotto cattivo rischiamo di trascurare.

E cioè che dobbiamo difendere la privacy con le unghie e coi denti, ma è meglio che ci dimentichiamo proprio di avere una vita privata, se per vita privata intendiamo uno spazio in cui abbiamo accesso solo noi e chi vogliamo noi. Perché quando decidiamo di entrare in rete (e non possiamo non entrarvi), varchiamo un cancello di cui non deteniamo più le chiavi. Chattiamo magari da casa nostra, ma non stiamo più a casa nostra. Poi, certo, la chiave abbiamo deciso di darla a Microsoft, Apple o Facebook e non al governo, ma né Microsoft né gli altri sono il nostro vicino di casa. Ci ispirano più fiducia, ma solo perché la fiducia è parte fondamentale del loro stesso business, di cui sono ovviamente gelosissimi.

E anche perché qui da noi, come in tutto il mondo, dei poteri pubblici diffidiamo, a torto o a ragione, sempre di più.

(Il Mattino, 15 aprile 2016)

Il conflitto utile e il male minore

poli184«La Francia è in guerra. Gli atti compiuti venerdì sera a Parigi e nei pressi dello Stadio di Francia sono atti di guerra. Sono commessi da un’armata jihadista che ci combatte perché la Francia è un paese di libertà, perché la Francia è la patria dei diritti dell’uomo». Così ha parlato François Hollande ieri, dinanzi al Parlamento francese, chiedendo anche una revisione costituzionale (sui poteri del Presidente e lo stato d’assedio) che ha anzitutto un significato politico: poiché la revisione costituzionale richiede il voto dei tre quinti dell’Assemblea, su di essa deve convergere anche il centro-destra.

Ma la guerra, sul fronte esterno, è un’altra cosa. Un conto è essere in guerra, un altro è farla. Per fare la guerra, non basta l’intensificazione dei bombardamenti che avviene in queste ore, o l’approssimarsi della portaerei Charles de Gaulle alle coste del Mediterraneo orientale, ci vuole un intervento militare a terra, che spazzi via l’autoproclamatosi Stato Islamico e mandi all’inferno il Califfo Al Baghdadi.

La domanda è se sia chiara la visione che sostiene questa strategia. Chi la respinge per motivi etici e umanitari oggi non è ascoltato, ma in realtà non è mai stato ascoltato perché mai il corso della politica e quello della guerra si sono separati nella storia umana. Se accettiamo di misurarci sul terreno della politica, non possiamo quindi limitarci a chiedere se sia morale questa guerra, ma dobbiamo domandarci se sia utile.

Sul versante interno, la Francia di Hollande sembra voler prendere la strada che fu già seguita dall’America col Patrioct Act dopo l’11 settembre: la strada delle misure eccezionali. Maggiore sicurezza significa maggiori poteri ai corpi di polizia, maggiori ingerenze degli apparati dei servizi segreti. Maggiori poteri significano quindi minori diritti, minori libertà, minore privacy. Fin dove ci si può spingere? Soprattutto: fin dove serve spingersi? Vogliamo davvero che le nostre libertà scivolino via, in nome dell’emergenza? Siamo sicuri che non basti una severa, ferma applicazione delle regole del diritto – l’unico terreno sul quale, tra l’altro, esiste una dimensione europea davvero comune, costruita intorno alla Corte di giustizia e alla Corte europea dei diritti dell’uomo – e occorra invece una loro sospensione, o una loro compressione? E se questa sospensione o questa compressione vogliamo che riguardi non noi, ma solo quella fetta di popolazione di cui sospettiamo (perché musulmana, perché immigrata, o magari semplicemente perché povera), siamo sicuri che così non ne alimenteremo il risentimento di tutti costoro, finendo in questo modo con l’ingrossare le file del nemico? Si può anche non esitare dinanzi a questo interrogativo: importante è sapere che occorre affrontarlo. E naturalmente essere poi conseguenti, in un senso o nell’altro.

Sul versante esterno, certo non possiamo cavarcela dicendo che la guerra è un affare dei francesi, perché così non è. Hollande si è rivolto ai partner europei, e ha fatto bene. Non è solo poco dignitoso augurarsi che altri facciano il lavoro sporco per noi: è insensato. Non è insensato invece interrogarsi su chi sia il nemico – e chi gli alleati. Se il maggior nemico è l’ISIS, o IS, di Al Baghdadi, possiamo permetterci di non rivolgere la parola al leader siriano Assad, che l’ISIS ce l’ha di fronte, e di contro? Non è necessario accettare la logica del male minore? E possiamo pretendere di disegnare da soli, senza il concorso delle altre potenze regionali e della Russia, la mappa del vicino Oriente? Perché di questo si tratta e così è sempre stato, da quelle parti: nel bene e nel male, in quelle contrade gli europei prima, gli americani poi hanno voluto o dovuto ridisegnare la geografia, secondo le linee di interesse e le forze presenti sul terreno. Non si può sperare che questa dimensione cruda e realistica dei rapporti di forza scompaia d’incanto, e condurre una guerra solo in nome di un astratto imperativo morale, o di un altrettanto astratto furore bellicista. Non funziona l’uno, non funziona l’altro. Anche in questo caso abbiamo un esempio recente: dalla caduta di Saddam Hussein e del regime baʿthista sono trascorsi poco più di dieci anni. La guerra, allora, fu fatta: coi bombardamenti, i carri armati e tutto quanto. Nello schema di quella guerra, la fine del dittatore, la statua di Saddam nella polvere, la liberazione di un popolo, doveva  preludere all’esportazione della democrazia in tutta l’area mediorientale. Essendo Saddam Hussein il principale mandante del terrorismo mondiale, si pensava che la sua sconfitta avrebbe significato anche la fine, o perlomeno il contenimento, della minaccia terroristica. Non è andata affatto così. A distanza di dieci anni, una nuova potenza statale è sorta, compromettendo l’integrità territoriale siriana e irachena. Adesso sogna di estendere il suo dominio dal Medioriente all’intera fascia mediterranea africana. È inoltre in grado, come dimostrano i fatti di Parigi, di seminare terrore ovunque. Sembra dunque che, ben lungi dall’aver imposto la pax americana nella regione, sia stato scoperchiato un vaso di Pandora, che ora non si sa come richiudere. Con un’altra guerra: sia pure. Ma con chi si intende farla? Chi è disposto a fare cosa? Chi, tra i paesi formalmente nostri alleati dell’area – Turchia da una parte, Arabia saudita dall’altra –  è davvero pronto a farla, o a supportarla? E per avere, dopo la guerra, quale Medioriente? Queste domande non possono essere eluse. La retorica pacifista non arriva a porle, ma quella bellicista le scansa con altrettanta, irresponsabile superficialità.

(Il Mattino, 17 novembre 2015)