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Un Paese in cerca d’identità tra voglia d’Europa e populismi

Richter_ Wolken 1970

G. Richter, Nuvole (1970)

I flussi e i luoghi, i fantasmi e le superstizioni, i leader e gli immaginari collettivi. E poi i migranti, l’Europa, Renzi e Berlusconi, Salvini e i Cinquestelle: è difficile tirare una linea diritta tra le parole e i pensieri che si raggomitolano attorno al futuro del nostro Paese. È difficile sbrogliare l’intrico di ipotesi, svolgere le subordinate più o meno probabili, delineare gli scenari più o meno lontani. Bisogna percorrere almeno idealmente la Penisola, per provare a sentire più voci, per seguire più ragionamenti e così provare a tracciare la mappa sulla quale si disegneranno le traiettorie politiche nel breve e nel medio periodo.

E bisogna per forza cominciare dalla Sicilia, perché lì si vota in autunno, e da quel voto può dipendere molto.

«Dipende tutto», mi corregge Pietrangelo Buttafuoco, «tutto dipende dalla Sicilia. Malgrado Renzi abbia detto che il voto non ha una valenza politica nazionale, il voto regionale siciliano costituirà un test per capire molte cose». Buttafuoco conosce bene la Sicilia, la sua terra, e non ha molti dubbi: «in questo momento in Sicilia si vedono solo Musumeci (di Forza Italia) e i Cinque Stelle. C’è da chiedersi allora quale sarà il contraccolpo che subirà il partito democratico da una sconfitta quasi certa. Ma il voto dirà anche se il M5S è in grado di assorbire la fallimentare esperienza di Virginia Raggi a Roma. E dirà soprattutto se il centrodestra saprà ritrovare l’unità. Lì, come direbbe il Poeta, si parrà la nobilitate di Berlusconi». Nei sanguigni ragionamenti di Buttafuoco, tutto dipende dal voto siciliano, ma tutto dipende anche dalle strategie berlusconiane. Se Alfano non sarà con lui, gli alfaniani però già lo sono: se bisognerà mozzare la testa del serpente, la testa del serpente cadrà. E una volta vinta la Sicilia, Berlusconi dovrà trovare un federatore del centrodestra: «O lo prendono dalla politica, penso in quel caso a Luca Zaia; o lo prendono dal parco tecnici, e il Cavaliere ha già cominciato i sondaggi; o infine giocano la carta di casa, Marina Berlusconi, perché io non sono affatto convinto delle smentite che ci sono state in passato». Poi, continua Buttafuoco, per prosciugare i Cinque Stelle il Cavaliere varerà una mriadi di liste di varia umanità: quella degli animalisti, quella degli indignati, quella degli arrabbiati, magari quella del Sud per controbilanciare la Lega». E dall’altra parte, il Pd? «Se in Sicilia perde male, la leadership di Renzi è a rischio. Ma l’unica cosa che possono fare per non perdere è nascondersi dietro qualche paravento, come hanno cercato di fare con il Presidente del Senato Pietro Grasso».  Che però ha detto di no a una sua candidatura. C’è una cosa che tuttavia non mi convince: vada pure male per il Pd, che centrodestra sarà quello che col vento in poppa del voto siciliano si presenterà alle elezioni politiche nazionali? Non ci sono profonde differenze fra Berlusconi e Salvini, fra moderati e populisti, fra sovranisti ed europeisti? Qui però Buttafuoco mi ferma: «Quella dell’europeismo è solo una superstizione, una stupidaggine. La vera partita è sul Mediterraneo, e i governi nazionali ignorano Bruxelles. Chi si impossessa del Mediterraneo decide. Lo ha capito la Francia di Macron, lo ha capito la Russia di Putin che, checché se ne dica, è la grande potenza europea».

Qui sono io a fermarmi. Ho bisogno di capire di più su questa storia dell’Europa: una stupidaggine o una sfida reale, persino decisiva? Risalgo la Penisola. Lascio il mare della Sicilia e vado a trovare Sergio Fabbrini, pesarese, in vacanza sulle Dolomiti: «Il mio argomento – mi dice Fabbrini – è che il sistema dei partiti della Seconda Repubblica, disposto più o meno secondo una logica bipolare destra/sinistra, ancora in continuità con la lunga vicenda postbellica novecentesca, non è più sulla linea decisiva, che è quella che divide i favorevoli e i contrari all’integrazione europea». Fabbrini non è un europeista senza se e senza ma, nel senso che ha più di una critica da muovere ad una vicenda che negli ultimi anni è andata avanti senza un chiaro disegno strategico, e che «ha prodotto più integrazione senza sovranazionalizzazione». Non è una formula difficile da spiegare: con il metodo intergovernativo, sono stati progressivamente svuotati di peso le istituzioni dell’Unione: il Parlamento di Strasburgo, la Commissione, la Corte di giustizia. Le decisioni più importanti vengono prese dal Consiglio europeo, dove siedono i governi nazionali. «E i governi si esprimono non attraverso atti legali, direttive o regolamenti, ma attraverso atti politici, che emarginano le istituzioni comunitarie». Che cosa ne viene all’Italia? Beh, molto poco e molto male: «dal momento che l’Italia non è in grado di esprimere governi coesi e stabili, più pesano i governi nazionali meno pesa l’Italia. L’Italia dovrebbe allora compiere, almeno in teoria, una doppia capriola: darsi anzitutto un governo stabile, e lavorare per superare il metodo intergovernativo, io dico in direzione di un modello originale di unione federale. Questa proposta in Europa spetta a noi, perché nessuno penserebbe che noi la facciamo per ragioni egemoniche. A fianco del primato politico-militare della Francia e del primato economico della Germania dobbiamo costruire un nostro primato culturale, ideale». Con l’attuale sistema dei partiti, con l’attuale legge elettorale? Realisticamente parlando, la legge elettorale non cambierà, Fabbrini ne conviene: né Renzi né Berlusconi hanno interesse ad accettare logiche coalizionali, che darebbero un forte potere di condizionamento alle altre forze di un’eventuale coalizione. Ma con questa legge noi siamo come la Francia del primo turno: solo il secondo turno di ballottaggio ha permesso alla Francia di superare la divisione in quattro poli e di avere Macron. In questa situazione, io penso che le forze europeiste dovrebbero riorganizzarsi intorno a un patto scritto che preveda anzitutto una razionalizzazione delle istituzioni politiche». Si tratta della prima capriola: il governo stabile.: «Sì: bisogna togliere la fiducia al Senato, inserire la sfiducia costruttiva alla Camera, e solo dopo discutere di legge elettorale». Poi la seconda capriola: «La classe politica che si riconosce nei valori europei dovrebbe contribuire a portare in Europa una netta opposizione all’Europa intergovernativa di oggi».

Lascio le montagne, torno al mare, questa volta al mare di Ostuni, spazzato da un fortissimo maestrale. Lì trovo Biagio De Giovanni, che ha lasciato la sua Napoli in questi caldissimi mesi estivi. L’approccio descrittivo del filosofo è abbastanza diverso da quello prescrittivo dello scienziato della politica, ma la passione europea è comune a entrambi. De Giovanni esprime più volte la preoccupazione che il suo ragionamento suoni troppo scolastico, troppo ordinato, ma il perno è anche per lui la «forma nuova del problema europeo», soprattutto dopo la Brexit, che ha lasciato l’asse franco-tedesco senza il contrappeso d’Oltremanica. Sta dunque all’Italia «implicarsi» in quel sistema, o altrimenti il nostro Paese pagherà un prezzo molto alto. In una parola: l’irrilevanza. Se questa è la questione dirimente, allora è da capire dove si trovano le forze che, in Italia, possono salvare il «principio europeo»? Non certo dalle parti di Salvini o dei Cinque Stelle. «Il rischio è però che queste forze prevalgano. Non so se stabiliranno un’intesa politica esplicita, quel che io vedo è però la loro complementarietà. Qualcuno giunge persino a ipotizzare che Salvini e Meloni alzino i toni ed esasperino i contrasti con il centro moderato per prepararsi poi a dare un appoggio “esterno” e consentire un governo Cinque Stelle». A questo scenario De Giovanni contrappone una coalizione fra forze popolari e forze socialiste, o quel che resta delle rispettive tradizioni, in Italia: «il Pd, i centristi, Forza Italia». Ma soprattutto anche per De Giovanni, come per Fabbrini, il displuvio europeo divide centrodestra e centrosinistra al loro interno: «non c’è vera comunicazione tra Mdp e Pd, a sinistra, come non c’è vera comunicazione fra Lega e Forza Italia, a destra».

Resto in Puglia. In Puglia c’è Marcello Veneziani, intellettuale di destra che mi pare veda le cose in maniera speculare a come le vede De Giovanni. Sull’immediato futuro Veneziani non formula previsioni – «c’è una tale aleatorietà – mi dice – che nemmeno i protagonisti della vita politica saprebbero formularle» – ma quel che gli sembra invece un dato di realtà ormai consolidato è la formazione di un chiaro bipolarismo in termini di culture civili. «Il dramma è che queste culture civili non trovano corrispondenza sul piano politico». Veneziani guarda in particolare al campo politico del centrodestra: «c’è un comune sentire, un’area di opinione su tutta una serie di questioni – dai migranti alla famiglia, dai temi del politicamente corretto alla tortura – che però non trova espressione politica, se non in parte, nel centrodestra, e rimane quasi dispersa allo stato brado». Anche lui fa il confronto con la Francia: non con l’europeismo di Macron, ma con il Front National di Marine Le Pen. Che non è arrivata all’Eliseo, ma «ha determinato un fatto politico reale».

La mia impressione è che tanto il centrodestra quanto il centrosinistra siano in cerca di una nuova definizione, e che le forze politiche che si spartiscono il campo facciano molta difficoltà a dotarsene. Dario Antiseri, romano d’adozione, è meno preoccupato di me delle culture politiche dei partiti italiani. «Scomparso il partito ideologico che aveva la verità su tutto, i partiti devono attrezzarsi per la soluzione dei problemi del Paese: scuola, sanità, Europa». Antiseri accenna a una sorta di medicina liberale per il Paese, in particolare nell’ambito dell’istruzione: «buona scuola e abolizione del valore legale del titolo di studio per mettere in competizione le istituzioni scolastiche e universitarie». Anche la proposta di una legge uninominale a doppio turno è figlia, credo, dell’idea di introdurre meccanismi concorrenziali in politica. Mi colpisce però che questi accenti abbiano il tono spazientito di chi non vuol troppo saperne dell’attuale classe dirigente, di questo «Parlamento ben pagato» che non riesce a fare la legge elettorale, di questi parlamentari che cambiano idea e gruppi «e così la sovranità non appartiene più al popolo». Un po’ troppo sbrigativo, per le mie abitudini intellettuali.

Decido allora, restando a Roma, di sentire Giuseppe De Rita. Che ha voglia di parlare e di volare alto. Come Antiseri vuole cercare soluzioni ai problemi a portata di mano, senza appelli alle grandi verità, così De Rita esordisce invece parlando di scopi e di visioni e di immaginario collettivo. Per me, è quasi un toccasana sentir dire che neppure la mitica “ripresa” può essere lo scopo di una politica. È questo mi pare essere l’errore che imputa a Renzi: un deficit di narrazione, si può dir così? In ogni caso De Rita tiene a mettere in chiaro due cose. Che la politica ha bisogno di darsi uno scopo, e che il problema delle coalizioni per governare questo Paese non può essere risolto in termini puramente tattici o politicistici: «Non si può governare senza una logica di scopo. Può trattarsi dell’orizzonte europeo, in una logica merkeliana, o più avventurosamente di una politica mediterranea e verso l’Africa. Oppure può trattarsi di rifare la macchina amministrativa del Paese (come accadde nel secondo dopoguerra). Ma uno scopo, che dia un minimo di carica all’immaginario collettivo del Paese è indispensabile». Non basta: quel che ancora ci vuole è rispondere a due domande radicali, che vedo formulate in tutto il mondo, ma che arrivano anche in Italia: una domanda radicale di sicurezza, e una domanda altrettanto radicale di dare senso all’esperienza umana collettiva». Sembra complicato, ma non lo è: «Minniti e Del Rio». Già, ma mettere d’accordo le due “domande”, non dico i due ministri, non è sempre facile: Gli esempi che De Rita mi sciorina (Putin che usa il polso fermo e però stringe la mano al patriarca ortodosso di Mosca; la Cina che costruisce sicurezza ma promuove anche il confucianesimo come etica collettiva di massa) mi lasciano un dubbio, che le democrazie secolarizzate dell’Occidente abbiano qualche difficoltà sia sul versante della sicurezza che su quello della ricerca di senso, ma De Rita non ha dubbi: «se partiti e coalizioni non si daranno uno scopo, queste domande radicali diverranno i poli che ridisegneranno la cultura politica del Paese».

Con Roma ho finito. Voglio tornare al Nord: devo ancora passare per Bologna, Milano, Torino. A Torino c’è Luca Ricolfi: cosa c’è di meglio di un sociologo empirico, tutto numeri e verifiche fattuali? Ricolfi è di Torino, però in questi giorni sente anche lui bisogno del mare. È a Stromboli, e le domande devo formulargliele via mail. Alle mie preoccupazioni risponde con perfetto stile anglosassone, in modo conciso e diretto: «la legge elettorale cambierà poco, anche se non escluderei un piccolo premio di governabilità al primo partito; il quadro delle forze politiche resterà abbastanza simile a quello attuale, a meno che non compaia un leader nuovo e carismatico; in caso di stallo non escludo la ripetizione del voto, come in Spagna». Tra le voci fin qui sentite, Ricolfi mi pare abbastanza in controtendenza. O forse è lo stile asciutto che mi fa sembrare sottostimato l’effetto che il nuovo ambiente proporzionale potrà avere sul sistema dei partiti: «L’Italia percorrerà la strada del gattopardo, annunciare il cambiamento lasciar marcire i problemi». Anche sulle questioni più scottanti, come quella dei migranti. Ricolfi è tranchant: «si voterà in inverno, con il mare grosso e meno sbarchi, la questione immigrazione sarà meno saliente di oggi».

Sarà. Ma io ho di nuovo bisogno di uno sguardo più ampio, di una visione più larga del futuro. A Milano c’è Aldo Bonomi. Al telefono, tra una sigaretta e l’altra, mi spiega le due cose che più gli premono. La prima: d’accordo, il sistema politico italiano ha conosciuto in questi anni profonde trasformazioni, e le ricomposizioni sono sempre seguite da fasi di scomposizione più o meno pronunciate. Bonomi parla di «metamorfosi» e «diaspora», ma guarda i due fenomeni dal lato della società, degli effetti sulla composizione sociale del Paese. Se centrodestra e centrosinistra non sono più gli stessi è perché è cambiata quella che una volta si diceva la loro base sociale. La seconda cosa che gli preme richiamare è il vero e proprio «salto d’epoca» che stiamo attraversando. Bonomi ne parla anche come di un «salto di paradigma». Se potessi fare un disegno, esporrei meglio il suo ragionamento. «Un tempo, dice, c’era il conflitto capitale/lavoro, con lo Stato in mezzo, con funzioni di mediazione. E per Stato intendo l’insieme delle istituzioni e dei corpi intermedi chiamati a mediare il conflitto. Oggi invece ci sono i flussi – l’economia finanziarizzata, la Rete, l’immigrazione –  che impattano sui luoghi, e il territorio è la dimensione che emerge da questa rapporto». Territorio vuol dire essenzialmente: non più Stato nazionale. Il che però ha delle conseguenze evidenti sulla stessa forma partito: «Il partito è la forma che la politica ha assunto nel ‘900 dentro lo schema capitale/lavoro». Capire i flussi e mettersi in mezzo: questo il compito della politica. E l’impressione di Bonomi è che i partiti siano parecchio in ritardo.

Ma chi meglio di Carlo Galli, tra i maggiori studiosi del Novecento europeo, può allora darmi un ultimo ragguaglio sul sistema italiano dei partiti? Galli è in Parlamento, ha lasciato il Pd, nelle cui file è stato eletto, ma non ha dismesso l’abito dell’intellettuale rigoroso. Mi disegna in breve lo scenario politico dinanzi al quale siamo. Una lezione di realismo: «L’unico che ha interesse a costruire una coalizione è Berlusconi. Non è facile perché a destra ci sono due entità, l’una moderata, l’altra riformista. Renzi non vuole coalizioni, perché per lui significherebbe rinunciare a Palazzo Chigi. Naturalmente peserà il risultato siciliano: se andasse male, Renzi sarebbe forse costretto a proporre lo schema Gentiloni, adottato in quest’ultima fase della legislatura, anche per la prossima. In una logica profondamente diversa, però, perché non più legata semplicemente all’emergenza. Anche alla sinistra del Pd ci sono però due diverse formazioni. Una – Sinistra Italiana, Montanari – si riassume nella formula “mai col Pd”; l’altra – Pisapia, Mdp – si riassume invece nella formula “mai con Renzi, sì col Pd derenzizzato”. Se il Pd andasse molto male in Sicilia, potrebbe prevalere uno schema in cui da un lato si troverebbero riuniti i partiti anti-establishment, dall’altro i partiti pro-establishment, in una sorta di arroccamento Renzi-Berlusconi. Centristi che darebbero l’immagine di un sistema assediato. Migliore sarà il risultato in Sicilia, più prevarrà l’idea di andare da soli al voto politico nazionale, cercando magari dopo il voto accordi con gli alleati naturali». Quanto siano però naturali per Pd e Forza Italia gli alleati delle ali estreme non saprei dire.

Ho finito il mio viaggio. Torno a Milano per sentire Massimo Recalcati. Con lui provo a sviluppare un’ultima riflessione sulla grande minaccia del populismo, che in tutti i ragionamenti che ho sentito è quasi sempre rimasto ai margini, come il baratro che rischia di aprirsi dinanzi all’Italia. Recalcati ci riflette da tempo: «viviamo una fase di evaporazione della politica per via da un lato della crisi economica e sociale portata dalla dimensione strutturalmente nichilista del capitalismo finanziario; dall’altro della retorica populista montante. In Italia, questa retorica è espressa da un lato dal populismo etnico di marca leghista, dall’altro dai grillini, che considero la faccia più pericolosa del populismo. Io parlo di un “fantasma incestuoso”, cioè dell’idea che l’unica forma di democrazia degna sia quella diretta. Il rifiuto di ogni mediazione istituzionale e la contrapposizione fra la purezza del popolo e la falsa rappresentanza politica, accompagnata dalla squalifica morale dell’avversario (non semplicemente delle sue tesi) ha generato un clima pesantissimo, tra odio, invidia sociale, giustizialismo». Provo a chiedere come allora uscirne: «Perché la politica ritrovi peso e resistenza è centrale la scommessa europea- Solo nella dimensione europea la politica può riuscire a governare la crisi. Per l’Italia l’Europa è un destino. Certo, vi è il rischio che essa appaia quasi come un corpo morto, che tutte le sue pratiche (l’Europa è essa stessa una pratica, un’esperienza politica) siano vissute come scorporate dagli interessi reali e concreti delle persone. Per questo ho parlato di fantasma incestuoso, perché come il bambino non vede altro che l’abbraccio della madre, così i populisti negano ogni dimensione diversa da quella più immediata e diretta».

Se questo è vero, quanto lontano dovrebbero essere da un viaggio così lungo, così complicato, con voci tanto diverse come quello che ci ha portato fin qui? Un filo di scetticismo mi attraversa: a che servono tutti questi ragionamenti? Chi è in grado di riprenderli e di costruirvi un futuro comune? Ma oltre lo scetticismo c’è per fortuna anche per me, domani, una giornata di mare.

(Il Mattino, 14 agosto 2017)

Se il voto spezza le vecchie identità

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F. Bacon, Three Studies of Lucian Freud (1969)

Vi sono due punti interrogativi dinanzi al sistema politico italiano, che proverà a misurarsi con essi nei prossimi mesi. Il primo riguarda la legge elettorale: quella che ci è stata consegnata dai pronunciamenti della Corte costituzionale e dal risultato del referendum del 4 dicembre non viene giudicata soddisfacente da nessuno degli attori politici in campo. Ma nessuno degli attori politici in campo sembra avere forza sufficiente per cambiare il sistema di voto. Sicché, al di là di piccoli aggiustamenti “tecnici”, è molto probabile che ci terremo un proporzionale con un premio di maggioranza fissato a un’altezza irraggiungibile (40%).

Il secondo interrogativo è rappresentato naturalmente dalle elezioni politiche della prossima primavera. Al confronto si recheranno forze politiche profondamente diverse da quelle che si sono misurate nel 2013. Le due principali forze politiche, di centrodestra e di centrosinistra, intorno alle quali è stato imperniato il confronto politico nel corso di tutta la seconda Repubblica hanno subito scissioni e lacerazioni che ne hanno mutato la fisionomia. L’appello che Berlusconi rivolge oggi ad Angelino Alfano ed a Giorgia Meloni non ha, nelle parole stesse del Cavaliere, il significato di una proposta politica pronta per affrontare il voto nazionale. Eppure Alfano e Meloni, nel 2013, stavano nella stessa coalizione, il Popolo della Libertà (si è persa memoria del nome). E in quella stessa coalizione c’era la Lega (però a guida Maroni, non ancora a guida Salvini), la cui traiettoria ha seguito tutt’altra linea da quella presa nel corso della legislatura dai centristi di governo.

Anche a sinistra le cose sono cambiate. Al tornante dei suoi dieci anni di vita, il Pd vede di nuovo spuntare alla sua sinistra quella molteplicità di formazioni che, nel progetto originario di Veltroni, dovevano essere superate dalla vocazione maggioritaria del nuovo partito. L’impresa non è riuscita. La forza centripeta di Renzi ha innescato spinte centrifughe anche fra i democratici, se persino il candidato premier del 2013, Pierluigi Bersani, milita oggi in un nuovo movimento, che galleggia fra il Pd e le altre piccole forze politiche che del Pd non vogliono più saperne. Grosso modo, si tratta di un’area che nel 2013 si raccoglieva sotto la bandiera della Rivoluzione civile di Antonio Ingroia: anche di questo nome si è persa memoria.

(L’unica cosa che non è cambiata è il Movimento Cinque Stelle. Il che si spiega ovviamente con il giudizio di estraneità, anzi di ripulsa, reso nei confronti degli altri, screditatissimi partiti e finanche della dialettica parlamentare. Ma anche lì qualcosa dovrà prima o poi cambiare, se i grillini vorranno tentare manovre di avvicinamento al governo del Paese).

Il secondo interrogativo è dunque: come è possibile ipotizzare che dopo il voto questo insieme di forze – così avventizio, frutto più della fortuna che di strategie precise – continuerà ad offrire la stessa fotografia che si presenterà agli italiani nella domenica elettorale? Certo, nei prossimi mesi, i tentativi di mettere mano al sistema elettorale – veri o fittizi che siano, soltanto declamati o anche praticati – proseguiranno. Non c’è solo la doverosa preoccupazione del Presidente della Repubblica per la tenuta del futuro Parlamento; c’è un evidente impasse in cui il Paese intero rischia di cacciarsi, per l’impossibilità di offrire una soluzione di governo all’indomani del voto. Ma guardiamo le cose in maniera rovesciata: se i partiti non sono in condizione di cambiare la legge elettorale, e se con questa legge ben difficilmente potranno assicurare stabilità e governabilità, non finirà con l’accadere il contrario, che cioè saranno i partiti a cambiare? Chi scommetterebbe, del resto, sulla resistenza nella lunga durata del quadro politico attuale, prodotto dal fallimento dei percorsi di riforma esperiti in questa legislatura, non certo dai suoi successi?

C’è però una differenza rispetto al passato. Tutte le legislature dell’ultimo quarto di secolo hanno conosciuto una stessa deriva verso la scomposizione di coalizioni faticosamente costruite per affrontare la prova del voto. La politica aveva le sue sistoli e le sue diastole, le fasi di avanzamento in cui l’accento era posto, per necessità elettorale, sull’unità, seguite dalle fasi di rilasciamento, in cui l’accento tornava indietro, verso la divisione. E tutti i capi di governo ne hanno fatto esperienza: Prodi e Berlusconi, ma anche, in tempi a noi più vicini, Letta e Monti. E infine Renzi, che in verità era riuscito a rimandare l’appuntamento con il Big Bang della frantumazione fino al giorno del referendum. Poi, liberi tutti.

Questi movimenti erano però gli spasmi di un sistema maggioritario rispetto ai quali i partiti riluttavano, e che quindi accettavano alla vigilia del voto solo per disfarlo il giorno dopo. Ora è il contrario: con una legge proporzionale, il moto avrà segno opposto, l’appuntamento con le urne esalterà le differenze, che il giorno dopo le elezioni bisognerà trovare il modo di superare. Ma per questo diverso andamento del ciclo politico nessuno dei partiti oggi in campo è preparato, e tutti tentano di allontanare da sé l’inconfessabile sospetto di voler “inciuciare” con gli altri (cosa invece richiesta dal sistema proporzionale). Bisognerà dunque farsi una nuova cultura politica, e non sarà semplice. E questo, a pensarci, è un terzo interrogativo, più grande ancora dei primi due: i partiti di centrodestra e di centrosinistra non vedranno ridisegnata in profondità la loro fisionomia, la loro identità e la loro stessa leadership da questa nuova necessità?

(Il Mattino, 13 agosto 2017)

A Matteo critiche vecchie. Alleanze inutili col proporzionale

PRESENTAZIONE DEL LIBRO QUEL CHE RESTA DI MARX

Cosa significhi reinventare un «partito popolare e nazionale, un partito della nazione», dentro un nuovo sistema proporzionale, dopo venticinque anni di seconda Repubblica? «È tutto da vedere», mi risponde Giuseppe Vacca, storico presidente della Fondazione Gramsci, ma di certo non è cosa che si vedesse dai commenti seguiti al voto amministrativo di domenica.

«Secondo me i commenti risentono ancora di un clima e di uno stile formatosi durante gli anni della seconda Repubblica. Non ci si rende conto che il maggioritario è finito. Un ciclo politico è compiuto. Qualunque proiezione sul futuro di dati che provengono da elezioni amministrative è perciò da prendere con le pinze. Tanto più che, in generale, è difficile comparare e proiettare il voto delle elezioni amministrative sul piano politico nazionale».

Eppure son tutti lì a ragionare di coalizioni e schieramenti, anche solo per mettere in difficoltà Renzi. Prodi prova a incollare i pezzi del centrosinistra. Orlando chiede primarie di coalizione. Veltroni dice no all’autosufficienza.

Però Il modo in cui si forma l’orientamento dei cittadini verso (o contro) la politica prescinde largamente da questa discussione. Le prossime elezioni si faranno con una legge proporzionale. Con il proporzionale i governi si formano in Parlamento, molto più che col maggioritario. Gli elettori votano per il partito preferito da ciascuno. Quello che poi determina gli equilibri di governo è la qualità, l’efficacia dell’offerta politica.

D’Alimonte su «Il Sole 24 Ore» scrive che il voto di Genova, di Sesto San Giovanni, di Pistoia (ma anche di Padova, che è andata al Pd) dimostra che ormai tutto è contendibile.

L’unico dato generale e generalizzabile è che hanno perso tutti. È un ulteriore segnale di sgretolamento, di frana: non dico nemmeno di un sistema di partiti, ma di un paesaggio politico. Soprattutto nelle elezioni locali, è ancora più difficile parlare di partiti, che non svolgono più alcuna vera funzione rappresentativa. Dire allora che il centrodestra quando è unito vince, può vincere, è persino ovvio, prevedibile e in verità anche previsto, in situazioni come quelle liguri, di Genova o Spezia, che conosco da vicino. Ma questo cosa ha a che fare col tema di come prepararsi alle elezioni politiche?

Cosa allora vi ha a che fare? Nell’editoriale che ho scritto ieri, ho provato anch’io a mettere da parte le mere sommatorie elettorali e a indicare nelle questioni europee il terreno decisivo della sfida.

Innanzitutto la parte maggioritaria dell’elettorato deciderà in base al bilancio su cinque anni di governo Renzi-Gentiloni: come si fa a ignorarlo? E l’intera legislatura è stata incentrata sul nesso fra Italia ed Europa. Ebbene, è da vedere come si costruirà l’agenda europea dopo le elezioni tedesche e soprattutto chi darà le carte. Da noi conterà la capacità di dire veridicamente ai cittadini, senza imbrogliare, come e perché determinati problemi sono problemi europei.

Ma se è il rapporto con l’Europa a determinare l’agenda, non è complicato per i democratici immaginare dimettere insieme una coalizione di centrosinistra, in vista di una futura alleanza di governo? Dove sono i «buoni europei», a sinistra del Pd?

Ma non è questione di sinistra o destra. I cittadini votano in base ai problemi i più diversi, alle esasperazioni più diffuse, a insoddisfazioni, interessi corporativi, o anche a grandi visioni e grandi narrazioni. Non credo che i cittadini siano molto appassionati di queste categorie di destra/sinistra. Certo c’è una storia, una sedimentazione di valori, ceti politici diversi, culture diverse, che si dicono di destra o di sinistra. Ma non se ne può parlare in base a semplici etichette. È evidente che c’è una certa continuità in un arco di forze che va dai moderati di centro fino a Pisapia: ma a che serve cominciare dalle etichette? È questo il problema che definisce l’agenda politica con cui si deve misurare una leadership?

Provo allora a fare l’avvocato del diavolo e ti chiedo: ma quelli che invece dicono che una forza di sinistra non può condividere strutturalmente l’impianto politico e istituzionale di questa Unione europea, che in essa istanze di sinistra non possono trovare spazio, che l’euro è l’equivalente di quello che sono stati Reagan e Thatcher negli anni Ottanta?

Se, per essere di sinistra, invece che di far pesare le questioni nazionali sul modo in cui si compone l’agenda europea, si tratta di dire: “questa Europa è fallita”, non condivido ma capisco: è legittimo. Ma poi chi dice così non si può mettere insieme con chi pensa: “ma come è fallita? Vediamo invece cosa realisticamente è successo, in base a una cartografia sobria, realistica, del mondo”. Come si fa a dire ad esempio, come fa Veltroni, che per essere di sinistra bisogna fare la lotta alla precarizzazione? La precarizzazione è il modo in cui si riflette sui governi e le nazioni di tutto il mondo questo tipo di globalizzazione. Ed è quanto meno un problema di dimensioni europee. Non possiamo parlare delle cose italiane a prescindere dal contesto. E il nostro contesto storico, economico, la parte che ci spetta in un concerto plurinazionale si decide in Europa. Quello diventa un grande discrimine. Aggiungo: chi ha cambiato il paradigma del rapporto con l’Europa, anche rispetto al centrosinistra degli anni passati, si chiama Matteo Renzi. Sembra poco ma non lo è. Prima si trattava sott’acqua: l’Europa era sentita come vincolo, invece che come responsabilità condivisa. Renzi ha invertito la tendenza. È ancora difficile e non è diventato ancora oggetto di un diverso racconto del Paese, ma questo è il tema.

Nel Novecento, l’essere di sinistra si definiva in base al contesto internazionale, e in base ai mondi sociali di riferimento: l’una e l’altra cosa. La mia impressione è che dopo l’89, essendo mutato il quadro internazionale, la sinistra ha sentito sempre meno la necessità di collocare istanze e rivendicazioni dentro un contesto più ampio di quello nazionale. Non ce la fa più. Prima, quando c’erano i paesi del socialismo reale, viveva quel rapporto come un motivo identitario, oggi lo subisce soltanto.

Diciamo però che quello che è stato importante nel comunismo italiano è il modo in cui ha cercato di interpretare l’interesse della nazione italiana. Per il resto, a parte il PCI, non c’è alcuna grande e gloriosa storia del comunismo in Europa. Però certo: oggi la declinazione dell’interesse nazionale è insieme la declinazione dell’interesse europeo.

Un’ultima cosa voglio chiedertela sul partito. A che punto è il “partito pensante” annunciato da Renzi durante il congresso?

Se devo trovare una connessione fra la leadership di Renzi è un universo identitario dico altro, dico il governo di questi cinque anni. Tutto il resto è da rifare. Ma il problema non è Renzi e nemmeno i suoi difetti. S’è fatto un Congresso due mesi fa: se ci fosse un’alternativa a Renzi sarebbe già emersa. Il Pd rimane però la forza centrale per come ha incorporato il nesso Italia-Europa. Non basta, ma è il punto al quale siamo.

Quel punto è parecchio condizionato dall’esito del referendum costituzionale.

Il referendum è stato uno spartiacque drammatico. Ma chi lo ha perso è il Paese. Si può discutere di come è stata condotta la campagna referendaria (male, almeno al 70%). Ma il referendum non era sul governo; era sull’ossatura politico-istituzionale di questo Paese, in pezzi da vent’anni. Ma dove sono le forze che provano a spiegare che il deficit di competitività di cui soffre l’Italia almeno dal 2001 è una conseguenza dell’impalcatura politico-istituzionale, e che il referendum serviva per spezzare la rete di interessi corporativi e diffusi che rendono molto difficile fare dell’Italia un Paese come la Francia o la Germania?

Già, dove sono queste forze? Saluto Beppe Vacca e noto che mantiene nella voce l’equilibrio fra l’analisi senza indulgenze dello stato del sistema politico e una certa serenità e fiducia nel prossimo futuro. Davvero il miglior commento delle sue parole è in quelle di Gramsci: «Ogni collasso porta con sé disordine intellettuale e morale. Pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà».

(Il Mattino, 28 giugno 2017)

Uniti si vince nei comuni ma non si governa

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Il dato è questo: il centrodestra ha vinto; il centrosinistra ha perso. Quanto ai Cinquestelle, hanno perso pure loro, ma siccome la loro sconfitta è maturata al primo turno, ieri è passata in secondo piano. Se è in questi termini che viene riassunto il risultato delle elezioni amministrative, colpisce che nessuno noti il paradosso che inficia buona parte delle interpretazioni circolate all’indomani del voto. Perché dalla vittoria del centrodestra si trae la lezione che quando va unito il centrodestra è ancora competitivo, ed è anzi in grado di espugnare roccaforti rosse come Genova, Pistoia o Sesto San Giovanni, la Stalingrado d’Italia. Mentre dalla sconfitta del centrosinistra si trae la lezione che il Pd di Renzi patisce l’isolamento in cui si è cacciato, rompendo a sinistra. Cioè, seguitemi: sia che si vinca, sia che si perda, la lezione è la stessa, che uniti si vince. Ma che lezione è questa, che viene comprovata da qualunque risultato? Non è una lezione, in realtà, ma è solo l’effetto di un sistema elettorale e di una partita locale che consentivano e anzi incentivavano il formarsi di coalizioni. Cambiate la legge elettorale, e soprattutto cambiate la posta in gioco, e non avrete più l’evidenza che oggi pare tanto indiscutibile quanto vuota di significato.

Sulla legge elettorale con la quale andremo al voto alle politiche non ci sono certezze, ma dopo il naufragio dell’accordo su un sistema simil-tedesco, è difficile immaginare che si trovi il modo di porvi mano (salvo piccoli aggiustamenti tecnici richieste per quel minimo di armonizzazione fra i sistemi delle due Camere che è possibile ottenere per decreto, su punti largamente condivisi). Cosa saranno allora le coalizioni che domenica vincevano o perdevano, quando non ci sarà nessun ballottaggio a dargli la spinta decisiva per conquistare il governo non di una città ma del Paese? Macron la rivoluzione del sistema politico l’ha fatta grazie al ballottaggio, qui da noi come la si farà? D’accordo, sono tempi volatili, in cui è possibile ipotizzare anche movimenti elettorali significativi, ma che centrosinistra e centrodestra ce la facciano da soli a conquistare la maggioranza è al momento ipotesi del terzo tipo. Quand’anche Berlusconi, Salvini e Meloni dovessero arrivare a un bel 35-40%, con quali altri pezzi arriverebbero più su, fino a quota 50,1%? Perché Salvini guarderebbe volentieri ai grillini, ma questi mai e poi mai accetterebbero di allearsi col Cavaliere. Il quale si volgerebbe invece verso il centro, ma vaglielo a spiegare a Salvini.

Quanto all’eventuale coalizione di centrosinistra, con o senza il vinavil di Prodi, ben difficilmente potrebbe aspirare a un risultato migliore. Prima dovrebbe mettere insieme una miriade di sigle di cui si è perso ormai il conto: da quelle parti il processo di riaggregazione non è ancora cominciato. Dopodiché, avendo tenuto dentro tutto e il contrario di tutto, con chi andrebbe a trattare un accordo di maggioranza, oltre il perimetro della sinistra? Una simile riedizione dell’Unione di prodiana memoria (dell’Unione, più che dell’Ulivo: il punto al quale era arrivata la frantumazione del centrosinistra prima del progetto dem era infatti l’Unione del 2006, e comprendeva almeno una dozzina di soggetti politici) sarebbe attraversata da un discrimine netto, fra quelli che un accordo coi moderati di centrodestra non lo farebbero mai, e quelli che in verità lo farebbero, avendolo peraltro già fatto.

Per correggere una così sconfortante rappresentazione dello scenario politico-elettorale – e soprattutto: per non lasciare che in questo guado ci rimanga in mezzo il Paese, lasciando che le forze populiste si ingrossino ancora, continuando a lucrarci su – c’è forse un solo modo: prendere sul serio la posta in gioco, l’altro elemento sul quale il voto di domenica, di carattere locale, non ha detto nulla. La posta in gioco è la posizione dell’Italia in Europa, e la capacità di regolare le questioni grandi dei prossimi anni – dall’economia all’immigrazione, dal lavoro alla difesa comune – passandole al setaccio del confronto europeo. È lì che si siederà il prossimo Presidente del Consiglio italiano: non in qualche Palazzo di città ma nei consigli dei Capi di Stato e di governo. Non solo, ma comunque si giudichino gli ultimi confronti elettorali nei paesi UE – dalla Brexit in poi –, è evidente che a deciderne l’esito, in un senso o nell’altro, è stata la posizione assunta rispetto agli impegni presi (o da prendere) con Bruxelles.

Che cosa allora significa oggi l’Europa, per l’Italia? Sarebbe bene che questa domanda, e le parole per istruirla, venissero prima della costruzione di coalizioni posticce, per cui succede che a destra festeggino uniti quelli che l’Euro affama il popolo e quelli che inneggiano al mercato unico, mentre dall’altra parte dovrebbero provare a rimettersi insieme quelli che non c’è spazio per la sinistra dentro questa Unione, e quelli che invece vogliono governarla insieme a Macron.

Sono proposte di fatto incompatibili. Le coalizioni di domenica scorsa – abbiano vinto o perso, come più vi piace – non hanno alcuna omogeneità rispetto alle grandi questioni europee ed internazionali. E se è vero che ha un costo riconoscerlo, è anche vero che solo affrontandolo si costruiscono profili politici credibili, che tornino ad essere attraenti per un elettorato stanco di vedere risse, balletti, polemiche e ripicche. Bisogna che i grandi partiti che intendono assumersi responsabilità di governo nel futuro prossimo declinino in termini chiari e forti le loro priorità, portando la sfida elettorale a un’altezza diversa da quella in cui si impelagano tutti i giorni, sforzandosi di offrire leadership, programmi e interpreti di una nuova stagione, e non semplicemente la riedizione di quelle vecchie.

Solo così quella ridicola discussione sulle sommatorie di partiti e percentuali retrocederà in secondo piano, e la scelta elettorale tornerà ad essere legata a un senso storico e politico generale, di medio-lungo periodo, che ridia significato e funzione a partiti, che nella mera gestione clientelare dell’esistente hanno ormai perduto ogni ragione d’essere e ogni legittimità.

(Il Mattino, 27 giugno 2017)

Silvio e Matteo, l’intesa e la discrezione

Pavlov

La solidarietà di Berlusconi a Matteo Renzi e a Maria Elena Boschi vale quel che vale. Per un leader politico che non ha conosciuto un solo giorno in cui non fosse sotto attacco della magistratura, è il minimo sindacale. È la risposta che il Cavaliere dà ormai di default, ogni volta che qualcuno inserisce il file: “magistratura e politica”. Ciò non vuol dire che il tema non sussista, né che Berlusconi non pensi davvero che le intercettazioni pubblicate in questi giorni ledano la sfera privata, ma siamo al cane che morde l’uomo, non all’uomo che morde il cane: non è quella, insomma, la notizia.

La notizia è invece che Berlusconi vuole essere della partita. E la partita più importante che si giocherà di qui alla fine della legislatura è quella che riguarda la legge elettorale. Ora che il Pd ha messo nero su bianco la sua proposta (in soldoni: metà maggioritaria, metà proporzionale), si apre la possibilità concreta di un percorso parlamentare. Per il quale però occorrono numeri che il partito democratico ha alla Camera, ma non ha al Senato (o, se li ha, sono talmente risicati che è difficile fare previsioni). Dunque bisogna inserirsi nella discussione: dare qualcosa per avere qualcosa. Così funziona. Cosa ha da perdere Forza Italia, in questo momento, e cosa può dare? Quello che ha da perdere è la possibilità di presentarsi come un’alternativa credibile alla sinistra di Renzi e ai Cinquestelle. Credibile significa: in grado di competere. Allo stato, la possibilità di competere passa per due condizioni: la presenza di una leadership riconosciuta, la capacità di aggregare lo schieramento di centro-destra. In un sistema maggioritario, si tratta di condizioni irrinunciabili. In un sistema proporzionale no. Dunque, quanto più Berlusconi sente lontane quelle condizioni, tanto più inclinerà per una soluzione di tipo proporzionale.

Questo semplice principio consente una prima lettura delle parole pronunciate ieri dal Cavaliere. Accantoniamo dunque il Berlusconi animalista che passeggia nel parco di Arcore tra simpatici animali e punta al voto dei proprietari di cani e gatti; mettiamo pure da parte le dichiarazioni sui volti nuovi, competenti e con voglia di fare necessari al partito e veniamo al sodo, badiamo a quel che c’è di nuovo. E di nuovo c’è che il leader azzurro considera possibili le elezioni in autunno, il che significa: non è sulla data delle elezioni che Forza Italia opporrà barriere insormontabili. Oppure: se troviamo un’intesa sul sistema elettorale, possiamo ragionare anche sulla data.

Poi il Cavaliere aggiunge: con Salvini non siamo poi così lontani, a parte la questione dell’euro. E qui il primo principio non basta più, ma forse ci vuole la lezione storica. Se infatti si torna con la memoria al Mattarellum – la prima legge elettorale con cui Forza Italia si misurò, con successo, nel ’94 – si ricorderà che, a parte altre differenze, la quota proporzionale era fissata più in basso rispetto all’attuale proposta del Pd: al 25%, contro il 50% del cosiddetto «Rosatellum». E però la legge non impedì affatto alla coalizione di centrodestra di presentarsi nei collegi uninominali della quota maggioritaria con una fisionomia variabile: al Nord in alleanza con la Lega Nord, al Sud con Alleanza nazionale di Fini. La prova di governo, dopo la vittoria alle elezioni, durò solo pochi mesi, ma resta memorabile l’impresa elettorale: Berlusconi riuscì infatti a mettere insieme due forze politiche che più lontane non si sarebbero potute dire (anche su temi fondamentali come l’unità nazionale).

Fermo restando allora il principio sopra enunciato, ho l’impressione che il Cavaliere abbia certo motivi di ostilità nei confronti della proposta dei democratici, perché preferirebbe un sistema alla tedesca che conducesse diritto e filato ad una qualche grande coalizione, che cioè dopo il voto emarginasse gli opposti estremismi di destra e sinistra, ma sappia anche che con il «Rosatellum» non è impossibile stringere accordi con la Lega a livello di singoli collegi. Un sistema del genere è sicuramente preferibile a qualunque soluzione di tipo premiale, sia che il premio vada alla lista (Forza Italia ben difficilmente sarà il primo partito italiano) sia che vada alla coalizione (perché qui vale il principio: un accordo organico con la Lega per un centrodestra unito è di là da venire). Un congegno elettorale che sia maggioritario ma non troppo, e che mantenga spazio sia per accordi elettorali prima, che per accordi politici dopo, è confacente alla situazione in cui si trova attualmente Forza Italia. E lo è anche al Pd, mentre lo è molto meno ai Cinquestelle, che non hanno il personale politico sperimentato per la prova nei collegi uninominali, e non hanno neppure facilità di accordi: né nei singoli collegi, né nella prospettiva del governo.

Se poi, per essere della partita, bisogna spendere parole di solidarietà nei confronti di Renzi e Boschi – parole che sono abbastanza urticanti per le vecchie e nuove file dell’antiberlusconismo, e che quindi aprono un fossato sempre più ampio fra il Pd e quello che si trova alla sua sinistra – beh: che ci vuole? Con una mano Berlusconi accarezza idealmente tutti gli animali domestici degli italiani; con l’altra aizza invece il cane di Pavlov della sinistra dura e pura, la quale con un riflesso condizionato parla di intelligenza col nemico e chiama inciucio qualunque tentativo di intesa fra centrodestra e centrosinistra. Che se invece la legge elettorale la facesse il Pd da solo, certamente si ritroverebbe addosso l’accusa di essersela cucita su misura. Ma questa, delle eterne divisioni e contraddizioni della sinistra, è evidentemente un’altra storia.

(Il Mattino, 21 maggio 2017)

Maggioritario magico

Nel dibattito sulla riforma della legge elettorale torna a disegnarsi uno spartiacque che aveva preso forma anche all’inizio degli anni 90 tra fautori del proporzionale e fautori del maggioritario. Siccome l’accordo fra i partiti sembra pencolare dalla parte dei primi, sono oggi i fautori del maggioritario a lamentare una riforma che, ai loro occhi, appare più come una controriforma, un ritorno alla bassa cucina della prima Repubblica, ai governi fatti e disfatti in Parlamento (come se, appunto, il Parlamento fosse una bassa cucina), allo scippo del potere che il principio maggioritario assegnerebbe senz’altro ai cittadini di scegliersi il governo il giorno stesso delle elezioni, senza le deprecate trattative tra i partiti (come se in Costituzione non fosse scritto che i governi nascono con la fiducia del Parlamento, e non con il solo suffragio elettorale). A chi obiettasse che nei vent’anni che sono alle nostre spalle il maggioritario non ha dato gran prova di sé, viene risposto che ciò è dipeso da tutto il resto: dalle riserve proporzionali previste dalla legge, dai regolamenti parlamentari che favoriscono il frazionamento dei gruppi politici, dai rimborsi elettorali ai partiti che ne certificano – per dir così – l’esistenza in vita ben oltre il necessario, e così via. Da tutto, insomma meno che dal maggioritario.

Ci può stare. Quel che però non ci può più stare è la semplificazione, usata con grande disinvoltura, per cui maggioritario significherebbe di per sé efficienza e proporzionale significherebbe di per sé inefficienza; il primo sarebbe moderno e il secondo sarebbe logoro e stantìo. Siccome è evidente che si può mettere un sistema proporzionale in condizione di funzionare, così come si può mettere un maggioritario in condizione di non funzionare (ne abbiamo avuto ampiamente prova), deve essere altrettanto evidente a tutti che sistemi elettorali diversi disegnano sistemi politici diversi, i quali però non sono in astratto buoni o cattivi, ma lo sono invece nelle condizioni storiche, culturali, sociali in cui sono chiamati a vivere. Non c’è politologia che tenga, e neppure analisi comparata di sorta: non sarà la dimostrazione che in Germania funziona così, o in Francia colà, a rilasciare il giudizio storico-politico che ci occorre, per una decisione che supera di gran lunga la tecnicalità elettorale e riguarda nientemeno che un’idea di Paese. Lo stesso mantra del bipolarismo andrebbe recitato con maggiore circospezione. La Prima Repubblica (che era proporzionale) è stata bipolare: quella che è mancata è stata l’alternanza. La Seconda Repubblica (che è stata, grosso modo, maggioritaria) ha invece avuto l’alternanza, scandita con la regolarità di un pendolo. Ma a giudicare dai cambi di casacca, e dall’ultimo governo Berlusconi-Scilipoti, è persino opinabile che, con tutto il berlusconismo e l’antiberlusconismo del mondo, sia stata più nettamente bipolare di quanto sia stata la prima.

Il fatto è che se il sistema politico è frammentato non sarà una legge maggioritaria a ricompattarlo, se non forzosamente. Quel che ci occorre è invece un ricompattamento intorno a progetti politici, non  a mere premialità elettorali – che, come s’è visto, serviranno pure il giorno delle elezioni a darci un governo, ma non lo mettono in condizione di governare negli anni successivi.

E dunque? Dirò una cosa lievemente paradossale: non deprecherei i partiti che si facessero la legge elettorale a loro uso e consumo. Mi domando piuttosto: a uso e consumo di chi, in alternativa, dovrebbero farla? A parte demagogia populiste o tecnocratiche, se si crede ancora nella democrazia rappresentativa, e se non ci si compiace dell’aristocrazia democratica che – secondo Ilvo Diamanti su Repubblica di ieri – sarebbe di fatto il principio del montismo, cioè della fase politica attuale – c’è solo da augurarsi che i partiti ci vedano giusto e si facciano davvero una legge a loro uso e consumo. Che li aiuti a rendere compatte anzitutto le loro ragioni, senza frazionarle in mille coriandoli proporzionali ma senza neppure confonderle in inutili cartelloni maggioritari. Perché certo, le leggi si fanno per il Paese e per i cittadini, ma non c’è altro modo di definire quello che serve al Paese o alla generalità dei cittadini che non sia per l’appunto il voto alle formazioni politiche in libere elezioni.

L’unità, 3 aprile 2012