E così il Sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, ha sferrato in poco più di ventiquattro ore un uno-due micidiale, un paio di colpi – uno sopra l’altro invero sotto la cintola – da far invidia al miglior Cassius Clay. Dunque. Domenica De Magistris è andato a Roma, a piazza del Popolo, a parlare dal palco del «corteo sociale» indetto per sostenere il no al referendum costituzionale. Poi è rientrato, si è cambiato d’abito, e allarmatissimo ha annunciato che avrebbe subito verificato se davvero i vertici del San Carlo siano impegnati nella campagna referendaria perché la cosa, ha tuonato il Sindaco, sarebbe molto grave, e configurerebbe l’utilizzo a fini politici di incarichi istituzionali.
Par di aver le traveggole. La persona che nei giorni festivi sfila nella capitale e colà si perita di chiedere dinanzi alla piazza «costituente e ricostituente» nientepopodimeno che «un governo popolare di liberazione nazionale» (qualunque cosa sia), in quelli feriali bacchetta severamente la soprintendente del Massimo partenopeo, Rosanna Purchia, perché avrebbe partecipato a un’iniziativa a favore del sì al referendum. Cioè: De Magistris può andare il giorno prima al corteo romano, parlare e comiziare, mentre Rosanna Purchia non deve il giorno dopo muoversi dal San Carlo, ed è anzi meglio che stia zitta. Lo impone il rispetto delle istituzioni, dice De Magistris, lo esige la necessità di non strumentalizzare un bene pubblico, anzi un bene comune.
Ora, sarebbe il caso che De Magistris spiegasse meglio che cosa significhi rispetto delle istituzioni e cosa bene comune. A giugno, infatti, la giunta da lui guidata ha approvata una delibera con la quale lui, insieme a tutta l’amministrazione comunale, si schierava contro «la deriva autoritaria» della riforma, colpevole di stravolgere l’impianto istituzionale della Repubblica italiana. Non c’è una legge che lo vieta, ma è perlomeno un atto irrituale, che tra le deliberazioni di una giunta comunale spunti fuori una delibera del genere. Invece, quanto al ruolo tecnico della Soprintendente Purchia, per farsi un’idea si potrebbe far così: passare in rassegna le nomine del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, e chiedersi se le persone chiamate a ricoprire incarichi in forza degli atti a firma del Ministro competente non sia meglio che si astengano dal prendere posizione. Il direttore della scuola archeologica di Atene, ad esempio, come la Purchia nominato con decreto del ministro, può dire pubblicamente se vota sì o no, o lo vieta il decoro della Scuola? E il Presidente e i vice-Presidenti dell’Accademia dei Georgofili: loro possono pronunciarsi? E i componenti della Consulta territoriale per le attività cinematografiche, di nomina ministeriale: tutti zitti? Se valesse il criterio di De Magistris per imporre continenza di parole e forse anche di pensieri al Soprintendente del massimo teatro cittadino, la cosiddetta società civile sarebbe ridotta al silenzio d’un sol colpo. E, certo, in tal caso le parole roboanti di De Magistris, la sua battaglia domenicale per «l’autogoverno, l’autogestione, l’autonomia» e per «un’internazionale dei beni comuni» (qualunque cosa siano) rimbomberebbe ancora di più.
Ma per fortuna il rispetto delle istituzioni è una cosa ben diversa dal modo in cui lo interpreta De Magistris. Che è un ex-magistrato, e dovrebbe sapere che i primi a prendere la parola senza tema di compromettere il loro ruolo e la loro funzione sono i magistrati italiani. I magistrati, non i soprintendenti (o gli accademici di questa o quella prestigiosa scuola). Non solo prendendo la parola a titolo personale, ma impegnandosi come associazione. È il caso di magistratura democratica, che a gennaio ha aderito al comitato per il No. Ora, se è un diritto dei magistrati partecipare alla campagna costituzionale referendaria – sentirlo anzi come un dovere civico, quando è in gioco l’architettura democratica del Paese – diviene difficile pensare che il Soprintendente di un teatro invece non possa. Che rischi lei di gettare nella mischia l’istituzione, e non tutti gli altri che si esprimono in un senso o nell’altro.
A meno che De Magistris non si sia ricordato di essersi opposto, lo scorso anno, alla nomina del Soprintendente, e tutta questa sensibilità istituzionale di cui sembra dimenticarsi quando è impegnato a derenzizzare la città non sia piuttosto qualcosa come un sassolino che ancora gli duole nella scarpa, da quando il cda della Fondazione del Massimo decise di procedere nonostante l’opposizione del Sindaco. Lui vuole toglierlo, quel sassolino, e magari prima o poi gli riuscirà di riprendersi uno di quei «palazzi della collettività» (qualunque cosa siano) che gli altri, a suo dire, occupano. Ma decoro, rispetto, dignità e prestigio delle istituzioni può starne sicuro: non c’entrano nulla.
(Il Mattino, 29 novembre 2016)