Archivi tag: qualità

Il coraggio di premiare la qualità

ImmagineLa chiamata per competenze introdotta lo scorso anno con la riforma della scuola è destinata a cambiare profondamente una delle infrastrutture portanti del Paese. Perché sono ora i dirigenti scolastici a formare l’organico dei loro istituti. Ora: nei prossimi giorni. Sulla base di criteri pubblici, contenuti nell’offerta formativa della scuola, e dietro motivazione altrettanto pubblica della scelta effettuata tra i curriculum presentati dai docenti, saranno loro, i dirigenti, a coprire di volta in volta il posto di professore di matematica o quello di lingua straniera. Di volta in volta significa: ogni tre anni. Ogni tre anni nuove graduatorie, nuovi criteri e, se è il caso, nuove scelte da parte dei dirigenti. Sicché i docenti, già di ruolo, non avranno più la garanzia di inamovibilità di un tempo, di rimanere cioè in una sede per tutta la loro carriera (salvo chiedere loro stessi di essere trasferiti). Gli tocca di esser bravi, e apprezzati.

Di fronte a un cambiamento di questa portata, non c’è da stupirsi che si registrino resistenze, critiche, paure. Si immagina che la riforma spinga i docenti a una vita da leccapiedi nei confronti dei presidi, o che i presidi facciano un mercimonio del potere discrezionale che la legge assegna loro. In un caso e nell’altro, però, non si dà molta fiducia alle relative categorie. Si pensa che i docenti siano pronti a farsi servili, e che i dirigenti siano disponibilissimi a tradire la loro funzione. Ma stavolta hanno ragione, io credo, Renzi e il ministro dell’istruzione Stefania Giannini: a criticare la riforma è, in fondo, chi pensa che il Paese non ce la possa fare, che non abbiamo un corpo docente e una classe dirigente che amino davvero il proprio lavoro e pensino di poterlo fare bene, e di poter essere finalmente valutate per questo. Perciò preferisce accontentarsi, accettare lo status quo e mantenere un equilibrio non ottimale, piuttosto che provare a innalzare la qualità dell’offerta scolastica puntando anzitutto sull’autonomia della scuola e la responsabilità di chi la dirige.

In realtà, quello di insegnante è ancora un mestiere che si sceglie spesso per vocazione, in cui le gratificazioni di ordine personale legate al rapporto umano, educativo, didattico con gli studenti superano di gran lunga le soddisfazioni di ordine economico, o professionale. Tutti hanno conosciuto – da studenti o da genitori – insegnanti o professori che si dannavano in aula, indipendentemente dalla considerazione che di loro avesse il collega, il preside o il direttore. Indipendentemente anche dallo stipendio. Questi docenti traevano la loro motivazione dall’unico fondo al quale un docente dovrebbe attingere: da loro stessi e dalla loro passione per l’insegnamento. Questi, indubbiamente i più bravi, non cambieranno di un grammo la loro condotta: non riceveranno una spinta o uno stimolo in più dalla riforma, ma non diventeranno certo improvvisamente più servili.

La scuola però è fatta anche di molti altri che in un aula non entrano “per trovare un dimensione”, come il carabiniere del film di Carlo Verdone. A costoro si chiede ora di rinunciare ad alcune delle vecchie certezze e di investire più decisamente sulle proprie competenze. Mentre alle scuole si chiede di innalzare e differenziare in autonomia la qualità dell’offerta formativa. Se i criteri di scelta a fondamento delle chiamate dirette dei dirigenti permettono di premiare una preparazione specialistica post-laurea, oppure di privilegiare qualifiche congruenti con il piano di attività didattiche del singolo istituto, non può che venirne un bene per il sistema dell’istruzione nel suo complesso.

Ma anche le migliori riforme difficilmente si fanno senza metterci soldi. Massima che vale anche nel momento in cui cambi il profilo docente. Se finora il patto più o meno tacito era: “tu mi paghi poco, io però lavoro poco e non mi muovo”; il nuovo patto non può essere: “io lavoro di più e mi rendo disponibile a cambiare sede, tu però continui a pagarmi poco”. Immaginare che i docenti possano sobbarcarsi una più intensa mobilità di sede e un’inedita concorrenza entro i nuovi ambiti territoriali senza adeguamenti stipendiali è sbagliato (oltre che ingiusto).

Ed è sbagliato pure non prestare maggiore attenzione, dall’altro lato, ai nuovi compiti dei dirigenti. Le maggiori responsabilità e discrezionalità devono avere conseguenze, quando siano esercitate male. È vero che il dirigente rende pubbliche le sue scelte, ma se le sbaglia? Sul versante della valutazione del dirigente c’è ancora troppo poco, nella riforma. Né si può dire che, allo stato, il territorio e le famiglie esercitino sulle scuole una pressione tale, da esser loro a punire le scelte sbagliate, per esempio in termini di minori iscritti. A volte si sceglie una scuola perché offre la mensa, o è vicino a casa. A volte, purtroppo, anche perché non si corrono troppi rischi di bocciatura. C’è un divario, insomma, fra i criteri con cui i docenti sono giudicati dai presidi, e i criteri con cui i presidi e le scuole sono chiuse loro volta giudicate dai fruitori, cioè dalle famiglie, e in questo divario possono infilarsi dinamiche distorsive (clientelari, corporative, nepotistiche) nelle scelte dirigenziali. È un punto critico, indubbiamente. Ma lo si può affrontare, stringendo qualche maglia in più pure nel rapporto fra la scuola e il territorio da un lato, fra i dirigenti e gli ispettori ministeriali dall’altro. E in ogni caso salvaguardando il principio ispiratore, che solo dall’esercizio delle scelte, e non dalla loro paralisi, può venire una scuola nuova.

(Il Mattino, 1 agosto 2016)

La rinuncia ad eleggere i migliori

20101005105013-8d9cbeba-864x400_cLa scadenza è stamane: fra poche ore si saprà quanti sono i candidati al consiglio comunale, e quanti quelli che puntano a entrare invece nei consigli circoscrizionali. Ma se il numero esatto non lo si conosce ancora, si conosce invece l’ordine di grandezza: sono tanti. Più di quanti siano mai stati in passato. E non solo a Napoli, ma un po’ dappertutto in giro per l’Italia proliferano le liste, neanche fosse rivolto proprio a loro l’antico precetto biblico: crescete e moltiplicatevi.

Perché si moltiplicano davvero, secondo un’esigenza che si direbbe però topografica o toponomastica, più che politica. Il principio sembra essere infatti: non vi sia un solo quartiere, isolato, condominio che non abbia il suo candidato. Il poliziotto di quartiere non lo si riesce a trovare, per quante volte sia stato istituito; di candidatidi quartiere invece sì, ormai ne abbiamo in gran quantità.

Non è un paradosso. È la risposta in termini di quantità ad una perdita di qualità. Ma è dubbio che sia la risposta giusta, quella che rimette in sesto i partiti, migliora la rappresentanza, avvicina i cittadini alle istituzioni. Sembra anzi il contrario: un sintomo grave della mancata tenuta del sistema dei partiti. Che non riescono a rivolgere all’elettorato una proposta politico-programmatica chiara, forte e riconoscibile. Una proposta, cioè, che per essere votata non debba essere sostenuta in maniera palesemente surrettizia dalla pletora dei candidati. Se infatti il rapporto fra costoro e il numero di posti disponibili nei vari consigli cresce in maniera esponenziale, di elezione in elezione, è perché diminuisce inversamente il numero delle motivazioni alle quali attingere, per dare il proprio voto a un partito o a una coalizione. Rimane il rapporto personale, fondato sulla conoscenza diretta di qualcuno che sia in lista, e che ti chiede il voto sol perché lo conosci, perché è un amico o l’amico di un amico che te lo ha presentato, o semplicemente perché vive nella stessa strada dove vivi tu. E per nessun’altra ragione.

Si potrebbe dire: è la via con cui i partiti tradizionali, in tempi di disintermediazione e perdita di autorevolezza, rispondono all’«uno vale uno» che i grillini sbandierano da che sono entrati in Parlamento. Si dovrebbe dire piuttosto: è un’altra maniera di dimostrare, per li rami, che la rappresentanza è azzerata, non rafforzata da quel principio. Si potrebbe dire: è la via per eleggere dei candidati che finalmente siano proprio come noi, proprio uguali a noi, che così li votiamo più volentieri. Si dovrebbe dire invece: è la rinuncia ad un’ambizione che anche in democrazia dovrebbe essere tenacemente coltivata, che quelli che ci rappresentano siano eletti non perché uguali, ma perché migliori di noi (nel senso almeno di essere più adeguati ai compiti che li aspettano).

Ma il fenomeno che esplode nella corsa al consiglio comunale riproduce in piccolo quanto peraltro la storia politica del Paese dimostra in più grande formato. Perché nel corso della prima Repubblica, quando pure vigeva un sistema elettorale proporzionale, il numero dei partiti era contenuto entro limiti fisiologici, e così anche il numero di liste confezionate in vista delle elezioni amministrative. Il declino dei partiti tradizionali, che è stato insieme declino della loro base ideologica e del loro personale politico, si è tradotto in un incremento impressionante di formazioni politiche, con conseguente espansione delle possibilità di cambiare casacca, utilizzando spesso formazioni minori, liste e altre aggregazioni costituite ad hoc. Da questo punto di vista, può molto poco il correttivo maggioritario introdotto ai diversi livelli istituzionali, con leggi più o meno fortunate. In particolare, l’elezione diretta del sindaco è considerata la miglior legge elettorale che sia stata introdotta da vent’anni o poco più a questa parte, e forse lo è davvero. Ma anche la migliore ingegneria elettorale può poco, se i partiti non riescono più a raccogliere voti. Il meccanismo elettorale può assicurare governabilità, rafforzando i poteri del primo cittadino, ma non può sostituirsi a quello che una volta si chiamava il lavoro politico, e che non si capisce più come, da chi e perché debba essere fatto.

Prima ho detto che non è un paradosso, ma l’espressione più lampante della crisi e della difficoltà della politica di articolare ragioni per conquistare consenso. Ora però aggiungo che un paradosso c’è, dal momento che facciamo tutti i giorni la critica della casta politica in nome della società civile, e al dunque ci accorgiamo che rovesciare l’una nell’altra, come avviene massicciamente con la carica dei candidati, non dà affatto i risultati sperati. E, a giudicare dagli ultimi turni elettorale, non li dà nemmeno in termini di affluenza. Rischia anzi di finire come in «Le vie del signore sono finite», con Massimo Troisi che rinuncia a leggere perché lui è uno, mentre a scrivere sono in milioni. La scena sembra la stessa: migliaia di candidati, e l’elettore votante che nemmeno lui, da solo, ce la può fare.

(Il Mattino– Napoli ed., 7 maggio 2016)

Merito e discrezionalità, ecco la misura perfetta

Immagine2Quanti soldi ci sono per la «buona università», di cui si comincia a parlare? Domanda ineducata, triviale, culturalmente in ritardo: abbiamo infatti imparato che contano, certo, le risorse, ma conta di più la maniera in cui vengono spese. Le riforme devono investire il livello ordinamentale, la governance, la valutazione: non si può ridurre tutto a una questione di voci di bilancio col segno più o col segno meno. Benissimo. Con l’ostinazione tipica dei fatti, resta però vero che i paesi più forti investono di più in ricerca e formazione, e che l’università italiana si è vista in questi anni tagliare il fondo di finanziamento con geometrica precisione. Quindi buttiamola pure via questa prima, rozza considerazione, e prendiamo però atto, almeno, che continua imperterrito il blocco delle classi e degli scatti stipendiali per i docenti universitari. Facciamo pure che questo non significhi minimamente scarsa considerazione della figura docente e dell’università pubblica, ma ragioniamo su quale attrattività abbia oggi la posizione del ricercatore universitario a confronto con il settore privato (o con la stessa posizione occupata, però, all’estero).

E diciamo del merito, e della sua valutazione. Il sistema universitario viene valutato anzitutto dall’Agenzia Nazionale di Valutazione. l’ANVUR, e l’ANVUR, per esser chiari, non funziona. Non funziona per come viene formata, temo, e non funziona per come lavora. Qualunque intervento legislativo si voglia adottare nei prossimi mesi dovrà occuparsi della faccenda, e dovrà farlo a maggior ragione se vorrà fondare la propria legittimazione sulla parola d’ordine del merito. Ci mancherebbe pure che didattica e ricerca non debbano essere valutati (dico e l’una e l’altra, perché l’università non è solo didattica, certo, ma non è neppure soltanto ricerca). Del resto, lo esige la Costituzione, alla voce «capaci e meritevoli». Ciò detto, siamo però assai lontani da «un sistema di valutazione ben congegnato e implementato per migliorare la qualità della ricerca», per dirla con le parole (critiche) della Conferenza dei Rettori.

Ognuno ha, al riguardo, i suoi esempi da portare: non è un caso, perché quel che fanno i filosofi è molto distante da quello che fanno, poniamo, i medici, e le rispettive comunità di ricerca funzionano in maniera alquanto diversa. Poiché appartengo al primo gruppo, quello dei filosofi, mi pronuncio a spanne, e provocatoriamente, ma provando almeno a dare il sapore della cosa. E dunque: qualunque sistema di valutazione che non promuovesse al più alto rango Platone, Aristotele, Kant e Hegel ben difficilmente sarebbe un buon sistema. Se una qualunque classifica non li vedesse ai primi quattro posti (scegliete voi l’ordine) sarebbe sbagliata la classifica, non sbagliati loro. Questo però è quello che si sarebbe potuto verificare con le abilitazioni scientifiche nazionali, e che si può ancora verificare con la valutazione dei prodotti della ricerca. Certo, si può sostenere che non sempre il miglior ricercatore o scienziato è tagliato per l’università: vero. Ma è altrettanto vero che l’università dovrebbe preoccuparsi comunque di come tenerlo dentro, non di come lasciarlo fuori.

Voglio però dire una parola in più sul mio metodo spannometrico. Cosa esso presuppone? Che si sappia bene cosa è eccellente, per ragionare solo poi sul modo di farlo emergere e risultare. Qualcuno potrebbe obiettare che questo è il contrario di un buon metodo scientifico, e che contiene un margine assai ampio di discrezionalità. Rispondo: è così. Ma è inutile, temo, ragionare di merito, valutazione, eccellenze, se si rinuncia all’esercizio discrezionale di un magistero, per il quale passa ogni vera trasmissione di sapere, creazione di scuole di ricerca, formazione di tradizioni disciplinari. Da anni siamo assediati da classifiche e punteggi e standard e mediane (con l’ingombro burocratico che comportano), che, nel migliore dei casi, confermano quel che già si sa, e nel peggiore lo capovolgono, però con l’avallo ipocrita di una presunta neutralità e obiettività della valutazione.

Questioni di filosofia, forse, che c’entrano poco con l’intero sistema universitario e ambiti di studio più omogenei dove invece domina il rigore scientifico. Non ne sarei così sicuro, e non rispolvererei antiche divisioni fra saperi scientifici e saperi umanistici. Conosco ottimi ingegneri che pensano la stessa cosa, e mi dicono di conoscere le migliori teste del loro settore molto più rigorosamente di qualunque griglia ministeriale. Il punto vero è invece il collegamento – questo sì rigoroso – fra l’esercizio di valutazione e la responsabilità e la premialità per quell’esercizio (e le compatibilità di bilancio: va da sé): ma è folle pensare di eliminare la discrezionalità senza uccidere se non la ricerca, di sicuro l’ethos del ricercatore.

Poi, certo, i problemi dell’università sono anche altri, e forse maggiori. In cima all’elenco sta il diritto allo studio; di rincalzo, le sperequazioni fra le università del nord e quelle del sud, e la necessità di adottare indici che nell’allocazione delle risorse tengano conto delle differenze territoriali, demografiche, sociali: non è la stessa cosa reperire fondi in un’area depressa e in una in piena espansione. Aggiungo poi lo svecchiamento della classe docente e la nuova sfida telematica, cioè le università a distanza, che hanno tutt’altra struttura di costi e che devono essere spinti a elevare, di parecchio, la qualità della loro offerta.

Ma una riforma dell’università, se è tale, ha da essere anche, se non soprattutto, un discorso sul sapere universitario, deve cioè portare con sé un’idea generale (universitaria, appunto) del sapere. Se qualcosa vi può essere ancora più su di essa, sarà forse una “politica” del sapere; ma allora bisogna esplicitarla, non nasconderla dietro una batteria di tabelle o dietro anonime procedure di calcolo.

(Il Mattino, 22 settembre 2014)