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Se il pensiero meridionale si fa europeo

Quattroartchitetti

Voci diverse, ma finalmente voci. Il forum organizzato dal Mattino ha portato al teatro Mercadante il premier Paolo Gentiloni, i ministri Calenda e De Vincenti, intellettuali e imprenditori, politici e giornalisti, invitati a ragionare insieme sul futuro del Mezzogiorno.

Si è chiamata, lungo tutto il corso della storia repubblicana del Paese, questione meridionale, ma si ha timore, quasi vergogna, a darle ancora questo nome. O almeno: appena la si nomina, occorre munirsi di appropriate virgolette che la precisino, la chiariscano, la distinguano da tutto ciò che nel passato ha potuto significare o con cui ha potuto confondersi: assistenzialismo, statalismo, familismo.

Alla buonora, però: con tutte le precauzioni del caso, il Mattino, da giornale di Napoli, giornale della capitale del Mezzogiorno, prova ostinatamente a riproporla, a reimmetterla nel dibattito pubblico, e a misurare le proposte del governo e delle forze politiche su questi temi: come si colma la distanza fra il Nord e il Sud d’Italia? E poi: come si trattengono i giovani al Sud, senza costringerli a cercare altrove? Come si creano nuove opportunità di lavoro, all’altezza delle nuove sfide della globalizzazione e dell’innovazione tecnologica? Come si fa a far funzionare la pubblica amministrazione?

Voci diverse, si diceva. Perché un conto è ritenere che la strada dello sviluppo sia, sotto qualunque latitudine o lungitudine, una sola, fatta, nell’ordine, di investimenti, imprese e occupazione. Un altro, se non tutt’altro, è ragionare invece nei termini di un impegno prioritario che la politica deve assumersi verso il Mezzogiorno, se vuole tenere insieme ed evitare che vada in pezzi un Paese profondamente duale. Un conto è pensare che tutto sta o cade con la selezione di una nuova classe dirigente meridionale, capace ed efficiente; un altro, se non tutt’altro, è affermare innanzitutto l’esigenza di politiche speciali per il Sud, come ha detto nel suo intervento di apertura il premier (con il governatore De Luca che ne prendeva atto con soddisfazione, mista però a un prudente scetticismo).

Le due cose, naturalmente, non si escludono l’un l’altra. Il ministro Calenda ha tutte le ragioni del mondo quando manifesta la sua incredulità per il ricorso al Tar presentato dal governatore della Puglia, Emiliano, al fine di bloccare un investimento di 5,3 miliardi di euro: «caso unico nel globo terracqueo». Ma qualche ragione ce l’ha anche chi osserva che la sola stagione nel corso della quale si è ridotto il gap fra Nord e Sud, cioè nei primi decenni del secondo dopoguerra, è stata segnata, più che dalla chiaroveggenza intellettuale o dalle specchiate qualità morali della classe politica, dalla continuità e intensità dell’intervento straordinario.

Se non che l’applauso più convinto dal pubblico dei giovani presenti in sala ieri lo ha raccolto l’esponente dei Cinquestelle, Roberto Fico. Non però per le ricette economiche che ha proposto alla platea: su questo versante, anzi, Fico quasi non è entrato, limitandosi piuttosto a ribadire che, Nord o Sud non importa, per i Cinquestelle la madre di tutte le battaglie è il reddito di cittadinanza. No, Fico ha ricevuto l’applauso più grande e spontaneo quando se l’è presa con le raccomandazioni e il nepotismo nell’università.

Non v’è dubbio che questo sia l’umore prevalente nell’opinione pubblica del Paese, e che dunque la risposta venga cercata meno dal lato delle politiche, e di strategie di medio-lungo periodo che nessuno ha più il tempo di aspettare, e molto più nei termini di una protesta moralistica (a volte più rassegnata che bellicosa) nei confronti di classi dirigenti percepite come corrotte e inconcludenti.

È una risposta sufficiente, oppure è un gigantesco diversivo di massa? Se per esempio potessimo sostituire tutti gli amministratori pubblici delle regioni del Sud, con i cento uomini d’acciaio, «col cervello lucido e l’abnegazione indispensabile», di cui parlava un grande meridionalista, Guido Dorso, riusciremmo anche ad eliminare d’incanto la questione meridionale? È lecito dubitarne. Ed è dubbio pure che se gli uomini fossero mille, invece di cento, il problema sarebbe risolto. L’idea che vi sia una società meridionale viva e vitale, soffocata dalla cappa mortifera di una politica immorale, incapace e disonesta, non spiega per intero il divario che separa il Sud dal resto del Paese.

Ma intanto, qualche passo avanti, almeno nella discussione, si è fatto. Se non altro perché da nessuna parte si sono ascoltati accenti queruli e meramente recriminatori, o certi arroccamenti identitari costruiti su improbabili revanscismi storici, oppure lungo percorsi meridiani irrimediabilmente lontani dalla modernità e dall’Europa.

Nulla di tutto questo: non era nello spirito di questa giornata, e non è sulle colonne di questo giornale. È stata piuttosto una proficua giornata di confronto pubblico, e non ci si può non augurare che non rimanga isolata.

(Il Mattino, 12 dicembre 2017)

Il meridionalismo dell’orgoglio terrone

Kandinsky Intorno al cerchio 1940

V. Kandinsky, Intorno al cerchio (1940)

Chissà dove un nuovo meridionalismo potrà attingere, per ripensare la questione meridionale. Lo scorso anno, Gianfranco Viesti e Carlo Trigilia hanno provato a mettere in fila gli effetti che la crisi ha avuto sull’economia del Mezzogiorno: un calo del Pil doppio di quello del Centro Nord, la caduta degli investimenti; il forte ridimensionamento del settore manifatturiero; l’ulteriore emorragia di occupazione; la crescita della povertà delle famiglie; la riattivazione dei flussi emigratori; il calo demografico per effetto di un abbassamento del tasso di natalità.

Lo scenario completo, ricordavano gli autori, deve però tenere in conto anche i segnali positivi: la forte crescita del turismo, la vivacità imprenditoriale nel settore delle start up, i settori industriali che realizzano performance positive anche negli anni più bui della crisi, la stessa tenuta degli equilibri sociali, non facile agli attuali livelli di disoccupazione.

A questo quadro vanno ad aggiungersi ora i dati confortanti che l’Istat ha fornito sulla produzione industriale nell’ultimo anno, con la Campania che cresce più della media nazionale e del Centro Nord. La direzione presa dalle politiche pubbliche, a livello nazionale e regionale, sembra insomma che stia dando i primi frutti.

A leggere però il racconto che del Meridione fornisce «Attenti al Sud», il libro che raccoglie le testimonianze di quattro scrittori meridionali («il pugliese Pino Aprile, il napoletano Maurizio De Giovanni, il calabrese Mimmo Gangemi, il lucano Salvatore Nigro») sembra che la questione meridionale non sia una questione legata alle strategie di sviluppo economico di queste terre, bensì soltanto una questione di identità. O, peggio ancora, che sia solo la questione di come sia distorta la rappresentazione più o meno stereotipata che di questa identità viene offerta nei media nazionali, nella pubblicistica corrente, da ultimo magari nelle serie televisive in stile Gomorra.

Così i quattro autori provano a raccontare un Sud diverso: Nigro sceglie di mostrare quanto sia da riscoprire la tradizione letteraria meridionale, e in particolare lucana, di cui si sa ancora troppo poco; Gangemi spiega che la Calabria è terra di ‘ndrangheta, ma questo non vuol dire affatto che tutti i calabresi siano ‘ndranghetisti; De Giovanni sostiene che i meridionali questa benedetta identità se la vedono appiccicata addosso dagli altri e finiscono col subirla; Aprile infine prova a sostenere che al mondo nessuno può essere orgoglioso della sua storia e della sua cultura più del popolo meridionale. Non solo, ma «Mentre il Nord sta dissanguando il paese, per tenere in piedi le cattedrali di una religione perduta, ovvero quella industriale, il Sud, con una scarpa e una ciabatta (come dicono a Roma), sta reinventando il mondo».

Nientemeno! Quest’ultima tesi è francamente assai ardita, ma è la più indicativa di una certa maniera di affrontare il tema del divario fra Nord e Sud sulla base di tre, caratteristiche inconfondibili, e ricorrenti in certa saggistica “sudista”, che si ritrovano anche in questo agile libretto. La prima consiste nell’insistere esclusivamente sui torti e le ingiustizie subite dal Mezzogiorno, nel corso della sua storia post-unitaria (chissà poi perché ingiustizie e torti i governanti pre-unitari non ne commettessero); la seconda consiste nell’accumunare enfaticamente la sorte del Meridione d’Italia a quella di tutti i Sud del Mondo; la terza, infine, nel ricercare percorsi di modernizzazione inediti, alternativi a quelli imposti dall’Europa e dall’Occidente, lungo i quali l’arretratezza del Sud si ritrova all’improvviso ad essere non più un handicap, ma anzi un vantaggio e, quasi, un motivo di fierezza.

Le tre caratteristiche suddette si ritrovano nitidamente esposte solo nel testo di Pino Aprile, che insiste in particolare, come in tutti i suoi libri, sulla colonizzazione del Mezzogiorno da parte del Nord. Ma si possono riconoscere anche negli altri contributi: nell’elogio della intemporale bellezza partenopea di De Giovanni, ad esempio, o nella difesa dell’Aspromonte non contaminato dall’industrializzazione di Gangemi: ogni volta, il Sud appare come una specie di miracolo, reso possibile dall’essersi tenuto in disparte dal corso principale della modernità e dalle sue brutture. E siccome i meridionali sono vittime del pregiudizio che li vuole corrotti, delinquenti o sfaticati, in tutto questo libretto non si troverà una sola parola sui loro vizi, ma solo sulle loro virtù: letterarie o morali, umane o artistiche.

Ma è poi dei vizi o delle virtù di un popolo, che si tratta? È questa la questione meridionale: una questione antropologica, scritta nei costumi, nei dialetti e nelle tradizioni del Sud? Ed è da lì che deve ripartire il nuovo meridionalismo? È lecito dubitarne. L’impressione è anzi che si commetta l’errore opposto: alla caricatura anti-meridionalista si replica infatti con una calorosa professione di fede meridionale, come se bastasse rivendicare storia e memoria per superare le contraddizioni reali che frenano lo sviluppo del Mezzogiorno. Come se la questione meridionale fosse solo una questione di orgoglio ferito, e la letteratura fosse chiamata solo a riscattare questo orgoglio: questa sarebbe la sua missione civile. Ho paura che sia il contrario, che questa riscoperta delle proprie radici, per tanti aspetti meritoria, funga solo come consolazione ai propri mali: come spesso è stato nella storia d’Italia, usa a celebrare, a volte persino a mitizzare il proprio glorioso patrimonio, per nutrire speranze future, tenendosi però alquanto discosti dalla prosaicità del presente.

(Il Mattino, 10 ottobre 2017)

 

Un futuro per il Sud

 

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M. Pistoletto, Venere degli stracci (1967)

Idiozie, stupidaggini, follie. Non usa mezzi termini, Adriano Giannola, per bollare la proposta di una giornata in memoria delle vittime dell’unificazione italiana, avanzata in Puglia dal gruppo consiliare dei Cinquestelle e sostenuta con voto quasi unanime, compreso quello del Presidente Emiliano. Ma a fargli scuotere il capo non è tanto il merito della proposta, quanto il fatto che il dibattito sulle ragioni del Sud devii verso questioni del tutto anacronistiche, lontane dai problemi veri del Mezzogiorno. Ha una voce sottile ma ferma, che a volte sembra alzarsi come quella di un profeta inascoltato. E parla piano ma senza mai smarrire il filo del ragionamento:

«Si tenta di spiegare il divario Nord/Sud recriminando sulle ingiustizie passate. Il problema è invece rivendicare oggi – con molta determinazione, con argomenti e con buon senso – un ruolo diverso per il Mezzogiorno. C’è un cortocircuito che viene da lontano, almeno dagli anni Novanta, alimentato quasi ad arte da politiche sbagliate. E che oggi si manifesta nel modo più deteriore con queste scorciatoie verso nulla. Queste celebrazioni di nulla».

Nulla, beninteso, cioè priva di significato e persino controproducente è la piega presa da questo meridionalismo recriminatorio che veste i panni nostalgici di un improbabile revival neoborbonico. Non lo è certo una lettura attenta e non agiografica della storia d’Italia:

«Basta prendere Cavour. Cavour muore al momento dell’Unità. E muore raccomandandosi al Re – così racconta la nipote – perché l’Italia del Settentrione è fatta “ma mancano i napoletani”. Intende naturalmente il Regno delle due Sicilie. E si raccomanda proprio al Re, che lo va a trovare nelle sue ultime ore: «Niente stato d’assedio, nessun mezzo di governo assoluto. Tutti son capaci di governare con lo stato d’assedio. Io li governerò con la libertà e mostrerò ciò che possono fare di quel bel paese dieci anni di libertà. In vent’anni saranno le province più ricche d’Italia. No, niente stato d’assedio. Ve lo raccomando”. Insomma: mi sembra che avesse le idee chiare».

Le aveva, certamente. E aveva qualche ragione anche di dire che “non sarà ingiuriandoli che si modificheranno i Napoletani”.

«Ma lo stato d’assedio ci fu. Massimo D’Azeglio, sempre nell’agosto del 1861, su un giornale francese scrisse: “La questione di Napoli – restarvi o non restarvi – mi sembra dipendente soprattutto dai napoletani, a meno che non si voglia, per la comodità delle circostanze, cambiare i principi che abbiamo sin qui proclamato […]. Anche a Napoli abbiamo cambiato il sovrano per instaurare un governo eletto dal suffragio universale. Ma occorrono, e pare che non bastino, sessanta battaglioni per tenere il Regno; ed è noto che briganti e non briganti sarebbero d’accordo per non volere la nostra presenza. […] Dunque deve essere stato commesso un errore. Dunque bisogna cambiare le azioni e i principi e trovare il mezzo per sapere dai napoletani, una volta per tutte, se ci vogliono o non ci vogliono”. E poi conclude: “Agli italiani che, pur restando italiani, non intendono unirsi a noi, non abbiamo il diritto di rispondere con le archibugiate invece che con gli argomenti”. In realtà si rispose con le archibugiate e con lo stato d’assedio. Quindi che ci sia stata una guerra civile – anche interna al Mezzogiorno, tra quelli che erano a favore e quelli che erano contro l’unificazione – è fuor di dubbio».

L’uso del concetto di guerra civile a proposito del brigantaggio postunitario è ben presente nel dibattito storiografico degli ultimi decenni (per esempio nei lavori di Salvatore Lupo). Ma il punto, per Giannola, non riguarda affatto la ricerca storica:

«In quegli anni, esattamente in quegli stessi anni, c’è stata la guerra civile negli Stati Uniti. Non mi sembra che lì si ponga una questione del Sud e del Nord negli stessi termini che da noi. Negli USA ci sono stati quattro anni di guerre civili, massacri enormi perpetrati da battaglioni con l’uniforme. Il Nord ha vinto, il Sud ha perso. Ma gli Stati Uniti sono gli Stati Uniti. E certo non stanno a discutere di fare la giornata per le vittime della Secessione.

Che senso ha allora scoprire da noi che c’è stata una guerra civile? I briganti non erano soltanto dei briganti: e allora? Dopo vent’anni di stupidità assoluta in cui il localismo l’ha fatta da padrona – questo il vero dramma – siamo a discutere di cosa? Di quali idiozie? Che cosa pensiamo di rivendicare, con ciò? Bisogna invece fare i conti con la realtà. Non è così che si sostiene la causa del Sud».

Però c’è un partito che sostiene che il Sud si è caricato con l’unificazione di un enorme fardello. Che l’unità d’Italia ha penalizzato l’economia meridionale. Che al momento dell’unificazione il divario fra le diverse aree del Paese non era così ampio com’è stato in seguito:

«In questa diatriba tocca andarci coi piedi di piombo perché è vero che, quale che fosse prima dell’unificazione (ed io penso che c’era ma non era così enorme), il divario Nord/Sud peggiora. Comincia anzi a peggiorare vent’anni dopo l’Unità, per tutta una serie di motivi che la storiografia ha saputo indagare. Ma in generale è vero: connettere il Nord al Sud (i grandi lavori, le ferrovie), in un quadro di politica liberale, fece aumentare il divario perché era più facile concentrare risorse nella parte più sviluppata del Paese. Paradossalmente, l’infrastrutturazione ruppe le barriere per dir così naturali favorendo la concentrazione al Nord.

Ma dal punto di vista sociale (età media, mortalità infantile, analfabetismo) il Mezzogiorno ebbe invece un recupero incredibile. Quindi stiamo attenti perciò a dire che il Mezzogiorno ha pagato economicamente e socialmente. È molto più complesso. Certo, a un certo punto le convenienze di mercato avvantaggiarono il Nord. Ma la differenza di fondo che mi interessa è che allora il Mediterraneo contava molto, molto poco, mentre oggi conta molto di più».

Giannola vuole venire ai giorni nostri, al presente. Al modo in cui ricostruire le ragioni di un nuovo meridionalismo. Alle sfide che l’Italia, non solo il Mezzogiorno, ha dinanzi. Ai nuovi scenari geopolitici che si aprono oggi per il nostro Paese:

«Vogliamo collocare l’Italia in Europa? Vogliamo capire per il Sud cosa significhi questa nuova collocazione? Il baricentro cambia, si va verso Sud. Possiamo essere la sponda del Mediterraneo ora che il nostro mare torna ad essere fondamentale via di commercio. Se l’Italia ha un minimo di consapevolezza e di visione è il momento che il Mezzogiorno abbia il suo ruolo. Queste sono le condizioni da discutere, non è di guerra civile e di Risorgimento che dobbiamo parlare. Costruiamo su queste basi il ragionamento sul Paese, sul Nord e sul Sud. In questi anni non siamo stati vittime, ma (mi perdoni la parola) cretini, perché abbiamo rinunciato a una strategia, perché abbiamo accettato tante idiozie ben vestite sul piano culturale, perché abbiamo smantellato l’unica cosa seria che abbiamo fatto dall’Unità in poi, l’intervento straordinario».

Su cui però il giudizio comune non è così univocamente lusinghiero.

«Dal ‘57 al ‘73-’74, checché se ne dica, è avvenuto questo: con trasferimenti molto contenuti il Sud è cresciuto più del Nord, il divario del reddito pro capite è diminuito di ben dieci punti.

Quel disegno è stato in seguito abbandonato e addirittura demonizzato. Dalla crisi petrolifera in poi si è persa la capacità strategica di destinare risorse allo sviluppo. E i trasferimenti, anche maggiori rispetto agli anni passati, sono diventati solo uno strumento di assistenzialismo improduttivo. Non a caso se sono quelli gli anni in cui nascono le Regioni e i poteri decentrati.

Ma la questione italiana è di nuovo la questione del Paese intero. I segnali ci sono perché il Mezzogiorno torni ad essere centrale: non per idealità, ma per interesse nazionale. Come è stato del resto all’indomani della seconda guerra mondiale, con la riforma agraria e l’intervento per il Mezzogiorno, che insieme posero le basi del miracolo economico».

A me però colpisce il fatto che nel Mezzogiorno prosegue invece lo smottamento dei temi su cui si fonda la legittimazione dello Stato nazionale. Come se dalla disgregazione del tessuto nazionale il Sud avesse da guadagnarci e non da perderci.

«Vediamo allora cosa succederebbe se tornassimo a prima dell’Unità. Checché se ne dica, il Sud riceve dal Nord il 25% delle sue risorse. Non si tratta di carità: l’Italia è uno Stato nazionale e non uno Stato confederale. Vi sono diritti di cittadinanza (la scuola, la sanità) che è giusto – ed è soprattutto efficiente – che le risorse vadano a garantirli in modo uguale a Palermo come in Val d’Aosta. Poi in realtà essi non sono garantiti per cui il Mezzogiorno ha molti crediti, ma certo non per i torti subiti nel passato. Ma se fossimo indipendenti sarebbe un dramma. L’impatto sarebbe immediatamente negativo in termini di trasferimenti di risorse verso Nord e di enormi conseguenze sociali ed economiche».

E allora torniamo all’oggi. Come giudica il lavoro di quest’ultima legislatura?

«Oggi è un momento propizio. Il governo Renzi lanciò il cosiddetto Masterplan per il Sud. Certo, l’iniziativa aveva anche una finalità propagandistica, ma ha consentito di recuperare un minimo di direzione. Oggi il Ministro della Coesione territoriale e Mezzogiorno ha voce in capitolo per indicare priorità. Può addirittura arrivare a dire che almeno il 34% degli investimenti pubblici deve essere fatto nel Mezzogiorno, altrimenti salta il Paese. È una novità non da poco. E non è assistenza, è esattamente il contrario.

Penso, ancora, alle zone economiche speciali. Sono strumenti che dovrebbero diventare immediatamente preda delle Regioni, perché le facciano, perché si coordinino in un disegno nazionale. Rifare i porti di Napoli o di Taranto non è un problema di Napoli o di Taranto ma dell’intero Paese. Un problema di intercettare i flussi di merci che provengono dalla Cina e di sfruttare i vantaggi enormi che ci derivano dalla nostra posizione di perno del Mediterraneo. Mi lasci dire: l’Italia è uscita dal Medioevo grazie alle Repubbliche marinare: dovremmo ricordarcene. Se però facciamo scappare i cinesi in Grecia, nel Pireo, per via di incredibili lungaggini burocratiche, e intanto parliamo della Giornata della memoria, ci rendiamo colpevoli di un fallimento strategico».

Non sarebbe l’unico fallimento strategico, nella storia del Sud d’Italia. Una cesura si è senz’altro prodotta negli anni Settanta, come prima ricordava. Ma un’altra cesura più recente cade con la fine della prima repubblica, quando la questione meridionale viene soppiantata dalla questione settentrionale agitata anzitutto dalla Lega.

«Quegli anni sono anche gli anni in cui finisce formalmente l’intervento straordinario. E coincidono con la prima grande crisi finanziaria europea. Noi siamo stati cacciati dal SME e abbiamo fatto una svalutazione del 40% in un solo anno, che ha rimesso in moto l’economia del Nord, distrutta dal tentativo di entrare nella cosiddetta banda stretta di oscillazione del sistema monetario europeo. Il Sud non era esportatore e quindi non ha beneficiato della svalutazione, ma soprattutto fu oggetto della prima illegale spending review. Delibere già emanate e formalmente valide per contributi a quindicimila imprese vengono cancellate, con una scia di fallimenti e contenziosi che trascinò con sé la crisi del banco di Napoli. Fu questa la causa strutturale, non la mala gestio. L’economia del Sud fu bloccata. Quel periodo fu un periodo di crisi acutissima dell’economia del Mezzogiorno, da cui si pretese velleitariamente di uscire con la nuova programmazione e i patti territoriali. Una pura idiozia. Aver segregato il Mezzogiorno nei fondi strutturali, peraltro sostitutivi e non aggiuntivi, ha significato farne una riserva indiana, dal ’98 in poi».

Gianfranco Viesti ha scritto sul Mattino che la classe dirigente nazionale non sapendo più parlare agli italiani si piega a sollecitare piuttosto gli egoismi locali…

«Non hanno capacità di analisi e sono incapaci di guardare alla storia. Il Mezzogiorno è il nodo. Nel 1903 De Viti De Marco, un ‘autorità mondiale in materia di finanza pubblica, disse una cosa molto semplice. Finché il Sud rimarrà una specie di colonia, l’Italia non conterà nulla in Europa. Sarà insomma una specie di Olanda, solo con un territorio molto più grande e con una popolazione più numerosa, quindi molto più povera. Se si vuole divenire potenza europea – diceva già nel 1903, io dico: se vogliamo essere leader nell’area euro-mediterranea – occorre darsi da fare. Nonostante il rallentamento mondiale, noi siamo talmente sottodimensionati che abbiamo spazi enormi da recuperare. Abbiamo nuovamente, grazie alla posizione centrale nel Mediterraneo, una rendita di posizione da sfruttare. Ma non siamo ancora in grado di valorizzarla. Ci vorrebbe una grande rigenerazione orientata da due o tre priorità che siano priorità del Paese.

La via d’uscita non è celebrare i drammi della guerra civile. È vero che c’è stata. E che c’è una colpa della retorica risorgimentale. Basta vedere il film di Mario Martone, «Come eravamo», per capire ciò che è stato. Dopodiché però siamo diventati parte di un sistema ed è in questo sistema che dobbiamo operare».

(Il Mattino, 10 agosto 2017)

La Campania offre un patto al governo

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La provocazione ha avuto effetto: i 200.000 posti del piano di Vincenzo De Luca per la pubblica amministrazione nel Mezzogiorno hanno tirato fuori il dibattito dalle secche in cui c’è sempre il rischio che scivoli, quando si tratta di misurarsi con la sempiterna questione meridionale. La proposta è in sé discutibile, ed infatti è stata discussa. È stata anzi al centro della discussione che ha ravvivato questi Stati Generali, voluti dal governatore De Luca per rilanciare il tema dello sviluppo del Sud e porlo nuovamente al centro dell’agenda nazionale. E nella discussione sono affiorate le domande: siamo sicuri che il Mezzogiorno abbia bisogno anzitutto di un piano straordinario di assunzioni, anziché di un rilancio degli investimenti? Siamo sicuri che è un piano sostenibile per le finanze dello Stato? Siamo sicuri che il tema delle burocrazie pubbliche non sia anche un tema di qualità complessiva dell’azione amministrativa e di efficientamento delle policies? Siamo sicuri che basti indicare un obiettivo generale, e non siano piuttosto da considerare i settori strategici nei quali occorre anzitutto rafforzare la macchina dello Stato?

Ma ora ci sono le domande, e prima non c’erano nemmeno quelle. Diciamo anzi la verità: la proposta di De Luca ha almeno un primo merito, quello di rovesciare senza timidezze la retorica corriva, secondo la quale i soldi dati al Mezzogiorno sono per forza soldi sprecati, che finiscono invariabilmente in clientele, assistenzialismo, ruberie. Finché prevale questa narrazione, è difficile impostare il tema della riforma della pubblica amministrazione in maniera diversa da quella dei tagli, del risanamento e della spending review. Poi ne ha anche un secondo, più generale, dal momento che una proposta del genere suppone che ridurre il perimetro dell’azione pubblica non sia più la priorità assoluta. Con il blocco del turn over in tutti questi anni lo Stato, secondo De Luca, è dimagrito abbastanza: in tutto il Paese e in particolare al Sud.

Su questo, il Presidente Renzi ha convenuto. «Si deve dire che si tornerà ad assumere nella pubblica amministrazione», ha detto il premier, ed in effetti il governo ha cominciato a farlo: nel settore della scuola o in quello della giustizia, per esempio. Poi però ci sono le precisazioni: «servono più ricercatori» – ha aggiunto infatti Renzi – «non più dipendenti». Che tradotto vuol dire: badiamo alle domande di cui sopra. Cioè: stiamo attenti alla qualità della spesa pubblica, non accontentiamoci di buttar dentro qualche centinaio di migliaia di statali, ma ragioniamo su dove e come impiegare nuove risorse.

La prudenza, insomma, è necessaria: dettata anzitutto dal ruolo e dalle responsabilità. Ma in nessun modo Renzi ha ribaltato i dati di partenza del ragionamento che De Luca ha proposto nel suo intervento agli Stati Generali. E cioè: l’amministrazione pubblica è anagraficamente vecchia; l’amministrazione pubblica si è progressivamente dequalificata; lo Stato non può lasciare fuori un’intera generazione.

Questi infatti sono i dati. Poi c’è il numero, la meta iperbolica delle 200.000 nuove assunzioni, e quella è evidente che a Renzi (e non solo a lui) è parsa del tutto fuori dalla portata dell’azione di governo, in questa congiuntura. Ma quel numero doveva essere dirompente, per lanciare con forza l’idea di una nuova stagione di impegno vero dello Stato nel Sud. E doveva anche avere un sottinteso politico, nemmeno tanto velato.

In politica conta chi prende l’iniziativa, chi manifesta un’ambizione, chi si fa portabandiera di un progetto di largo respiro. Renzi lo ha fatto, portando ad approvazione la riforma costituzionale e ora mettendo in gioco il futuro del Paese con il referendum del 4 dicembre. Nelle intenzioni del premier, le riforme sono il viatico della nuova Italia: hic Rhodus, hic salta.

De Luca lo fa a sua volta, chiedendo però al governo di fare un altro salto, persino più grande del primo. Proponendo cioè di riempire il disegno riformatore con un piano almeno altrettanto ambizioso, che parli da molto vicino alle persone, soprattutto in quelle aree dove la crisi economica e sociale morde ancora, e non bastano certo le attuali, risicatissime percentuali di crescita del PIL per delineare una concreta inversione di rotta. In questo senso, De Luca cerca di dare una mano a Renzi, non di mettere in difficoltà il governo. È come se gli dicesse: caro Renzi, prova a spiegare che questa maggioranza che chiama al voto il 4 dicembre sulle riforme è la stessa che vuole affrontare in maniera radicale il tema del lavoro nel Mezzogiorno, che vuole offrire una prospettiva di futuro ai giovani. Prova a far passare l’idea che anche su questo si gioca la partita del voto, e magari così ti riesce pure di vincerla. Poi i numeri li aggiustiamo, e la spesa la teniamo sotto controllo. Ma intanto lanciamo una grande controffensiva politica e culturale anche su questi temi, su un’offerta rinnovata di beni pubblici in tema di sicurezza, di sanità, d’istruzione, di ambiente su cui il Mezzogiorno ha pagato sinora il prezzo più alto.

Ora però queste cose non è che De Luca si limita a suggerirle: le dice lui stesso, in prima persona, e pure questo un significato ce l’ha. Ed è più di un messaggio o di una raccomandazione. È l’offerta di un patto politico, che il presidente della regione Campania si prefigge di stringere più fortemente, dopo che sarà chiaro il risultato del referendum.

(Il Mattino, 14 novembre 2016)

Il Mezzogiorno da questione a passione civile

IMG-20150930-WA0000La questione meridionale: negli ultimi anni o negli ultimi mesi? Per questo giornale, è un tema di discussione da molti anni; per la politica nazionale, si direbbe invece che lo sia solo da qualche mese.

L’affermazione andrebbe corretta, naturalmente, perché il problema del divario fra le diverse aree del Paese ha accompagnato l’intera storia nazionale, e questo giornale ha quindi dovuto occuparsene fin dalla sua fondazione.

Negli ultimi anni, però, la riflessione (e la polemica) meridionalistica ha dovuto misurarsi con un diverso ostacolo, cioè l’aggressiva retorica leghista e nordista che ha a lungo dominato il discorso pubblico. Si può considerare che il culmine sia stato raggiunto con l’immagine del «sacco del Nord» perpetrato dallo Stato nazionale con il trasferimento e la dissipazione di risorse a favore del Mezzogiorno. Nientemeno.

Anche in questo caso, però: nulla di veramente inedito. Già Gramsci ricordava come alla borghesia settentrionale del Paese appartenesse l’idea del Sud «palla di piombo che impedisce più rapidi progressi allo sviluppo civile dell’Italia». Questo regime di discorso, tuttavia, è ormai divenuto quello abituale, corrente per l’intero arco della seconda Repubblica – posto che la seconda Repubblica abbia davvero disegnato un arco, e non piuttosto un imbrogliato scarabocchio dal quale stiamo ancora provando a venir fuori. Oggi la stessa Lega Nord si è scelta, in realtà, altri capri espiatori («l’invasione» degli immigrati), e liste «Noi con Salvini» spuntano anche al Sud.

Ma di qui a dire che il Mezzogiorno sia divenuta la prima e principale preoccupazione del Paese ce ne corre. Eppure qualche buona ragione vi sarebbe, se è vero e anzi conclamato l’allarme lanciato dall’ultimo rapporto Svimez. Su quei dati, su quei numeri che fan tremar le vene e i polsi si è innescato un dibattito serio. Il che non vuol dire che siano mancate punte di polemica ridicola – la Svimez non serve a nulla, come a dire: rompiamo il termometro – ma per lo meno si è raggiunta un’eco nazionale. Il premier Renzi ha convocato in pieno agosto la direzione del suo partito, e annunciato un Masterplan per il Mezzogiorno che dovrebbe vedere la luce proprio in questi giorni, magari in collegamento con la legge di stabilità che andrà alle camere dopo la metà di ottobre. Se si confronta il discorso tenuto da Renzi alla direzione del Pd con il discorso tenuto alle camere in occasione dell’insediamento del suo governo si noterà un non piccolo particolare: prima il Mezzogiorno non c’era, adesso c’è.

Così viene naturale pensare che, forse, l’impegno che questo giornale sta mettendo nel tenere desta l’attenzione sul Sud, e vigile la considerazione dell’opinione pubblica, sarà pure costretto a sfidare il soprassalto di noia che prende al solo nominare la «questione meridionale» – come se si trattasse sempre della solita lagna – ma forse a qualcosa serve, può servire. Non a caso, quando il Presidente del Consiglio è venuto in visita al Mattino, nel maggio dello scorso anno, ha ricevuto, per bene incorniciate e poste sotto vetro, le due pagine dedicate alla nuova questione meridionale che erano state pubblicate un mesetto prima. Quella sorta di manifesto, articolato in dieci domande, cominciava con queste parole: «c’è molta confusione sulle parole Mezzogiorno e questione meridionale. Più se ne discute e più sembra che le nuvole dell’indeterminatezza, anziché diradarsi, si addensino». C’era una qualche concessione retorica nell’incipit: come se davvero se ne discutesse di più, quando invece se ne ricominciava appena a discutere. Però le questioni intorno a cui il Mattino batteva, e nei mesi successivi avrebbe continuato a battere c’erano tutte: in primo  luogo la necessità di affermare chiara e forte l’esistenza della «quistione»; in secondo luogo, la necessità di distinguere analisi storica e azione politica; terzo, la critica dei determinismi geografici e delle costanti antropologiche come chiavi univoche di spiegazione; quarto, il rifiuto dell’alibi della politica locale cattiva, o della illegalità diffusa, come pretesto per mollare il Sud al suo destino; quinto, la necessità di ripensare il ruolo e i compiti dello Stato nazionale, anche nel contesto dei nuovi vincoli europei; sesto, il rigetto di troppo sbrigative soluzioni commissariali, oppure in chiave meramente  securitaria, per problemi complessi, da affrontare con il rigore della legge ma anche con gli strumenti della democrazia; settimo, i numeri, che rendono evidente la necessità di una perequazione fra Nord e Sud, sia sul piano materiale delle infrastrutture, che sul piano finanziario delle risorse, che infine su quello morale dei diritti e del loro effettivo godimento; ottavo, la più grande attenzione a come i soldi vengono spesi, senza però che la riqualificazione della spesa significhi semplicemente rinunciare a spendere, e si dirottino altrove i soldi che dovrebbero essere diretti qui, a cominciare dai fondi europei; nono, la promozione del merito, nel preciso significato costituzionale, per cui si aiutano i meritevoli per scardinare genealogie, appartenenze, clientelismi, e favorire la mobilità sociale; decimo e ultimo punto, un deciso investimento di senso, per cui chi fa la politica la fa per sé (non illudiamoci troppo) ma per un sé migliore di com’è oggi, con un’ambizione vera e grande, e una visione strategica da affermare.

Si possono scorrere in avanti, fino ai giorni nostri, le pagine del giornale, oppure all’indietro, sino alle origini di una franca battaglia che il Mattino ha sempre condotto, senza togliersi scompostamente la camicia ma senza nemmeno rimanere tronfi e imbellettati: ebbene, quei dieci punti li si troverà in mille editoriali e articoli e commenti. Sono una cifra del giornale.

E sono anche la linea di confronto su un buon numero di questioni su ci si sono impugnate le penne. Si è cercato infatti di confondere questa nuova attenzione meridionalistica con un folcloristico sudismo neoborbonico, all’insegna del «si stava meglio quando si stava peggio», e anzi non si stava peggio affatto. Ma la discussione sulla maniera in cui si è formato lo Stato unitario tutto può essere meno che un balzo di tigre nel passato, rivoluzionario o reazionario che sia. Stessa cosa si dirà dell’enfasi posta negli ultimi anni sul capitale sociale: manca, d’accordo, ma è fuorviante un discorso che rinunci a chiedersi se sviluppo, investimento, risorse, non diano una robusta mano ad accumularlo.

Insomma: su un terreno come sull’altro, e in ogni altra discussione che ha visto il giornale impegnato a approfondire, suscitare, stimolare, si è sempre cercato, con autentica passione civile, il confronto delle idee, sfidando se necessario il senso comune consolidatosi in questi anni. Quel senso comune (ben altro dal buon senso), per cui qualunque tentativo sia pur modesto di rileggere con occhi attenti e critici le politiche nazionali – o, negli ultimi anni, le politiche europee di coesione –  suonava o come vittimismo recriminatorio, o come sbrigativa assoluzione dei propri peccati.

Ma la questione meridionale non è mai stata, per il Mattino, la rendita di posizione su cui lucrano le parole dei suoi articoli. Al contrario, per essa e con essa si è cercata una posizione scomoda ma necessaria, da cui raccontare à corps perdu – senza alcuna riserva mentale o prurito ideologico – il Mezzogiorno. E cioè, in fondo, noi stessi.

(Supplemento speciale de Il Mattino, “Il senso del Mattino”, 28 settembre 2015)

La morale dell'economia

Ma che genere di scienza è, l’economia? La crisi da cui stentiamo ancora a venire fuori ha, tra le altre cose, riproposto una domanda del genere. Il biografo di Keynes, Robert Skidelsky, ha ricordato di recente quel che tutti sanno (anche se spesso dimenticano): che cioè, nonostante i sofisticati modelli matematici a cui fa volentieri ricorso, la scienza economica non ha affatto raggiunto lo statuto di una scienza esatta. «È una scienza morale, non naturale», diceva Keynes, e come tutte le scienze morali riesce meglio a descrivere come vanno le cose che non a prevedere come andranno. Nessuna equazione matematica può contenere il significato di un atto economico, e immaginare di descrivere il comportamento degli individui a prescindere dal significato dei loro atti è una pura illusione. Skidelsky ha proposto perciò una ricostruzione del sapere economico basata sul reinserimento e la valorizzazione, nei curricula accademici, di discipline filosofiche, sociologiche, storico-politiche.
Ora, dal momento che nell’ambito delle scienze modernizzazione significa matematizzazione, l’idea di Skidelsky è sembrata antimoderna; e invece ci riporta diritti alle origini del progetto illuministico della modernità, quando l’economia si affacciò per la prima volta alla ribalta pubblica, in mezzo all’etica e alla politica. La cosa accade in Francia, con Quesnay, in Scozia, con Adam Smith, ma anche a Napoli, per merito del primo che in Europa tenne una cattedra di economia, Antonio Genovesi, che, dal 1754, fu Regio Accademico di «Commercio e Meccanica», e scrisse poi il suo capolavoro in materia, Delle lezioni di commercio o sia di economia civile, apparso nel 1768.
Dalle sue prime ricerche metafisiche Genovesi si volse all’economia «per riguardo all’umana felicità», convinto cioè che le scienze e le arti dovessero essere utili all’uomo: alla sua “miglioria”. Può darsi che sulla svolta abbiano pesato le accuse di eterodossia che si era attirato con i suoi primi studi, o che a favorirla sia stata una certa affinità intellettuale con le esperienze più avanzate della cultura europea: sta il fatto che Genovesi non mise molto a passare dall’utilità della religione a fini civili a quella dell’economia, delle scienze agrarie e più in generale di una filosofia “tutta cose”. In quegli anni, l’interesse individuale si andava liberando dei pregiudizi morali e religiosi che da sempre lo accompagnavano: Mandeville aveva spiegato, nella Favola delle api, che i vizi privati (cioè gli egoismi individuali) si convertono, nello spazio pubblico, in virtù, e Adam Smith avrebbe di lì a poco inventato la metafora della “mano invisibile” per spiegare come l’agire dei singoli possa produrre, a livello generale, effetti inintenzionali e tuttavia razionali. Anche Genovesi seppe riconoscere la centralità del momento individuale nel dispiegamento della vita economica, ma difese l’idea che, ci sia o no il tocco di una mano invisibile, spetti comunque ai governi mettere una ben visibile mano nella realizzazione di una politica economica indirizzata al benessere dei popoli. E a guidare quella mano doveva essere la conoscenza dei luoghi e degli uomini, della storia e delle lettere, più che quella dei numeri.
Il più brillante allievo napoletano di Genovesi, l’abate Ferdinando Galiani, ebbe dal suo maestro almeno due atout da giocare: la prima consisteva nell’avviso a non mutare la fiducia illuministica nella ragione umana in un dogmatismo artificioso, che al suo maestro fu sempre estraneo; la seconda, nel cercare con ostinazione il punto in cui i saperi e i poteri potessero coniugarsi insieme per promuovere la pubblica felicità.
Galiani giocò egregiamente la prima carta. Sul tavolo della scienza economica, il trattato Della moneta, scritto a poco più di vent’anni, penetrava nei segreti della politica monetaria dei Principi come nessuno prima d’allora, mentre il successivo Dialoghi sui grani mostrava la scintillante capacità dell’abate di disfarsi di quei teoremi che, come certe operazioni perfettamente riuscite, fanno morire il paziente. La concretezza delle analisi di Galiani era contenuta nel principio, che ispira ancora troppo poco i nostrani legislatori, secondo il quale non deve «una legge che vieta alcuna cosa duellare col guadagno che la consiglia».
Ma la seconda carta fu giocata da Galiani assai meno bene: chiamato da Lord Acton e dalla regina Carolina nel Supremo Consiglio delle Finanze, non seppe incidere veramente negli indirizzi di governo. Preferì anzi, per mero tornaconto personale, comportarsi da cortigiano più che da statista, dimostrando così che, all’incrocio dei saperi e dei poteri, è sì da evitare il dottrinarismo astratto, ma anche il difetto contrario: la conversione del realismo in puro cinismo.
Passa un secolo, poco più. Napoli è ormai una delle città del nuovo Stato unitario. Dopo l’unificazione, ha perduto d’un colpo tutte le risorse, per lo più legate allo status di capitale, che ne avevano in passato alimentato la grandezza. La “questione meridionale” diviene così la forma nuova e drammatica in cui si pone il problema che ebbe a suo tempo Genovesi: come innescare lo sviluppo economico, sociale e civile del Mezzogiorno, come favorire la saldatura fra la consapevolezza delle scienze economiche e sociali circa l’arretratezza del Sud e l’azione politica riformatrice, in grado di porvi rimedio.
In questa partita, che non si gioca più alla corte di Ferdinando ma nei quartieri di Napoli, il punto più emblematico di elaborazione è forse rappresentato dagli scritti di Francesco Saverio Nitti.
Non diede Nitti solo un contributo di conoscenza – dati e cifre che lui amava snocciolare per confutare le opinioni correnti, ad esempio: che Napoli ingoiasse più risorse pubbliche, o che il sistema tributario favorisse il Mezzogiorno, mentre accadeva esattamente il contrario, e il Nord compiva il suo grande balzo in avanti con l’aiuto delle risorse finanziare del Sud e la sua trasformazione in un mero mercato di consumo per le merci del Nord – non diede solo questo, ma elaborò anche un progetto di industrializzazione di Napoli che, acquisito dal governo Giolitti, doveva in certo modo guidare gli investimenti pubblici nei decenni successivi.
Ma l’economia è una scienza morale: scienza degli uomini, ancor più che del denaro o delle merci. A leggere Napoli e la questione meridionale si rimane colpiti dal coraggio con il quale Nitti si appella allo «spirito di opposizione» che deve crescere in città, per contrastare le politiche nordiste del governo centrale e il clientelismo del governo locale. Ma colpisce anche la mancanza di qualunque chiara indicazione delle forze sociali e politiche che avrebbero dovuto coltivare questo spirito: e contare solo su profeti più o meno ascoltati non è mai stata una buona politica. L’industrializzazione di Napoli non è stata, così, una storia a lieto fine.
Da allora è trascorso un altro secolo: non invano, ma senza tuttavia che i problemi del Mezzogiorno siano andati a soluzione. Alla generazione che oggi è chiamata a riproporre con forza la questione meridionale come questione nazionale tocca nuovamente cercare quel punto di congiunzione tra saperi e poteri già più volte avvistato, e più volte sfuggito. La modernità mostra aspetti ancora nuovi e diversi, ma, guardando indietro a chi cercò con determinazione di portarla a Napoli, si scopre che essa rimane purtroppo ancora sempre davanti, come un progetto incompiuto.
(Il mattino, 25 agosto)