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La politica decorativa

Politica e malaffare, giustizia e corruzione: le prime pagine dei giornali tornano a ingrossarsi di inchieste giudiziarie, di scandali e avvisi di garanzia, indagini e sospetti (un po’ meno sentenze). Dalle Alpi alle Piramidi, dal Manzanarre al Reno torna la rappresentazione dell’Italia corrotta, e, come ai tempi di Tangentopoli, siamo tutti quotidianamente in attesa dei «prossimi sviluppi». La nuova narrazione di cui l’Italia a detta di molti avrebbe bisogno rischia di essere ancora una storia trita e ritrita.

È vero: a giudicare da certe stime internazionali, non si tratta solo di una rappresentazione. Non è dunque il caso di sottovalutare il fenomeno. Poiché però sue tracce si trovano anche nella Bibbia, in Esiodo e in Dante, non sarà inutile porsi qualche domanda: un po’ per storicizzare, un po’ per capire. E fare così un passo oltre la sacrosanta indignazione.

La domanda che vorremmo fare è la seguente: i fenomeni corruttivi, le malversazioni,  gli abusi di potere e le ruberie sono la causa della disaffezione dei cittadini e della crisi della democrazia, oppure la crisi della democrazia è non si dirà la causa, ma almeno una delle cause della corruzione dilagante? Non chiediamo se viene prima l’uovo o la gallina. Un conto è pensare che le istituzioni democratiche sono deboli per l’assalto di un esercito di cavallette voraci; un altro è pensare che la debolezza dei sistemi democratici dipende invece da processi economici e finanziari che li tengono sotto tiro e li svuotano della loro sostanza. Nel primo caso, ciò di cui si ha bisogno è un’opera di disinfestazione ; nel secondo, di una cura ricostituente. Magari poi occorrono l’una e l’altra cosa, ma è bene sapere da dove cominciare.

Ora, non sono poche le analisi che negli ultimi trent’anni in forme e modi diversi ci mettono dinanzi a una diagnosi tutt’altro che rassicurante sullo stato di salute della democrazia. Di promesse non mantenute, di crisi, di disagio, di dedemocratizzazione, di postdemocrazia si parla da un bel po’. Ma il punto è che tutte queste disamine, pur molto diverse tra loro, non cominciano affatto dagli appetiti di una classe politica autoreferenziale e corrotta, ma da cose come la globalizzazione, il peso delle nuove potenze emergenti come la Cina o il Brasile, la finanziarizzazione dell’economia, la rivoluzione tecnologica nel mondo dei media, e così via. È più ragionevole ipotizzare allora che lo scadimento della vita politica sia conseguenza di simili processi, piuttosto che di malefatte e ruberie (che pure ci sono, e che non vanno affatto sminuite nella loro gravità). E che se la politica viene percepita come distante o scollata dalla realtà, ciò dipende dal fatto che i politici si fanno gli affari loro, ma ancora di più dipende dal fatto che non hanno più gli strumenti per fare gli affari di tutti.

C’è dell’altro. Quanto maggiore è la disaffezione, tanto più si fa strada un’idea dei compiti della politica in termini di risposte a domande, idea che la priva della dimensione fondamentale dentro la quale la politica democratica si è andata costruendo nel corso del ‘900. Questa dimensione legittimante si può indicare nei termini della costruzione di una cultura storico-nazionale. Quando questa cultura è viva e innerva la politica, è essa ad assegnare anzitutto i compiti: non per paternalismo, ma per senso di appartenenza. Quando invece viene meno, alla politica rimane ben poco da fare per elevarsi sopra la mera rappresentanza degli interessi. I quali, di conseguenza, si restringono sempre di più, fino a coincidere con quelli della classe politica medesima.

Se le cose stanno così, si può provare a ribaltare, in maniera un po’ provocatoria,  i luoghi comuni in cui oggi immancabilmente si infila la discussione pubblica. Si dice: politica ed affari devono essere separati; i partiti non devono ricevere soldi pubblici; non devono nominare né dirigenti Rai né primari d’ospedale; devono star fuori da fondazioni bancarie e consigli di amministrazione. Tutto vero, tutto giusto. Ma domandiamoci ora non cosa la politica debba o non debba fare, ma «come», attraverso quali leve debba fare quel che deve fare. Non si tratta di posti, ma di politiche pubbliche e degli strumenti per realizzarle, buoni abbastanza da resistere a condizionamenti di altra natura. Ho il sospetto che senza di ciò alla politica rimarrà solo una funzione decorativa, oppure cerimoniale. Una politica da suppellettile. Naturalmente, nessuno si augura di finire sotto i ferri di un chirurgo che è in sala operatoria grazie a un tessera di partito piuttosto che per meriti scientifici. Ma bisogna fare attenzione anche alla possibilità che in sala operatoria non ci si arrivi proprio e che per togliere il raccomandato dall’ospedale qualcuno non pensi che si faccia prima a togliere direttamente l’ospedale.

Pensiamo allora tutto il male possibile dei partiti macchine di potere, come disse Berlinguer nella famosa intervista dell’81. C’era un aspetto di verità nella denuncia della questione morale, e una tensione etica, che è semplicemente irrinunciabile. Ma per scongiurare i partiti macchine di potere evitiamo per favore di ritrovarci con partiti finti, cioè impotenti, e dediti per questo al solo cabotaggio clientelare. Se no continueremo giustamente a dare loro addosso, ma i potenti, loro, continueranno a starsene indisturbati da un’altra parte.

L’Unità, 19 marzo 2012 (l’articolo riprende ad sensum la relazione tenuta a Perugia in occasione del seminario su Questione morale e crisi della democrazia, organizzato da Rose Rosse d’Europa e Lettere >Riformiste il giorno 16 marzo 2012)