Archivi tag: Rapporto Svimez 2015

Lotta  al divario, l’ «ammuina» non serve più

Acquisizione a schermo intero 07082015 090621.bmp

Basta che non si tratti soltanto di fare ammuina. Che quelli che stanno a prua vanno a poppa, e quelli di poppa vanno a prua. E così, dando l’impressione che vi sia sulla nave un gran daffare, si lasciano invece le cose come stanno. Se questa è la preoccupazione del premier, allora si comprende la risposta sbrigativa rilasciata ieri: «mentre qualcuno piange, altri fanno». Incalzato dalla stampa, dopo la pubblicazione del Rapporto Svimez 2015 sull’economia del Mezzogiorno, il Presidente del Consiglio ha lasciato intendere due cose. La prima, che non è interessato a entrare in una discussione sul Mezzogiorno, sui ritardi, sulle colpe, sulle responsabilità, sulle cause, e su tutto quello che la «questione meridionale» torna a muovere nel nostro Paese. La seconda, che a metterla ancora e sempre con l’analisi storica, l’analisi culturale, l’analisi sociologica, l’analisi antropologica si cade in quella cultura del piagnisteo sterilmente rivendicativa, che al Sud non fa fare un solo passo avanti. La storia del piagnisteo varrebbe insomma quanto i «gufi» o i «frenatori» o i «rosiconi», cioè quanto le altre metafore che il premier ha messo in circolo in questi mesi di governo per indicare tutti quelli che ostacolano lo sforzo riformatore del governo. Ed è vero, probabilmente, che neanche la discussione, rilanciata dalla minoranza del Pd in questi giorni, sul Ministro del Mezzogiorno, o su una eventuale delega per il Mezzogiorno cambierebbe di per sé la qualità di questo sforzo.

Dopodiché però la Direzione nazionale del partito democratico si riunisce proprio oggi per parlare di Mezzogiorno. Le parole che Renzi non ha detto, preferendo che a parlare siano i fatti, bisognerà pure che si ascoltino oggi, e che formino una politica. Se infatti la direzione non sarà soltanto uno scroscio di mezza estate, o un’altra maniera di fare ammuina, qualcosa i democrati dovranno pur dire, in proposito. Perché di sotto a tutte le parole stanno le cose, e le cose, per il Sud, non stanno affatto bene. Cosa bisogna dunque attendersi? Per esempio che si capisca bene dove vanno a parare le riforme che il governo sta mettendo in campo, ultima la banda larga per la quale il governo ha stanziato ieri due miliardi di euro e rotti. Ecco un segno concreto, concretissimo, che andrebbe rubricato non solo tra le parole ma tra le cose: per ogni impegno di spesa, o per ogni programma di investimenti, o per ogni allocazione di risorse, o per ogni prelievo fiscale, il governo dovrebbe indicare con chiarezza di volta in volta in che modo preveda che vada a riduzione del divario fra il Nord e il Sud del Paese. Questo significherebbe assumere la questione meridionale come una questione nazionale: ritornello che viene spesso ripetuto in maniera retorica, senza che si riesca davvero ad orientare le politiche nazionali nella direzione auspicata.

La si giri però come si vuole: senza una chiara, forte, ambiziosa scommessa politica, non vi sarà alcun riorientamento di questo genere. Perché è indubbio che la seconda Repubblica è stata – come si dice – a trazione nordista e leghista. Qui non si tratta di piagnucolare perché non siedono al governo ministri partenopei, ma di prendere semplicemente atto che nel discorso pubblico il significante «Mezzogiorno» si è accompagnato in questi anni ad una serie di termini negativi che hanno spinto la politica a tenersene sempre più alla larga. Fare il contrario richiede dunque coraggio ed iniziativa politica, che è però quello che ci si aspetta che il Pd abbia, ora che ha – o avrebbe – una classe dirigente meridionale alla guida di tutte o quasi le istituzioni locali.

Non è pensabile neppure che i suoi rappresentanti procedano però in ordine sparso, covando rivalità e gelosie, senza condividere un disegno di più ampio respiro. Forse è presto per nutrire questa preoccupazione, visto che abbiamo da poche settimane i nuovi presidenti della due più importanti regioni del Sud Italia, Campania e Puglia. Una cosa è certa, però: che le loro voci non vanno ancora all’unisono, e non sembra che vogliano andarci, per provare a costruire una sponda forte di interlocuzione col governo. Ieri Vincenzo De Luca ha diramato un comunicato in cui elenca le necessità logistiche e infrastrutturali a cui dovrebbe far fronte un grande piano mirato di investimenti nel Mezzogiorno. Fin qui si trattava di richiamare il governo alle scelte concrete che si debbono compiere nei prossimi mesi, e su cui più che di ragionamenti c’è bisogno di un sì o di un no. Ma  insieme a questo elenco sta una nota polemica, messa lì solo per dire: io sono un’altra cosa da tutti gli altri che parlano soltanto. Sarà vero. Sta il fatto però che distinguersi significa anche dividersi, o addirittura isolarsi, ed è difficile che il ricco piano che De Luca proporrà nella Direzione di domani possa realizzarsi in forza di divisioni e contrapposizioni. Pure quelle, alla lunga, rischiano di produrre solo ammuina.

(Il Mattino, 7 agosto 2015)

Quella sinistra che non cambia

Acquisizione a schermo intero 31072015 143211.bmpAnticipazioni del Rapporto Svimez 2015. Capitolo 3: «il Mezzogiorno alla deriva». Seguono, nei capitoli successivi, le parole: crollo, crisi, divario, caduta, allarme. Seguono, soprattutto, numeri catastrofici: settimo anno consecutivo di diminuzione del PIL, che nel Sud è il 53% di quello del Nord, diminuzione dei consumi del 13% in sei anni, nascite ai minimi storici, una persona su tre a rischio povertà, solo un giovane su quattro con un lavoro.

Ora, lasciamo perdere i dettagli: come si prende una fotografia del genere? Che tipo di discussione deve suscitare nel Paese? Che genere di risposta bisogna aspettarsi dalla politica? Riesce difficile, infatti, evitare formule che si ripetono sempre uguali, modalità che il discorso pubblico conosce e macina stancamente, anno dopo anno, rapporto dopo rapporto. Del resto, non aveva detto lo Svimez, lo scorso anno, che il Sud sta conoscendo un fenomeno di progressiva desertificazione umana e industriale? Lo aveva già detto, e non fa che ribadirlo: è il deserto che avanza.

Ma in mezzo a questo deserto non bisogna nascondersi quel che effettivamente è cambiato, cioè il quadro politico. Dopo le elezioni regionali, e per la prima volta, il partito democratico governa il Paese in lungo e in largo: a livello centrale e a livello periferico, al Nord e al Sud, nelle regione e nelle città. Difficile dunque che possa sottrarsi alle responsabilità che è chiamato ad assumersi. Difficile fare il gioco del cerino acceso da lasciare in mano a Roma oppure a Napoli, a seconda delle necessità. Nel rapporto Svimez si legge ad esempio (ma non è un esempio tra gli altri) che la spesa in conto capitale della pubblica amministrazione è calata negli ultimi anni in tutto il Paese, ma il calo è particolarmente accentuato nel Mezzogiorno, che è dunque maggiormente penalizzato dal rigore dei conti pubblici: «in termini assoluti, la diminuzione del livello della spesa nel Mezzogiorno è stata di 9,9 miliardi di euro (da 25,7 miliardi del 2001 a 15,8 miliardi)». Questo dato non può non essere ricondotto ad una scelta politica: è la scelta giusta? È questa la via attraverso la quale si ritiene che il Sud potrà ricostruire la sua economia? È la via che il governo intende percorrere anche nei prossimi anni? C’è nel Pd una voce meridionalista che sia in grado di porre, a partire da questi numeri  la questione delle politiche verso il Mezzogiorno? Se si amplia lo sguardo, si trova – è ancora il rapporto a confermarlo – che la crisi ha colpito più intensamente le zone deboli dell’area euro. Di nuovo: non per una triste fatalità naturale, ma per il tipo di governance economica che l’Unione europea ha imposto ai Paesi membri, e per le asimmetrie introdotte e accentuate dalla moneta unica e dall’allargamento a est: che si fa? Si prosegue lungo la stessa rotta? Si sposa la linea di Samuel Beckett: «ho sempre tentato, ho sempre fallito. Non discutere. Fallisci ancora. Fallisci meglio»? Forse però, prima di farlo, varrebbe la pena di ricordare che Beckett era il campione dell’assurdo. Che va bene a teatro, un po’ meno in politica.

Ma a proposito di assurdo: non lo è abbastanza la guerra strisciante che la minoranza del Pd conduce per logorare Renzi, per condizionare il governo? Ieri la maggioranza è andata sotto sulla questione del canone, ed è sembrato proprio che più nessuna solidarietà di partito trattenesse un nutrito gruppo di senatori piddini, interessati a dimostrare che il Senato della Repubblica sono ancora le forche caudine per le quali deve passare il premier, qualunque sia il tipo di sostegno che il nuovo gruppo di Verdini darà alla maggioranza sulle riforme costituzionali.

Questo è il punto: un punto puramente tattico, di posizionamento, la resistenza sorda contro il pericolo di marginalità politica a cui la minoranza del Pd sarebbe costretta se le riforme di Renzi passassero.

Ma questo Pd impegnato in una guerriglia interna – a bassa intensità ma a forte potere di interdizione – può reggere una sfida che fa tremare le vene e i polsi, come quella che il rapporto Svimez consegna? Si può continuare con schermaglie sfibranti, mentre metà del paese precipita in uno scenario «greco»? E non corre la sinistra il rischio di replicare una storia che ha già conosciuto con Romano Prodi, quando pure governare si poteva solo in mezzo alle resistenze di chi, dall’interno stesso della maggioranza, remava contro? La sinistra corre questo rischio: ma Renzi intende davvero correrlo? Fino a quando potrà permetterselo?

(Il Mattino, 31 luglio 2015)