Il significato di un gesto non si colloca mai soltanto nel campo delle intenzioni di chi lo compie. Ciò è tanto più vero, quanto più quel gesto è iscritto in una trama ampia di connessioni storiche, simboliche, istituzionali che lo trascendono, che lo sostengono ed a cui si sostiene. Per questo, tutte le analisi delle dimissioni annunciate da Benedetto XVI, le quali si soffermano sulle poche parole pronunciate in latino per congetture sul peso avuto dalle condizioni di salute, oppure sullo stato d’animo del Pontefice, o anche soltanto sulle circostanze più o meno contingenti che possono aver spinto l’uomo a compiere un gesto così clamoroso, possono tutte dare risalto al profilo psicologico oppure a più robuste dinamiche ecclesiali, e possono mantenere anche una doverosa forma di discrezione e rispetto per la figura di Joseph Ratzinger, ma riescono insufficienti, inadeguate per principio.
Di più: l’inadeguatezza è nelle cose stesse, poiché il significato del passo compiuto non sta in nulla di ciò che sia già accaduto, ma dipende in misura decisiva da quel che accadrà o potrà accadere. E non nelle prossime settimane, ma nei prossimi anni, nei decenni futuri. L’interpretazione di ogni gesto, e tanto più di un gesto così rilevante, è rimessa sempre al futuro. Per questo, non sono di particolare aiuto né i (rarissimi) precedenti storici, né i polverosi rimandi al diritto canonico: che la possibilità delle dimissioni sia perfettamente iscritta nella legge della Chiesa, infatti, non spiega nulla. E per la verità non sono sufficienti neppure le spiegazioni che cercano retroscena negli anni del Pontificato, oppure evidenziano difficoltà e resistenze incontrate dentro la Curia romana, o infine enfatizzano gli scandali, la «sporcizia della Chiesa». Non perché questi elementi non possono essere stati tenuti presenti, ma perché l’area di significato al quale appartiene il gesto di Benedetto XVI non è ancora tracciata: solo la storia (per i credenti: la Provvidenza) si preoccuperà di farlo. La storia, infatti, la fanno certamente gli uomini, come diceva Vico, ma con altrettanta certezza non sono semplicemente le loro intenzioni a farla (Vico sapeva anche questo).
Dove dunque guardare? Il gesto di Benedetto XVI, come ogni atto di portata storico-universale, si situa in un tempo del tutto particolare: non appartiene infatti al contesto presente, neppure ora che si sta compiendo sotto i nostri occhi; non è confitto in nessuna vicenda che si sia già consumata e con cui si possano già fare i conti. Appartiene invece a quella dimensione affatto particolare che è il futuro anteriore: è solo quel che «sarà stato», quando sarà riguardato dal futuro al quale appartiene, e in cui getta, con un inaudito carico di inquietudini, la storia stessa della Chiesa di Roma.
Non è, questo, solo un modo per lavarsene le mani, e rimandare al futuro lavoro degli storici la comprensione delle cause (e degli effetti, importanti almeno quanto le cause, e così difficili da determinare ora). Al contrario: è invece il modo per dargli il significato più teso di una domanda, rivolta alla Chiesa dal cuore stesso della Chiesa. Il filosofo francese Maurice Merleau-Ponty diceva che il mondo, il mondo tutto intero e ogni ente nel mondo, esiste allo stato interrogativo. Joseph Ratzinger ha portato lo stato interrogativo nella vita della Chiesa. Che il Papa, che il Vicario di Cristo lasci la sede petrina, non può non significare che va di nuovo domandato, con inaudita radicalità, che cosa significhi essere cristiani oggi. E, domanda non meno conturbante, che cosa significhi esserlo nella Chiesa e per la Chiesa. Se il Papa ha giudicato che le sue forze non fossero più sufficienti a portare il peso del magistero papale, ciò non vuol forse dire che ogni cristiano, e la Chiesa intera, deve nuovamente domandarsi come portare quel peso, che cosa significa la presenza della Chiesa nel mondo, essere pellegrini nella storia, essere non al passo coi tempi ma segno dei tempi?
In una simile domanda c’è tutto il senso insieme teologico ed esistenziale dell’essere cristiani: non c’è dunque nulla di straordinariamente moderno, come provano a dire scioccamente quanti intendono l’istituto delle dimissioni sul piede delle consuetudini giuridiche degli Stati contemporanei. Ma non c’è neppure nulla di tradizionale, se non altro per l’eccezionalità del caso. Il fatto è che tradizione e modernità, continuità e discontinuità sono convocate insieme dal gesto di Papa Benedetto XVI, e rimangono drammaticamente indecise, aperte tuttora alle possibilità della storia e, per i credenti, all’attesa fiduciosa e alla speranza.
(in versione ridotta, questo articolo è apparso su Il Mattino di oggi)