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La violenza e le bugie pietose

GHIRRI

L. Ghirri, Rimini (1977)

Due cose stanno sulle pagine di cronaca dei quotidiani: lo stupro di Rimini, commesso da giovani marocchini, e la campagna di Forza Nuova, la formazione neofascista di Roberto Fiore che va a ripescare un vecchio manifesto della Repubblica di Salò per aizzare l’opinione pubblica contro l’uomo nero che violenta la donna bianca: potrebbe essere tua madre, oppure tua moglie, tua sorella, tua figlia, recita la didascalia, che gioca sulla paura per lo straniero, per l’immigrato, per il selvaggio di colore.

Non v’è chi non veda i tratti xenofobi di questa campagna, che istiga pesantemente all’odio razziale. Ma, per vederli, c’è davvero bisogno di non vedere la realtà, o di camuffarla? La realtà è la seguente: in Italia, sono stati commessi, nei primi sette mesi del 2017, 2333 stupri. Gli italiani accusati del crimine sono 1534, in lieve aumento rispetto allo stesso periodo dello scorso anno (quando furono 1474). Gli stranieri sono invece in leggerissimo calo: 904 nel 2017 contro i 909 del 2016. Questo leggerissimo calo e quel lieve aumento tutto sono meno che significativi. Piccoli scostamenti che non fanno tendenza, che non v’è ragione di ritenere che si confermeranno nei prossimi mesi, che dunque non costituiscono certo il dato statistico più rilevante. Eppure, ci sono agenzie di stampa e giornali che titolano con enfasi: sempre meno stupri sono commessi da stranieri e sempre di più da italiani. Perché lo fanno? Probabilmente per timore di alimentare i pregiudizi verso gli immigrati – specie quelli di colore, specie quelli musulmani – che serpeggiano in settori sempre più ampi dell’opinione pubblica.

Così facendo però, proibiscono di pensare che vi possa essere qualche nesso fra la commissione dello stupro e la condizione in cui vengono a trovarsi gli stranieri in Italia. Attenzione: non ho detto affatto che vi può essere un nesso fra l’essere stranieri e il commettere violenze sessuali. Non voglio essere frainteso, ma nemmeno voglio coprire di facile indignazione retorica un problema drammatico. Ho parlato dunque della “condizione” in cui vengono a trovarsi gli stranieri, soprattutto se irregolari e costretti alla clandestinità. I numeri, nonostante la rassicurante versione ufficiale (quella del calo delle violenze commesse da stranieri e dell’aumento delle violenze commesse da italiani) raccontano un’altra cosa. Perché gli italiani sono più di cinquanta milioni, mentre gli stranieri sono all’incirca cinque milioni: cioè dieci volte di meno. A fronte dei 1574 stupri compiuti da italiani vi dovrebbe stare dunque un numero dieci volte più piccolo di stupri perpetrati da stranieri, e cioè 157. E invece sono 904, quasi sei volte di più. Questo è allora il numero che si tratta di spiegare, questa è la realtà con la quale bisogna fare i conti. Non si fa un buon servizio alla verità – e, io credo, nemmeno alle comunità di immigrati che vivono in Italia – se si omette questa semplice proporzione, e si commenta la notizia dello stupro di Rimini ricordando che, dopo tutto, gli stupri commessi da stranieri sono in calo, mentre aumentato quelli dei nostri connazionali. (Tra parentesi: tutti questi stupri, questa catena orrenda di violenze e abusi che si continua ancora oggi non è tollerabile, e richiede che si faccia di più, molto di più in termini di prevenzione, di educazione, di formazione, di campagne di informazione, di tutela e assistenza alle donne).

Ma se siamo arrivati fin qui, se siamo giunti sino a riconoscere la realtà del problema senza alcun infingimento, non c’è affatto bisogno di gridare all’invasione, come fanno i neofascisti di Forza Nuova, o come, con posizioni appena più sfumate, ripetono Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Se gli stupri sono, in percentuale, più alti fra gli stranieri, non è perché gli stranieri sono più cattivi, o più violenti, ma perché è fallito un progetto di integrazione. Uno stupro è una violenza individuale o di gruppo, ma chiama in causa l’ordine sociale complessivo, i suoi codici culturali, i suoi orizzonti simbolici. Farvi parte, starci dentro – stare dentro una società, comprenderne la cultura, decifrarne i simboli e farne propri i significati – non lo si fa semplicemente mettendovi piede. L’uomo non sta al mondo come la chiave sta nella toppa. E anche il modo di vivere l’essere maschi o femmine dipende da una gran quantità di cose, su cui la società, la cultura, la politica, la religione non smettono di tornare, lasciando sopra i corpi degli uomini e delle donne i segni del loro passaggio. Segni non pacifici e non pacificati, che in condizioni di estraneità, oppure di emarginazione, di distanza culturale o di vera e propria ostilità possono farsi illeggibili, e possono, in certe condizioni, scatenare la violenza. Per rabbia, per risentimento, per frustrazione, per mera rappresaglia. Perché si rimane in guerra col mondo, e la prima e mai cessata guerra che gli uomini combattono, purtroppo, è ancora quella per il dominio del corpo femminile.

Ma, se è così, il primo dovere non è coprire la realtà con pietose bugie, per tema di alimentare le campagne xenofobe e razzistiche, bensì quello di fare ogni sforzo per cambiarla, seguendo modelli effettivi di integrazione. L’immigrazione è una realtà del nostro tempo, ma la nostra responsabilità è molto più grande di quella che pensiamo di avere, riconoscendone il diritto. Il diritto non è mai, da solo e per intero, la vita buona. E nessun uomo e nessuna donna si incontreranno mai per davvero sotto i soli auspici di una norma di legge. Se non si aprono percorsi concreti e tangibili di inclusione degli stranieri, a partire da condizioni di vita accettabili, quella norma, qualunque norma, sarà violata.

(Il Mattino Il Messaggero, 3 settembre 2017)

Razzismo: il calcio squalifica, la politica no

Immagine«Quando vedo l’immagine di Caleb Ansah Ekuban non posso non pensare alle sembianze di un orango»: purtroppo le immagini non consentono di leggere il labiale, e quindi non sappiamo se davvero il giocatore del Matera Gaetano Iannini, nel corso dell’incontro che opponeva la formazione lucana alla squadra del Sudtirol, abbia davvero pronunciato quelle parole. Sta di fatto che il referto dell’arbitro, sulla base del quale Iannini è stato condannato a dieci giornate di squalifica, parla di «epiteto insultante espressivo di discriminazione razziale». Com’è noto, secondo il vicepresidente del Senato Roberto Calderoli, se le parole di Iannini fossero quelle che abbiamo ipotizzato, non costituirebbero offesa: lui infatti le ha già impiegate all’indirizzo del ministro dell’integrazione Cécile Kyenge, e nessun giudice, sportivo o no, si è permesso, al momento, di comminargli alcuna sanzione. Iannini salterà dieci incontri di calcio di fila, Calderoli invece non salterà nessuna seduta parlamentare. Poi dice che non ci vuole la riforma della giustizia.

Naturalmente, è possibile che Iannini non abbia avuto la squisita delicatezza di Calderoli, che da navigato politico ha saputo impiegare le giuste sfumature: un conto è parlare infatti di mere sembianze, un altro è scavalcarle in direzione della figura intera; un conto è dire papale papale che Tizio sembra un orango, un altro è affermare che il proprio pensiero corre irresistibilmente a raffigurarsi l’animale, magari persino contro la propria volontà. Sono differenze importanti, che, però, nella concitazione di una partita, in pieno furore agonistico, dopo che un giocatore di origine ghanese ti ha pure segnato un gol, non riesci a fare. Iannini ha così già pronta una robusta linea difensiva. Si scriva il ricorso! Se a ciò si aggiunge che non deve essere parso vero a un giocatore di origini napoletane di recarsi lassù, nel Sudtirolo, per imbattersi in qualcuno palesemente più meridionale di lui, si comprenderà bene come i dirigenti del Matera Calcio potranno facilmente accampare attenuanti di ogni tipo.

E in effetti hanno già provato a farlo: se il giocatore ha sbagliato pagherà, siamo pronti anzi a infliggergli una multa, come si fa in questi casi, però l’applicazione della nuova normativa è stata troppo severa, dieci giornate sono troppe, si tratta in fondo solo del primo caso da quando è entrata in vigore e i giocatori non sono ancora abituati a non usare espressioni di odio razziale, e così via. Nessuno ha ancora impiegato l’esimente Calderoli, ed è un peccato. Funzionerebbe così: possibile che Calderoli può insultare un ministro e cavarsela con qualche impacciata scusa telefonica e un giocatore di calcio di una serie minore, giunto ormai sulla soglia dei trent’anni, non può, in pieno «eretismo podistico» e sotto il sole di agosto, lasciarsi scappare una parolina di troppo? Quale delle due vicende vi sembra più grave?

In verità, non crediate, la risposta giusta è: sono gravi tutte e due. L’una non è meno grave dell’altra. Avere trent’anni o averne il doppio, essere giocatori o essere senatori (addirittura!) non cambia di una virgola la gravità del caso. Non so se lo si possa dire a maggior gloria dello sport o a maggior vergogna del Parlamento, per apprezzare in un caso l’applicazione della pena e nell’altro l’inosservanza di un minimo di decoro civile da parte di un suo membro autorevole, ma sta il fatto che l’inaccettabilità dell’insulto a sfondo razziale è e resta la medesima. E non ci si può fare l’abitudine, non si può graduare l’indignazione, perché troppi sono gli episodi, e troppo esteso ancora il pregiudizio discriminatorio. I cori razzisti si odono sia sui campi di periferia che nelle sfide di cartello tra grandi squadre, e le offese a sfondo razziale sporcano tanto la politica nazionale quanto quella locale. Ci si illude che i processi di civilizzazione, che l’educazione, che la legislazione, che la politica democratica depositino più di uno strato sottile sopra le passioni, gli usi e i costumi degli uomini, ma capita troppo spesso che quello strato si riveli invece soltanto una pellicola superficiale, e che sempre di nuovo si debba provare a ricostruirla. Per questo, in tempi in cui ci si vuole far dubitare che vi sia un giudice a Berlino, che ci sia un giudice almeno nella Federazione Gioco Calcio è una buona notizia. E un punto di partenza.

(Il Mattino, 8 agosto 2013)

Dolores è una brava persona

Alle manifestazioni di stupida intolleranza seguite alla nomina del ministro Cécile Kyenge ieri si è aggiunto un nuovo, inqualificabile episodio, con le vergognose dichiarazioni di Dolores Valandro, leghista, consigliera di quartiere a Padova, la quale si è spinto fino ad augurarsi che la ministra venga stuprata: «così, tanto per capire cosa può provare la vittima». Che una donna possa pensare di un’altra donna che può capire quale violenza sia uno stupro solo essendo a sua volta stuprata, è un’aberrazione che si fa fatica anche solo a riferire. continua

(L’Unità, 14 giugno 2013)

La giustizia fai da te dei razzisti nostrani

Dove sono i razzisti? Sempre lontano, altrove, e mai tra noi. Anzi: non siamo mai noi, i razzisti, ma sempre gli altri. Poi però accade che un’indagine della magistratura porta allo scoperto quello che accade nelle nostre scuole, tra i nostri figli, e all’improvviso prendiamo coscienza che il problema ci riguarda, che l’integrazione è ancora tutta da fare,, che non siamo affatto più tolleranti degli altri, ma che anzi reagiamo nello stesso modo: incivile, illegale, infame.

Peggio: si scopre che pur di tenere i nostri figli lontano da quelli brutti, sporchi e cattivi – che sono sempre i poveri, gli extracomunitari, meglio se di pelle scura – siamo disposti ad affidarci alla camorra, neanche fosse la ronda padana in servizio fra le strade di Napoli. Con tuta sportiva al posto della camicia verde, ma con la stessa funzione. E sul serio, non a chiacchiere.

Perché, certo, chi non si preoccupa dell’educazione dei figli? Chi non si augura per loro la migliore istruzione? Ma cosa c’entra con la legittima preoccupazione di assicurare un futuro ai propri figli, e persino con gli infiniti problemi che esasperano la vita dei cittadini napoletani nell’infinita periferia della città, il rivolgersi ai clan per ripulire la scuola ed il quartiere dalle presenze sgradite e sgradevoli? Questo, infatti, è accaduto: forse un preside non avrà ascoltato abbastanza, e forse neanche lui poteva far nulla, perché l’istruzione è un bene universale che va garantito a tutti senza eccezione alcuna. Forse, anzi senza forse, in certi quartieri non solo lo Stato non è presente, ma non si trova neppure un vigile, un pubblico ufficiale o un qualunque presidio pubblico a cui rivolgersi, ma cosa c’è di peggio della rassegnazione con cui ci si affida non a un esposto o a una denuncia, ma alle armi del clan, al metodo mafioso, all’intimidazione e alla violenza?

Ora i sociologi disquisiranno se sono la povertà e il degrado sociale a generare l’odio razziale; gli antropologi ci aiuteranno a capire e, si spera, rimuovere le diffidenze verso l’altro, il diverso, lo straniero che rendono difficile e a volte troppo faticosa la convivenza; gli educatori ci spiegheranno che l’istituzione scolastica è sempre più abbandonata, in un tessuto urbano disgregato, ultima fra le priorità che la politica affronta o finge di affrontare. Ma tutto questo non riduce di un millimetro il vuoto in cui sprofonda una città, quando i suoi abitanti non trovano di meglio da fare che rivolgersi alla camorra per regolare i suoi conti, le sue paure, le sue intolleranze. Che Napoli non sia una città da libro Cuore lo sappiamo da un pezzo, quel che non vorremmo scoprire è che non è più nemmeno una città, un luogo a tutti comune, ma il pezzo di carne e di vita che ciascuno strappa a brani per sé e per i propri figli.

Il Mattino, 11 luglio 2012