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Europa, la svolta. La storia si rimise in cammino

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«Mister Gorbaciov, apra questa porta! Mister Gorbaciov, tear down this wall! Abbatta questo muro!»: la porta non si aprì – non era quello l’«apriti sesamo!» che  doveva cambiare il mondo – né crollarono i tre metri e mezzo di cemento grigio e filo spinato che attraversavano tutta Berlino, lungo la frontiera che dal 1961 separava la Germania dell’Ovest dalla Germania dell’Est, le democrazie capitalistiche dell’Occidente dal socialismo reale dei paesi d’oltrecortina, l’Alleanza atlantica dal Patto di Varsavia. Però la frase pronunciata dal presidente americano Ronald Reagan dinanzi alla porta di Brandeburgo è rimasta, giustamente, nella storia. Era il 12 giugno 1987 e di lì a poco il Muro sarebbe caduto veramente. Ma erano davvero in pochi a pensarlo, allora. O almeno: pochi potevano immaginare il modo in cui un intero ordine politico si sarebbe sbriciolato quasi per caso in una notte sola: alle ore 23.17 del 9 novembre 1989, quando il comandate delle guardie di frontiera della Germania dell’Est diede l’ordine di aprire Checkpoint Charlie, il luogo di confine delle due Germanie nel cuore della Berlino spezzato dalla Guerra Fredda.

Poche ore prima si era seduto dinanzi alla stampa il compassato portavoce del Politburo, Günther Schabowski, ed aveva annunziato la decisione del Comitato Centrale di eliminare le restrizioni sul rilascio dei passaporti. Per la prima volta, ogni cittadino della Germania dell’Est poteva averne uno. Il tono dell’annuncio era, al solito, quasi anodino, ma si trattava di una bomba. Era quello l’«apriti sesamo», anche se il ligio portavoce non lo sapeva. Quando infatti sarebbe entrato in vigore il nuovo regolamento? Il povero Schabowski non ne aveva la più pallida idea. Guardò le carte, mise e tolse gli occhiali perplesso, poi fece di testa sua e bofonchiò: «In base alle mie informazioni, immediatamente». Ab sofort: da subito. La bomba era esplosa.

I tedeschi dell’Est, che nei giorni precedenti erano già scesi in piazza, a milioni, per chiedere riforme democratiche e libertà di stampa, si precipitarono di nuovo per le strade: sempre più numerosi, sempre meno esitanti, sempre più sfrontati dinanzi alle guardie mute che presidiavano il confine. Alla successiva domanda – «che ne sarà del Muro di Berlino?» – Schabowski, nella conferenza stampa del pomeriggio, non aveva saputo rispondere; di fronte alle decine e decine di migliaia di berlinesi che si dirigevano a sera verso Checkpoint Charlie, ai riflettori delle tv occidentali che si accendevano dall’altra parte del Muro, ai tedeschi dell’Ovest che gridavano «Venite! Venite!», neanche il comandante delle guardie seppe bene cosa fare. Infine decise: fece alzare le sbarre. Il Muro non c’era più.

Quando però aveva davvero cominciato a vacillare? Forse con l’elezione di Mikhail Gorbaciov alla guida dell’URSS, nel 1985, e la sua destabilizzante «perestrojka», la politica di riforme che doveva trasformare radicalmente il sistema economico sovietico e introdurre maggiore trasparenza, «glasnost», nella vita pubblica di un Paese ormai sclerotizzato. O forse con il rilancio della corsa agli armamenti voluta dal 40° presidente degli Stati Uniti d’America, il californiano Ronald Reagan, determinato a vincere la Guerra Fredda e a sconfiggere definitivamente il comunismo. O magari con l’elezione al soglio pontificio di Karol Wojtyla, e l’appoggio dato dalla Chiesa polacca al sindacato clandestino Solidarnosc: la ribellione degli operai di Danzica, guidati da Lech Walesa, era stata schiacciata nel 1981 dal colpo di stato del generale Jaruzelski, ma aveva mostrato al mondo che i regimi socialisti erano ormai giganti dai piedi d’argilla, privi di qualunque credibilità e consenso presso la popolazione, tenuti in piedi solo dall’esercito e dai metodi polizieschi dei vari partiti comunisti al potere.

In realtà, se c’è un concetto che è difficile maneggiare, nel raccontare la storia, è quello di inizio. Le date servono a mettere un punto, ma i periodi storici non cominciano mai da lì. Non funziona come nei romanzi: non c’è un incipit. Ci sono invece molteplici processi: alcuni più veloci, altri più lenti; alcuni più incisivi, altri meno, così che la figura di un mondo nuovo, che a volte si disegna all’improvviso, come a Berlino la notte del 9 novembre, erompe a partire da un concorso di cause che è vano voler ridurre a una soltanto. Tutti ricordano quella formidabile notte: le persone che si arrampicano sul muro, quelli che ballano, quelli che con il martello provano a scalfire il mostro di cemento, e i tedeschi dell’Ovest che abbracciano quelli dell’Est, e fiumi di birra che scorrono. La potenza simbolica di quelle immagini, l’emozione che suscitarono fu enorme: finiva la Guerra Fredda, finiva il comunismo, finiva la divisione fra le due Germanie. Per qualcuno finiva addirittura la storia: Francis Fukuyama non avrebbe mai scritto, nel 1992, il suo discusso saggio sulla fine della storia, nel quale si celebrava la definitiva vittoria della democrazia come sistema politico e del capitalismo come sistema economico, se il Muro non fosse venuto giù, se quella vittoria non l’avesse vista celebrata sotto la porta di Brandeburgo; se il canuto Honecker, presidente della DDR, non fosse stato costretto a lasciare Berlino per fuggire a Mosca; se il dittatore romeno non fosse stato deposto, poi fucilato; se il Presidente Husák e il segretario Miloš Jakeš, in Cecoslovacchia, non fossero stati costretti dalla «rivoluzione di velluto» a lasciare il Paese; se insomma non fosse crollato l’ordine di Jalta, uscito dalla seconda guerra mondiale, e cambiata, insieme alla Germania riunificatasi nel giro di appena un anno, la geografia politica dell’Europa intera.

Se però vogliamo proprio trovare un inizio della fine allora bisogna dire: dicembre 1988, alle Nazioni Unite Gorbaciov annuncia il ritiro unilaterale di 250.000 uomini dall’Europa orientale. La superpotenza non ha più i soldi. Da quel momento, con la rinuncia alla dottrina interventista del PCUS – quella che aveva portato i carri armati russi a Budapest nel ’56, a Praga nel ’68 – prendono forza, in tutti i paesi del blocco sovietico, le spinte disgregatrici. Tutti ricordano il Muro, ma nel maggio dell’89 era stato il primo ministro ungherese, Miklós Nemeth, scontrandosi col partito, ad annunciare che non avrebbe più sostenuto le spese per mantenere in funzione la barriera elettrificata al confine con l’Austria. Il Muro c’era ancora, per Honecker sarebbe durato ancora cent’anni, ma passando per l’Ungheria diveniva già possibile raggiungere l’agognato Occidente.

I percorsi della storia sono strani. Come è difficile stabilire un inizio, così lo è anche capire come le cose andranno a finire. A fianco di Nemeth, a chiedere a gran voce di seppellire il comunismo, c’era Viktor Orbán: allora giovane leader democratico, paladino delle libertà civili, oggi padrone indiscusso del Paese, a cui ha impresso una forte torsione con serissime limitazioni dei diritti, che preoccupano l’Unione europea. Evidentemente, le vie per conquistare e mantenere la democrazia non sono sempre rettilinee, e certe soluzione autoritarie tornano volentieri ad affacciarsi.

E in Italia? La fine del socialismo reale non poteva non ripercuotersi sul nostro paese, imperniato su due grandi partiti, uno dei quali, il PCI, aveva sì reciso il cordone ombelicale con i comunismi dell’Est e sperimentato una via nazionale e democratica, ma rimaneva permeato di culture, simboli e modelli legati al blocco sovietico. Anche l’Italia franò. Ma il colpo di maglio dell’inchiesta milanese di «Mani pulite» è venuto dopo, nel ’92; le cause internazionali hanno preceduto quelle endogene; la perdita di funzione storica ha preceduto la débâcle morale. Non a caso, troncando un dibattito ormai avviato da mesi, solo tre giorni dopo la caduta del Muro, Achille Occhetto, da poco segretario del PCI, si dichiarò pronto a cambiare anche il nome del partito, cosa che accadrà, senza rinunce o abiure, due anni dopo. Da quel giorno, nomi e partiti in Italia non hanno mai smesso di cambiare, in una girandola ininterrotta, e il sistema politico italiano non ha più ritrovato un assetto stabile.

Ma questa, come si dice, è un’altra storia. La nostra.

(Il Mattino, 16 marzo 2017; numero celebrativo per i 125 anni del quotidiano)

 

 

Destra e sinistra esistono, spaesato chi voleva andar ‘oltre’

N el paese nel quale non esistono la dwestra o la sinistra, o perlomeno: nel paese in cui per anni si è provato a difendere l’idea che destra o sinistra non esistono, e cioè nel nostro paese,  la sentenza con la quale il tribunale di Roma ha chiesto alla Fiat di assumere a Pomigliano 145 lavoratori iscritti alla Fiom viene commentata così: «Siamo un Paese dove può succedere di tutto, compreso il fatto che il potere giudiziario possa imporre un imponibile di manodopera ideologizzata». Non so se è chiaro: la Fiat esclude sistematicamente i lavoratori iscritti a un sindacato, e quando un giudice fa notare la cosa, Maurizio Sacconi, ex ministro del Welfare, riesce a dire che è tutto il contrario, è il potere giudiziario (non il tribunale, un giudice, la magistratura, no: il potere giudiziario) ad infiltrare la fabbrica con operai comunisti.

Tuttavia, non esistendo la destra e la sinistra, visto che il campo politico è permanentemente in corso di ristrutturazione e intanto abbondano leader nuovi e opinion maker vecchi che si spacciano per nuovi, insomma gente per la quale queste categorie sono obsolete,

suonano insopportabilmente novecentesche, e soprattutto frenano lo sviluppo del Paese, le parole dell’ex ministro restano lì, tra il paradosso e la boutade, e non possono essere classificate come meritano.

In questo stesso Paese né di destra né di sinistra, nel quale la parola libertà viene declinata anzitutto come libertà dal fisco e dalla giustizia non come libertà politica o libertà civile capita anche che si possa progettare la costruzione di un nuovo rassemblement politico al grido di liberazione dall’euro (o se proprio non ci si può liberare dall’euro, che ci si liberi almeno dai tedeschi). Dal momento che non sono più disponibili le categorie di destra e di sinistra, non si sa più bene come prendere neppure queste manifestazioni di prorompente orgoglio patriottico. Poi però viene in soccorso Francesco Storace uno che incomprensibilmente non rinuncia a chiamare La Destra il suo movimento il quale giustamente rivendica la primogenitura dell’idea. Lui per la verità dice di più: questa storia della moneta unica non funziona, una moneta è poco, ce ne vogliono almeno due, lira e euro insieme a circolare, e soprattutto: non paghiamo i debiti alle banche straniere. È evidente che manca solo lo slogan per convertire questa politica in una nuova, travolgente battaglia autarchica e allora sì che si capirebbe in che Paese siamo, o rischiamo di finire.

Ma diciamo la verità: oltre la destra e la sinistra non ha provato ad andarci solo il nostro Paese. Di nostro ci mettiamo quel mix di fantasia e cialtronaggine che non ci facciamo mancare mai: ci mettiamo Sacconi e Berlusconi, oppure i processi di piazza evocati da Grillo o gli editoriali de Il Giornale che per criticare Balotelli se la prendono col multiculturalismo: cose così. Ma sta il fatto che il 1994 non è solo l’anno in cui il Cavaliere vince le elezioni, è anche l’anno in cui in Inghilterra si pubblica Beyond Left and Right, “Oltre la destra e la sinistra”, del teorico della Terza via, Anthony Giddens, il guru di Blair. Questo libro non mi sarebbe ricapitato tra le mani se l’editore non avesse deciso di ripubblicarlo lo scorso anno, con prefazione di Michele Salvati. Il quale Salvati, nel dare conto di argomenti, limiti e meriti del libro, fa la seguente osservazione critica: Giddens tratta la globalizzazione come una variabile indipendente del suo ragionamento, oggettiva, naturale, inevitabile. E invece «questi fenomeni hanno madri e padri, Margaret Tatcher e Ronald Reagan, e le cose potevano andare diversamente se non avessero prevalso le idee di cui quei leader politici erano portatori». Giusto, ben detto. Ma come si fa allora a dire che bisogna andare oltre la destra e la sinistra?

Non basta. Giddens scriveva nel ’94, rileva Salvati, e dunque «non gli si può far colpa di non aver previsto la grande crisi di questi ultimi anni». E qui no, non ci siamo proprio: né con Giddens, né con Salvati. Perché neanche la crisi è imprevedibile, naturale e inevitabile. Pure la crisi ha madri e padri, e variabili assunte come indipendenti e idee che ci hanno portato sin qui. E forse, se non fossimo andati troppo oltre con questa storia della destra e della sinistra che non ci sono più, ce ne saremmo accorti prima di una nuova edizione del libro di Giddens.

L’Unità 24 giugno 2012

Quando Marx criticava i censori dell’arricchimento

E se, dopo aver capito che la ricetta reaganiana non poteva funzionare a lungo, e che non è vero affatto che lo Stato rappresenta il problema piuttosto che la soluzione – se non altro perché allo Stato qualcuno ha chiesto di salvare con migliaia di miliardi di dollari il sistema bancario americano – se ora che la crisi ha investito i debiti sovrani degli Stati europei dovessimo chiederci se non occorra essere solo un po’ più radicali, e domandare anche, a proposito del capitalismo, se anch’esso non sia il problema, invece che la soluzione? Troppi «se», qualcuno penserà. Ma davvero sarebbe un bel guaio se così fosse, perché di risorse intellettuali per misurarsi con un simile problema non ce ne sono molte, in circolazione. Non si vorrà mica tirare in ballo un’altra volta Marx? Certo lui qualche parolina l’ha detta, provando per esempio a sostenere che le crisi non sono soltanto eventi più o meno accidentali, ma fasi strutturali del funzionamento dell’economia capitalistica. Come si fa però a riprendere un’analisi del genere, se persino il termine, “capitalismo”, è pressoché scomparso dal dibattito pubblico? In verità, la parola sta di nuovo facendo capolino, e il solo fatto che la si torni ad usare (senza peraltro avere la scostumatezza di Marx, che parlava addirittura di “capitalisti”, incitando così all’odio di classe) indica perlomeno che il problema c’è: la fede nelle virtù taumaturgiche del mercato si è indebolita; indebolita è pure la convinzione che il mercato rappresenti sempre il miglior sistema di allocazione delle risorse; fragilissima è ormai la presunzione che alla politica spetti solo il compito di correggere asimmetrie e distorsioni del mercato.

Certo, non possiamo farne solo un affare di parole. Forse, però, tornare ad usare la parola «capitalismo» aiuta a individuare nodi strutturali, quelli che non vengono meno solo per il fatto che non li si nomina più. Marx era ad esempio convinto che la crisi si manifesta sì sui mercati finanziari, e anzi le bolle speculative la ingigantiscono oltre misura, ma comincia da un’altra parte, nella sfera della produzione: è lì che bisogna andare a guardare. Siccome però il fenomeno della sovrapproduzione, che lui poneva all’origine della crisi, raccoglie le abbondanti ironie degli economisti mainstream, figuriamoci se proponiamo di tornare alle sue descrizioni del ciclo economico (con tanto di inevitabile crollo finale). Però, di grazia, quando Marx spiega che è futile oltre che irresponsabile prendersela con l’avidità dei banchieri e l’egoismo degli speculatori, quando avvisa che non è buttandola sul piano della morale che si individuano le cause e si indicano le vie d’uscita, non sarà il caso di rimpiangere un pensiero critico altrettanto robusto? Così, se il Presidente del Consiglio vola a Londra per riconquistare la fiducia dei mercati, ci si può chiedere se è di economia che stiamo parlando, o non piuttosto di psicologia? Sentite allora Marx, quando ad esempio se la prende con la stampa: «Ora non ci chiederemo se i giornalisti inglesi, che per un decennio hanno diffuso la dottrina secondo cui l’epoca della crisi commerciali si era definitivamente chiusa con l’introduzione del libero commercio, abbiano ora il diritto di trasformarsi improvvisamente da servili panegiristi a censori romani dell’arricchimento moderno». Che dire? A parte il fatto che oggi il problema non ce l’abbiamo solo con i giornalisti inglesi, e che di decenni di panegirici ne abbiamo vissuti più d’uno, ma non avremmo bisogno di penne almeno altrettanto libere e sfrontate? Perché di questo anzitutto si tratta: se il capitalismo crollerà, non ce lo manderà certo a dire, ma intanto si può auspicare un po’ più di libertà intellettuale, di intelligenza critica, di anticonformismo nel dibattito delle idee?

L’unità, 19 gennaio 2012