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Un Paese in cerca d’identità tra voglia d’Europa e populismi

Richter_ Wolken 1970

G. Richter, Nuvole (1970)

I flussi e i luoghi, i fantasmi e le superstizioni, i leader e gli immaginari collettivi. E poi i migranti, l’Europa, Renzi e Berlusconi, Salvini e i Cinquestelle: è difficile tirare una linea diritta tra le parole e i pensieri che si raggomitolano attorno al futuro del nostro Paese. È difficile sbrogliare l’intrico di ipotesi, svolgere le subordinate più o meno probabili, delineare gli scenari più o meno lontani. Bisogna percorrere almeno idealmente la Penisola, per provare a sentire più voci, per seguire più ragionamenti e così provare a tracciare la mappa sulla quale si disegneranno le traiettorie politiche nel breve e nel medio periodo.

E bisogna per forza cominciare dalla Sicilia, perché lì si vota in autunno, e da quel voto può dipendere molto.

«Dipende tutto», mi corregge Pietrangelo Buttafuoco, «tutto dipende dalla Sicilia. Malgrado Renzi abbia detto che il voto non ha una valenza politica nazionale, il voto regionale siciliano costituirà un test per capire molte cose». Buttafuoco conosce bene la Sicilia, la sua terra, e non ha molti dubbi: «in questo momento in Sicilia si vedono solo Musumeci (di Forza Italia) e i Cinque Stelle. C’è da chiedersi allora quale sarà il contraccolpo che subirà il partito democratico da una sconfitta quasi certa. Ma il voto dirà anche se il M5S è in grado di assorbire la fallimentare esperienza di Virginia Raggi a Roma. E dirà soprattutto se il centrodestra saprà ritrovare l’unità. Lì, come direbbe il Poeta, si parrà la nobilitate di Berlusconi». Nei sanguigni ragionamenti di Buttafuoco, tutto dipende dal voto siciliano, ma tutto dipende anche dalle strategie berlusconiane. Se Alfano non sarà con lui, gli alfaniani però già lo sono: se bisognerà mozzare la testa del serpente, la testa del serpente cadrà. E una volta vinta la Sicilia, Berlusconi dovrà trovare un federatore del centrodestra: «O lo prendono dalla politica, penso in quel caso a Luca Zaia; o lo prendono dal parco tecnici, e il Cavaliere ha già cominciato i sondaggi; o infine giocano la carta di casa, Marina Berlusconi, perché io non sono affatto convinto delle smentite che ci sono state in passato». Poi, continua Buttafuoco, per prosciugare i Cinque Stelle il Cavaliere varerà una mriadi di liste di varia umanità: quella degli animalisti, quella degli indignati, quella degli arrabbiati, magari quella del Sud per controbilanciare la Lega». E dall’altra parte, il Pd? «Se in Sicilia perde male, la leadership di Renzi è a rischio. Ma l’unica cosa che possono fare per non perdere è nascondersi dietro qualche paravento, come hanno cercato di fare con il Presidente del Senato Pietro Grasso».  Che però ha detto di no a una sua candidatura. C’è una cosa che tuttavia non mi convince: vada pure male per il Pd, che centrodestra sarà quello che col vento in poppa del voto siciliano si presenterà alle elezioni politiche nazionali? Non ci sono profonde differenze fra Berlusconi e Salvini, fra moderati e populisti, fra sovranisti ed europeisti? Qui però Buttafuoco mi ferma: «Quella dell’europeismo è solo una superstizione, una stupidaggine. La vera partita è sul Mediterraneo, e i governi nazionali ignorano Bruxelles. Chi si impossessa del Mediterraneo decide. Lo ha capito la Francia di Macron, lo ha capito la Russia di Putin che, checché se ne dica, è la grande potenza europea».

Qui sono io a fermarmi. Ho bisogno di capire di più su questa storia dell’Europa: una stupidaggine o una sfida reale, persino decisiva? Risalgo la Penisola. Lascio il mare della Sicilia e vado a trovare Sergio Fabbrini, pesarese, in vacanza sulle Dolomiti: «Il mio argomento – mi dice Fabbrini – è che il sistema dei partiti della Seconda Repubblica, disposto più o meno secondo una logica bipolare destra/sinistra, ancora in continuità con la lunga vicenda postbellica novecentesca, non è più sulla linea decisiva, che è quella che divide i favorevoli e i contrari all’integrazione europea». Fabbrini non è un europeista senza se e senza ma, nel senso che ha più di una critica da muovere ad una vicenda che negli ultimi anni è andata avanti senza un chiaro disegno strategico, e che «ha prodotto più integrazione senza sovranazionalizzazione». Non è una formula difficile da spiegare: con il metodo intergovernativo, sono stati progressivamente svuotati di peso le istituzioni dell’Unione: il Parlamento di Strasburgo, la Commissione, la Corte di giustizia. Le decisioni più importanti vengono prese dal Consiglio europeo, dove siedono i governi nazionali. «E i governi si esprimono non attraverso atti legali, direttive o regolamenti, ma attraverso atti politici, che emarginano le istituzioni comunitarie». Che cosa ne viene all’Italia? Beh, molto poco e molto male: «dal momento che l’Italia non è in grado di esprimere governi coesi e stabili, più pesano i governi nazionali meno pesa l’Italia. L’Italia dovrebbe allora compiere, almeno in teoria, una doppia capriola: darsi anzitutto un governo stabile, e lavorare per superare il metodo intergovernativo, io dico in direzione di un modello originale di unione federale. Questa proposta in Europa spetta a noi, perché nessuno penserebbe che noi la facciamo per ragioni egemoniche. A fianco del primato politico-militare della Francia e del primato economico della Germania dobbiamo costruire un nostro primato culturale, ideale». Con l’attuale sistema dei partiti, con l’attuale legge elettorale? Realisticamente parlando, la legge elettorale non cambierà, Fabbrini ne conviene: né Renzi né Berlusconi hanno interesse ad accettare logiche coalizionali, che darebbero un forte potere di condizionamento alle altre forze di un’eventuale coalizione. Ma con questa legge noi siamo come la Francia del primo turno: solo il secondo turno di ballottaggio ha permesso alla Francia di superare la divisione in quattro poli e di avere Macron. In questa situazione, io penso che le forze europeiste dovrebbero riorganizzarsi intorno a un patto scritto che preveda anzitutto una razionalizzazione delle istituzioni politiche». Si tratta della prima capriola: il governo stabile.: «Sì: bisogna togliere la fiducia al Senato, inserire la sfiducia costruttiva alla Camera, e solo dopo discutere di legge elettorale». Poi la seconda capriola: «La classe politica che si riconosce nei valori europei dovrebbe contribuire a portare in Europa una netta opposizione all’Europa intergovernativa di oggi».

Lascio le montagne, torno al mare, questa volta al mare di Ostuni, spazzato da un fortissimo maestrale. Lì trovo Biagio De Giovanni, che ha lasciato la sua Napoli in questi caldissimi mesi estivi. L’approccio descrittivo del filosofo è abbastanza diverso da quello prescrittivo dello scienziato della politica, ma la passione europea è comune a entrambi. De Giovanni esprime più volte la preoccupazione che il suo ragionamento suoni troppo scolastico, troppo ordinato, ma il perno è anche per lui la «forma nuova del problema europeo», soprattutto dopo la Brexit, che ha lasciato l’asse franco-tedesco senza il contrappeso d’Oltremanica. Sta dunque all’Italia «implicarsi» in quel sistema, o altrimenti il nostro Paese pagherà un prezzo molto alto. In una parola: l’irrilevanza. Se questa è la questione dirimente, allora è da capire dove si trovano le forze che, in Italia, possono salvare il «principio europeo»? Non certo dalle parti di Salvini o dei Cinque Stelle. «Il rischio è però che queste forze prevalgano. Non so se stabiliranno un’intesa politica esplicita, quel che io vedo è però la loro complementarietà. Qualcuno giunge persino a ipotizzare che Salvini e Meloni alzino i toni ed esasperino i contrasti con il centro moderato per prepararsi poi a dare un appoggio “esterno” e consentire un governo Cinque Stelle». A questo scenario De Giovanni contrappone una coalizione fra forze popolari e forze socialiste, o quel che resta delle rispettive tradizioni, in Italia: «il Pd, i centristi, Forza Italia». Ma soprattutto anche per De Giovanni, come per Fabbrini, il displuvio europeo divide centrodestra e centrosinistra al loro interno: «non c’è vera comunicazione tra Mdp e Pd, a sinistra, come non c’è vera comunicazione fra Lega e Forza Italia, a destra».

Resto in Puglia. In Puglia c’è Marcello Veneziani, intellettuale di destra che mi pare veda le cose in maniera speculare a come le vede De Giovanni. Sull’immediato futuro Veneziani non formula previsioni – «c’è una tale aleatorietà – mi dice – che nemmeno i protagonisti della vita politica saprebbero formularle» – ma quel che gli sembra invece un dato di realtà ormai consolidato è la formazione di un chiaro bipolarismo in termini di culture civili. «Il dramma è che queste culture civili non trovano corrispondenza sul piano politico». Veneziani guarda in particolare al campo politico del centrodestra: «c’è un comune sentire, un’area di opinione su tutta una serie di questioni – dai migranti alla famiglia, dai temi del politicamente corretto alla tortura – che però non trova espressione politica, se non in parte, nel centrodestra, e rimane quasi dispersa allo stato brado». Anche lui fa il confronto con la Francia: non con l’europeismo di Macron, ma con il Front National di Marine Le Pen. Che non è arrivata all’Eliseo, ma «ha determinato un fatto politico reale».

La mia impressione è che tanto il centrodestra quanto il centrosinistra siano in cerca di una nuova definizione, e che le forze politiche che si spartiscono il campo facciano molta difficoltà a dotarsene. Dario Antiseri, romano d’adozione, è meno preoccupato di me delle culture politiche dei partiti italiani. «Scomparso il partito ideologico che aveva la verità su tutto, i partiti devono attrezzarsi per la soluzione dei problemi del Paese: scuola, sanità, Europa». Antiseri accenna a una sorta di medicina liberale per il Paese, in particolare nell’ambito dell’istruzione: «buona scuola e abolizione del valore legale del titolo di studio per mettere in competizione le istituzioni scolastiche e universitarie». Anche la proposta di una legge uninominale a doppio turno è figlia, credo, dell’idea di introdurre meccanismi concorrenziali in politica. Mi colpisce però che questi accenti abbiano il tono spazientito di chi non vuol troppo saperne dell’attuale classe dirigente, di questo «Parlamento ben pagato» che non riesce a fare la legge elettorale, di questi parlamentari che cambiano idea e gruppi «e così la sovranità non appartiene più al popolo». Un po’ troppo sbrigativo, per le mie abitudini intellettuali.

Decido allora, restando a Roma, di sentire Giuseppe De Rita. Che ha voglia di parlare e di volare alto. Come Antiseri vuole cercare soluzioni ai problemi a portata di mano, senza appelli alle grandi verità, così De Rita esordisce invece parlando di scopi e di visioni e di immaginario collettivo. Per me, è quasi un toccasana sentir dire che neppure la mitica “ripresa” può essere lo scopo di una politica. È questo mi pare essere l’errore che imputa a Renzi: un deficit di narrazione, si può dir così? In ogni caso De Rita tiene a mettere in chiaro due cose. Che la politica ha bisogno di darsi uno scopo, e che il problema delle coalizioni per governare questo Paese non può essere risolto in termini puramente tattici o politicistici: «Non si può governare senza una logica di scopo. Può trattarsi dell’orizzonte europeo, in una logica merkeliana, o più avventurosamente di una politica mediterranea e verso l’Africa. Oppure può trattarsi di rifare la macchina amministrativa del Paese (come accadde nel secondo dopoguerra). Ma uno scopo, che dia un minimo di carica all’immaginario collettivo del Paese è indispensabile». Non basta: quel che ancora ci vuole è rispondere a due domande radicali, che vedo formulate in tutto il mondo, ma che arrivano anche in Italia: una domanda radicale di sicurezza, e una domanda altrettanto radicale di dare senso all’esperienza umana collettiva». Sembra complicato, ma non lo è: «Minniti e Del Rio». Già, ma mettere d’accordo le due “domande”, non dico i due ministri, non è sempre facile: Gli esempi che De Rita mi sciorina (Putin che usa il polso fermo e però stringe la mano al patriarca ortodosso di Mosca; la Cina che costruisce sicurezza ma promuove anche il confucianesimo come etica collettiva di massa) mi lasciano un dubbio, che le democrazie secolarizzate dell’Occidente abbiano qualche difficoltà sia sul versante della sicurezza che su quello della ricerca di senso, ma De Rita non ha dubbi: «se partiti e coalizioni non si daranno uno scopo, queste domande radicali diverranno i poli che ridisegneranno la cultura politica del Paese».

Con Roma ho finito. Voglio tornare al Nord: devo ancora passare per Bologna, Milano, Torino. A Torino c’è Luca Ricolfi: cosa c’è di meglio di un sociologo empirico, tutto numeri e verifiche fattuali? Ricolfi è di Torino, però in questi giorni sente anche lui bisogno del mare. È a Stromboli, e le domande devo formulargliele via mail. Alle mie preoccupazioni risponde con perfetto stile anglosassone, in modo conciso e diretto: «la legge elettorale cambierà poco, anche se non escluderei un piccolo premio di governabilità al primo partito; il quadro delle forze politiche resterà abbastanza simile a quello attuale, a meno che non compaia un leader nuovo e carismatico; in caso di stallo non escludo la ripetizione del voto, come in Spagna». Tra le voci fin qui sentite, Ricolfi mi pare abbastanza in controtendenza. O forse è lo stile asciutto che mi fa sembrare sottostimato l’effetto che il nuovo ambiente proporzionale potrà avere sul sistema dei partiti: «L’Italia percorrerà la strada del gattopardo, annunciare il cambiamento lasciar marcire i problemi». Anche sulle questioni più scottanti, come quella dei migranti. Ricolfi è tranchant: «si voterà in inverno, con il mare grosso e meno sbarchi, la questione immigrazione sarà meno saliente di oggi».

Sarà. Ma io ho di nuovo bisogno di uno sguardo più ampio, di una visione più larga del futuro. A Milano c’è Aldo Bonomi. Al telefono, tra una sigaretta e l’altra, mi spiega le due cose che più gli premono. La prima: d’accordo, il sistema politico italiano ha conosciuto in questi anni profonde trasformazioni, e le ricomposizioni sono sempre seguite da fasi di scomposizione più o meno pronunciate. Bonomi parla di «metamorfosi» e «diaspora», ma guarda i due fenomeni dal lato della società, degli effetti sulla composizione sociale del Paese. Se centrodestra e centrosinistra non sono più gli stessi è perché è cambiata quella che una volta si diceva la loro base sociale. La seconda cosa che gli preme richiamare è il vero e proprio «salto d’epoca» che stiamo attraversando. Bonomi ne parla anche come di un «salto di paradigma». Se potessi fare un disegno, esporrei meglio il suo ragionamento. «Un tempo, dice, c’era il conflitto capitale/lavoro, con lo Stato in mezzo, con funzioni di mediazione. E per Stato intendo l’insieme delle istituzioni e dei corpi intermedi chiamati a mediare il conflitto. Oggi invece ci sono i flussi – l’economia finanziarizzata, la Rete, l’immigrazione –  che impattano sui luoghi, e il territorio è la dimensione che emerge da questa rapporto». Territorio vuol dire essenzialmente: non più Stato nazionale. Il che però ha delle conseguenze evidenti sulla stessa forma partito: «Il partito è la forma che la politica ha assunto nel ‘900 dentro lo schema capitale/lavoro». Capire i flussi e mettersi in mezzo: questo il compito della politica. E l’impressione di Bonomi è che i partiti siano parecchio in ritardo.

Ma chi meglio di Carlo Galli, tra i maggiori studiosi del Novecento europeo, può allora darmi un ultimo ragguaglio sul sistema italiano dei partiti? Galli è in Parlamento, ha lasciato il Pd, nelle cui file è stato eletto, ma non ha dismesso l’abito dell’intellettuale rigoroso. Mi disegna in breve lo scenario politico dinanzi al quale siamo. Una lezione di realismo: «L’unico che ha interesse a costruire una coalizione è Berlusconi. Non è facile perché a destra ci sono due entità, l’una moderata, l’altra riformista. Renzi non vuole coalizioni, perché per lui significherebbe rinunciare a Palazzo Chigi. Naturalmente peserà il risultato siciliano: se andasse male, Renzi sarebbe forse costretto a proporre lo schema Gentiloni, adottato in quest’ultima fase della legislatura, anche per la prossima. In una logica profondamente diversa, però, perché non più legata semplicemente all’emergenza. Anche alla sinistra del Pd ci sono però due diverse formazioni. Una – Sinistra Italiana, Montanari – si riassume nella formula “mai col Pd”; l’altra – Pisapia, Mdp – si riassume invece nella formula “mai con Renzi, sì col Pd derenzizzato”. Se il Pd andasse molto male in Sicilia, potrebbe prevalere uno schema in cui da un lato si troverebbero riuniti i partiti anti-establishment, dall’altro i partiti pro-establishment, in una sorta di arroccamento Renzi-Berlusconi. Centristi che darebbero l’immagine di un sistema assediato. Migliore sarà il risultato in Sicilia, più prevarrà l’idea di andare da soli al voto politico nazionale, cercando magari dopo il voto accordi con gli alleati naturali». Quanto siano però naturali per Pd e Forza Italia gli alleati delle ali estreme non saprei dire.

Ho finito il mio viaggio. Torno a Milano per sentire Massimo Recalcati. Con lui provo a sviluppare un’ultima riflessione sulla grande minaccia del populismo, che in tutti i ragionamenti che ho sentito è quasi sempre rimasto ai margini, come il baratro che rischia di aprirsi dinanzi all’Italia. Recalcati ci riflette da tempo: «viviamo una fase di evaporazione della politica per via da un lato della crisi economica e sociale portata dalla dimensione strutturalmente nichilista del capitalismo finanziario; dall’altro della retorica populista montante. In Italia, questa retorica è espressa da un lato dal populismo etnico di marca leghista, dall’altro dai grillini, che considero la faccia più pericolosa del populismo. Io parlo di un “fantasma incestuoso”, cioè dell’idea che l’unica forma di democrazia degna sia quella diretta. Il rifiuto di ogni mediazione istituzionale e la contrapposizione fra la purezza del popolo e la falsa rappresentanza politica, accompagnata dalla squalifica morale dell’avversario (non semplicemente delle sue tesi) ha generato un clima pesantissimo, tra odio, invidia sociale, giustizialismo». Provo a chiedere come allora uscirne: «Perché la politica ritrovi peso e resistenza è centrale la scommessa europea- Solo nella dimensione europea la politica può riuscire a governare la crisi. Per l’Italia l’Europa è un destino. Certo, vi è il rischio che essa appaia quasi come un corpo morto, che tutte le sue pratiche (l’Europa è essa stessa una pratica, un’esperienza politica) siano vissute come scorporate dagli interessi reali e concreti delle persone. Per questo ho parlato di fantasma incestuoso, perché come il bambino non vede altro che l’abbraccio della madre, così i populisti negano ogni dimensione diversa da quella più immediata e diretta».

Se questo è vero, quanto lontano dovrebbero essere da un viaggio così lungo, così complicato, con voci tanto diverse come quello che ci ha portato fin qui? Un filo di scetticismo mi attraversa: a che servono tutti questi ragionamenti? Chi è in grado di riprenderli e di costruirvi un futuro comune? Ma oltre lo scetticismo c’è per fortuna anche per me, domani, una giornata di mare.

(Il Mattino, 14 agosto 2017)

Recalcati, Renzi e PPP

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Telefono a Rocco Ronchi. Lo conosco da anni, forse mi fa velo l’amicizia ma lo considero tra i pochi che fanno oggi filosofia in Italia senza rinunciare a pensare, invece di rimasticare pensieri altrui. Il suo ultimo libro, «Canone minore», uscito poche settimane fa da Feltrinelli, è tra i libri più importanti dell’ultimo decennio (mi tengo basso). Lo chiamo però per chiedergli non di Platone, Bergson o Deleuze, ma per via del suo ultimo intervento, apparso sul sito online Doppiozero, in difesa di Massimo Recalcati. Psicanalista lacaniano ormai noto anche al grande pubblico, Recalcati ha avuto l’improntitudine di schierarsi al fianco di Renzi e del Pd durante le primarie; ha partecipato all’evento del Lingotto, ha accettato di dirigere la scuola di formazione del partito; l’ha infine intestata all’ultima, controversa icona laica della sinistra, Pier Paolo Pasolini. Apriti cielo! Sono fioccate le scomuniche, l’ultima delle quali ha avuto del clamoroso: a ripudiare Recalcati ci ha pensato infatti, intervistato da Il Fatto quotidiano, nientemeno che Jacques-Alain Miller, il patrono di tutti o quasi i lacaniani del mondo, che ha dipinto Recalcati come una sorta di malefico Rasputin.

Ronchi è in treno. La conversazione procede tra continui salti di linea, che si traducono in pause di riflessione. Ma provo ugualmente a chiedergli perché un risentimento così diffuso: è una disputa che riguarda l’eredità della psicanalisi, si tratta solo dell’invidia per l’intellettuale di successo?

Il successo di Recalcati non è un successo puramente mediatico, ma si innesta su un bisogno condiviso: quello di comprendere la “mutazione antropologica” – ancora in corso – di cui il berlusconismo è stata la più compiuta espressione. Utilizzando uno dei più sofisticati modelli concettuali, la psicoanalisi lacaniana, Recalcati ha elaborato una diagnosi del nostro presente storico. Si può non essere d’accordo con lui – io, ad esempio, non lo sono – ma si deve comunque riconoscere che Recalcati non ha mai evaso la sua responsabilità di intellettuale. Recalcati ha preso posizione e ha trovato udienza. Il suo successo è, quindi, il successo di una proposta teorica. Il presenzialismo non c’entra. E il successo, anche e soprattutto teorico, dà fastidio. Meglio, perciò, attribuirne le ragioni ai media e alla dabbenaggine del pubblico.

Quello che più mi ha colpito nel tuo articolo su Doppiozero è la descrizione di come funziona il significante “Renzi”, sentina di ogni risentimento. Da cosa dipende secondo te un simile atteggiamento? È questione politica, storica, antropologica? È questione tipicamente italiana?

Io tratto Renzi come un significante. Non mi interessa la verità su Renzi, ma gli effetti di senso che produce nel discorso pubblico. E tra questi, il fastidio è senza dubbio quello più eclatante. Presso un certo mondo intellettuale di sinistra (dunque in quasi tutta la sinistra), esso sfocia addirittura nella ripulsa. Quando ci si ritrova a conversare ai margini di un convegno o nei corridoi dell’università l’antirenzismo è dato per scontato, ritenuto perfino troppo ovvio per poter essere ribadito. Fascisti e razzisti godono di migliore trattamento. Perché? Che cosa disturba e spaventa a tal punto la sinistra e gli intellettuali (che sono la stessa cosa)? La risposta che mi do, ben conscio di scontare un profondo isolamento, è che il significante “Renzi” (che si associa automaticamente ai significanti “riforma”, “governo”, “potere”) stana la sinistra intellettuale dall’angolino appartato in cui si è confinata per condurre un’esistenza comoda all’insegna del primato della morale e dell’indignazione nei confronti dei “mali del mondo”. Il cantuccio, però, si trasforma in un luogo privilegiato quando coincide, com’è il caso della sinistra, con la sede centrale della buona coscienza che gode del monopolio delle cause “buone e giuste”. Ecco: il significante “Renzi” è insopportabile perché disturba il sonno della sinistra, il suo compiaciuto considerarsi “l’angolino pulito del mondo”.

C’è un altro aspetto che mi pare torni in questa querelle, e riguarda la potenza (o l’impotenza?) nello spazio pubblico del sentimento di indignazione, la cui titolarità sembra appartenere in via esclusiva a una certa tribuna intellettuale, quella che sta – come dici tu – nell’angolino. A me i suoi effetti sono sempre sembrati puramente reattivi. Ti domando: si può costruire un progetto politico collettivo fondandolo sull’indignazione?

L’indignazione è un sentimento reazionario. Non solamente pre-politico ma decisamente anti-politico. L’indignato parla in nome del bene violato. La purezza è il suo vessillo. L’impurità sta tutta dalla parte dell’altro, senza mediazioni né sfumature. Bisogna diffidare a priori di qualsiasi movimento sociale che abbia il suo collante nell’indignazione, così come bisogna diffidare a priori, nelle relazioni personali, di qualsiasi individuo che sia privo del senso dell’umorismo. L’umorismo è il rovescio dell’indignazione o, se si vuole, è l’indignazione politicamente educata e fattasi tollerante.

Mi pare di capire che tu trai motivo per una diagnosi più generale sulla cultura contemporanea. Puoi indicarci quali sono i tratti che secondo te l’affaire mette in luce, quali nodi vengono al pettine. C’è forse bisogno di rottamare anche pezzi se non della cultura, delle istituzioni culturali del nostro Paese? (Il termine “rottamazione” è mal scelto, anche per Recalcati. Allora diciamo: bisogna tornare a filosofare col martello?).

Filosofare col martello significa filosofare in modo efficace e restituire alla cultura (che, nella sua radice, è filosofia e solo filosofia) una potenza reale. L’impotenza – o come più dottamente si dice “l’inoperosità” – è, invece, il liquido amniotico in cui galleggia l’intellettuale moderno. Come dice sempre Nietzsche «i moderni ne sanno troppo per poter agire». Soprattutto ne sanno troppo su se stessi. Le sole ragioni che l’intellettuale moderno sa esibire sono, infatti, ragioni per non agire. Di qui l’indignazione che solitamente prova nei confronti di qualsiasi azione e che, contrariamente a quanto si crede, non è diretta al suo contenuto quanto, piuttosto, alla sua “semplice” forma (ecco perché il significante “Renzi” produce effetti così negativi). Per l’intellettuale moderno agire è il male. Non agire è il bene. Il problema più grave è, però, che molto spesso si confonde l’inoperosità col giudizio critico e si eleva quest’ultimo a criterio normativo cui conformarsi e con cui passare al vaglio il resto del mondo il quale, nella misura in cui agisce e non può non agire, è condannabile e condannato. A salvarsi è infatti sempre e solo chi giudica perché solo chi giudica fa il “bene”.

Posso chiederti se c’è però anche qualcosa, nella linea che Recalcati ha indicato nei suoi libri (da «Cosa resta del padre?» in poi) su cui ti sentiresti di aprire a tua volta un confronto con la sua interpretazione di Lacan?

La lettura che Recalcati offre di Lacan è una lettura esistenzialista e cristiana di stampo levinassiano. Nelle sue mani il volto di Lacan si confonde con quello di Levinas perché il desiderio lacaniano, nell’interpretazione che ne dà Recalcati, assomiglia molto al desiderio che, secondo il filosofo francese, struttura l’esperienza: desiderio dell’infinitamente Altro, vertiginosa trascendenza. Lettura affascinante. ma molto distante dal mio pensiero e dal mio modo di intendere Lacan, modo che, per certi versi, è più prossimo a quello del maestro-nemico di Recalcati: Jaques Alain Miller. Per me Lacan è un filosofo dell’immanenza assoluta, un pensatore radicalmente monista che rifiuta il primato dell’uomo in tutte le sue forme. Là dove Recalcati vede un’etica io vedo, infatti, una filosofia della natura.

Un altro punto su cui ti soffermi nel tuo articolo è la figura di Pasolini, al quale Recalcati ha deciso di dedicare la scuola del Pd. Non si tratta ovviamente di arruolare Pasolini, ma le critiche dell’ultimo Pasolini all’istituzione scolastica a me sembrano poco compatibili con una simile scelta. Senza dire della sua profonda distanza dall’imperativo ‘progressista’, di modernizzazione, che sembra appartenere all’identità del partito democratico, non certo a Pasolini…

Non è solo per la sua critica dell’istituzione scolastica (una critica, invero, banale e non originale: Ivan Illich aveva detto meglio) che mi sembra insensato battezzare con il nome di Pasolini una scuola di partito. Tutto Pasolini, e in particolare il Pasolini “corsaro”, è in contraddizione con un progetto politico riformista e pragmatico. La critica pasoliniana della modernità è senza scampo; la sua opzione reazionaria è definitiva. Il suo populismo estetizzante e demagogico ne fa, semmai, una buona bandiera per i tanti movimenti identitari che fioriscono nel mondo. Niente a che fare, insomma, con un significante, come quello di “Renzi”, che, nei suoi effetti di senso, si lega, nel bene e nel male, a quelli di “cambiamento”, “sperimentazione” e “progresso”. Perciò chi vede nella scelta di dedicargli una scuola di partito il tentativo di stravolgerne la “genuina natura eretica” si sbaglia. È piuttosto vero il contrario: quella scelta fa di un intellettuale organico, campione della tradizione (soprattutto immaginaria), il titolare di un progetto modernista ed eretico (per la storia italiana).

Il tuo ultimo libro «Il canone minore» ha in realtà un’enorme ambizione, che è quella di tirar via il discorso filosofico dalle secche in cui si è cacciato: senza più pretese speculative, la filosofia è divenuta solo una voce nella conversazione dell’umanità, come diceva Richard Rorty. Ma è ancora possibile coltivare quelle pretese? Come oltrepassare l’orizzonte del relativismo contemporaneo?

Dici bene. L’ambizione è enorme e non è detto che le mie forze ne siano all’altezza, ma sono certo che l’obiettivo è quello giusto. La filosofia che mi ha cresciuto, in tutte le sue declinazioni (dall’ermeneutica al pensiero debole, dal decostruzionismo alla filosofia analitica) si fondava sulla persuasione che la filosofia fosse impossibile. Braccandosi furiosamente, procedeva a “smascheramenti” sempre più radicali e, sottoposta a questa sfinente autocritica, la filosofia è diventata solo un “gioco linguistico” tra gli altri. Un filosofo moderno, si diceva, è colui che sospende e relativizza il progetto imperialista dell’Occidente mostrandone la natura di “favola”. Non è allora un caso se la fine del secolo scorso ha visto trionfare, su scala planetaria, i gender e i cultural studies, veri eredi dell’autodissoluzione del filosofico. Il canone minore di cui parlo resiste a questo “destino” maggioritario e, tracciando nuovi sentieri speculativi nel contemporaneo, prova a schizzare un’altra storia. Una storia nuova, che accoglie però un’antica sfida, quella formulata da Platone nel «Parmenide»: provare a delineare le condizioni alle quali la filosofia possa finalmente cominciare.

(Il Mattino, 11 giugno 2017)

Quell’Italia che torna alla prima Repubblica

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Due referendum sul jobs act: uno per cancellare lo strumento dei voucher, l’altro per tornare a far valere l’art. 18 per le imprese con più di cinque dipendenti. E poi un terzo referendum sulla materia degli appalti pubblici, e i diritti dei lavoratori delle imprese subappaltatrici. La raccolta, partita per iniziativa della Cgil, è arrivata alla bella cifra di 3,3 milioni di firme. Ora, con la decisione dell’Ufficio centrale, ha il bollino della Cassazione. Firme certificate, quorum raggiunto, richiesta di referendum valida. Se la Corte Costituzionale dovesse considerare i quesiti ammissibili, gli italiani potrebbero tornare al voto già nella prossima primavera, sempre che non ci tornino per la fine anticipata della legislatura. Ma, in un caso o nell’altro, quel popolo di navigatori (santi, eroi) che è il popolo italiano potrà, come Ulisse, vedere finalmente la costa del ritorno in patria. Cioè nei più confortevoli paesaggi della prima Repubblica: con la legge elettorale proporzionale, lo Statuto dei lavoratori, la partitocrazia, Pippo Baudo appena riapparso in TV e tutto quanto il resto.

Come dargli torto? La prima Repubblica ha portato l’Italia dalle macerie della seconda guerra mondiale fin nell’esclusivo club del G7, cioè delle sette maggiori potenze economiche del mondo, mentre la seconda non ha smesso di perderne, di posizioni. È vero, la prima Repubblica cambiava governi più frequentemente del cambio di stagione, mentre la seconda ha provato ad allungarne un po’ le opere e i giorni. Ma nella prima, se è vero che i governi si davano il cambio, i parlamentari però rimanevano dov’erano; nella seconda, il prezzo della stabilità è stato invece pagato ogni volta con la più ampia transumanza parlamentare che la storia ricordi, roba dinanzi alla quale cedono il passo anche gli inventori e primi interpreti del trasformismo, al tempo del fu Regno d’Italia.

Perciò: meglio tornare. La seconda Repubblica apparirà come una rischiosa avventura in terre incognite, per le quali in un momento di sbandamento l’Italia si è inopinatamente spinta: crolla il muro di Berlino, finisce la guerra fredda, franano i partiti, scompare la DC e il PCI cambia nome, ci sta che si perda la bussola per qualche lustro. Del resto, tutto quel gran parlare di fine delle ideologie e di postmodernità, in un Paese che non aveva ancora ben digerito neppure la modernità, non può non aver contribuito a creare un artificiale clima di confusione. All’inizio forse di euforia, ma alla fine sicuramente di smarrimento.

Perciò: meglio tornare. Meglio vedere Heather Parisi e Lorella Cuccarini di nuovo in televisione. Meglio seguire le piste dei Pooh, che vanno in concerto un’ultima volta. Meglio metter su un disco in vinile, che vende di più e la musica si ascolta pure meglio. Meglio Rischiatutto e Bim Bum Bam, con i cartoni animati degli anni Ottanta: Lady Oscar, Mimì e la nazionale di pallavolo, i Puffi e Candy Candy. Se poi anche la moda ci dà una mano, tornando ancora più indietro, agli anni Settanta, con le prossime collezioni a colpi di camicie floreali e jeans ricamati, allora è fatta, allora forse potremo guardarci attorno e pensare che siamo di nuovo a casa. Altro che Telemaco che va per mare alla ricerca del padre: Pinocchio è tornato, Gian Burrasca è tornato. Che se poi in tasca avessimo pure la vecchia lira, e non l’odiato euro, allora veramente potremmo riavere indietro anche il resto, chissà: forse persino un baby-boom in stile anni Sessanta, invece di ritrovarci tra i piedi tutti questi sgradevolissimi immigrati.

Si dice che il dentifricio non lo puoi rimettere nel tubetto una volta uscito. Ma è la seconda Repubblica che ha tentato l’impresa impossibile di rimettercelo: noi rivogliamo direttamente il tubetto. E naturalmente rivogliamo Pippo Baudo. E Berlusconi che torna a far televisione, e da quest’altra parte rivogliamo Enrico Berlinguer.

Ora, non è che l’iniziativa della CGIL non sia una cosa seria. Lo è, e pone anzi a tema non solo il jobs act, ma l’intero complesso della legislazione sul lavoro come è venuta cambiando negli ultimi venti anni, dal pacchetto Treu a venir giù, fino agli ultimi interventi del governo Renzi. Altrettanto serio è il nodo della legge elettorale, per risolvere il quale ci si sta sempre più orientando in direzione di uno schema di carattere proporzionale che pare rinverdire i fasti della prima Repubblica.

Ma per ogni storia c’è forse una storia parallela, proprio come per ogni libro c’è un libro parallelo. Giorgio Manganelli rivelò il trauma intellettuale che l’epilogo di Pinocchio procura al lettore, con quel burattino che alla fine diventa buono e ubbidiente come tutti gli altri. E si inventò un’altra storia. Ecco: non vorremmo che questa idea di ritrovare la strada di casa riservi anche a noi, prima o poi, un qualche indesiderato impatto traumatico, e che l’Italia finisca da tutt’altra parte.

(Il Mattino, 11 dicembre 2016)