La delusione che Biagio De Giovanni ha espresso ieri sulle pagine del Corriere del Mezzogiorno è qualcosa di più di un sentimento personale. Cade peraltro nello stesso giorno in cui Raffaele Cantone dichiara che andrà al voto, ma – aggiunge – «non sarà un piacere»: la delusione, dunque, in certo modo riguarda anche lui. Ma delusi per chi o per cosa? Nel caso di De Giovanni, il motivo di delusione è Renzi. Che a livello nazionale lascia sperare in una politica davvero rinnovata, mentre a livello locale, «nelle periferie dell’impero, torna a macinare nei vecchi mulini». Il vecchio mulino da macina è, nella circostanza, il sindaco di Salerno De Luca, che Matteo Renzi, da segretario del Pd, non ha rinunciato a sostenere nella campagna elettorale in corso.
Ora, non c’è riga del filosofo De Giovanni – dico nei suoi libri, non solo nei suoi articoli – che non dia modo di ricavare una severa (e alta, mai cinica o meschina) lezione di realismo: perché dunque questa volta si mette nei panni più volubili di un filosofo «con la testa fra le nuvole», quando invece l’ha sempre tenuta ben dentro i tornanti della storia, secondo la lezione dei suoi maggiori, di Vico o di Hegel? Perché, spiega, una forte discontinuità era da augurarsi anche in Campania: non per semplice ingenuità, ma per necessità politica. La regione, infatti, ha più che mai bisogno di energie nuove, fresche, e invece si ritrova con volti vecchi e, qualche volta, impresentabili.
C’è del vero, naturalmente, in questo argomento. Il Mezzogiorno ha un problema di classe dirigente che non ha sin qui saputo risolvere, e che si ripropone anche in queste elezioni: per esempio, nella formazione delle liste. Ma c’è anche, nella delusione di De Giovanni, una lampante sottovalutazione del dato di fondo di questa tornata elettorale: al confronto vanno non due vecchi leoni della politica locale ma due esperienze amministrative, e su queste è richiesto il giudizio degli elettori. Caldoro chiede di essere confermato alla guida della regione in nome del risanamento dei conti, e del disastro sui rifiuti su cui si infranse la precedente stagione di governo del centrosinistra. De Luca, invece, porta con sé gli anni trascorsi alla guida di Salerno, più di venti, come prova delle sue capacità di amministratore: è poco? È molto? Vedremo. Ma c’è un pizzico di vaghezza nell’immaginare che lo schema renziano della rottamazione, con tutto l’afflato per il nuovo che comporta, possa essere replicato tal quale a Palazzo Santa Lucia come a Palazzo Chigi, indipendentemente dai percorsi politici territoriali, dal contesto sociale, dalla condizione dei partiti regionali.
Renzi ha approfittato con grande scaltrezza del logoramento di una generazione intera di dirigenti democratici, già sperimentatisi al governo, e sostanzialmente bocciati nel voto elettorale del 2013. Invece, né De Luca né Caldoro hanno ancora subito un giudizio simile. Anzi: entrambi rivendicano per sé stessi un successo. Naturalmente si può dare un giudizio negativo sulle loro prove: si può imputare a Caldoro incapacità di produrre idee, visioni per lo sviluppo della regione, e non solo una manutenzione prudente dei conti pubblici. E, allo stesso modo, si può apprezzare poco il tratto decisamente sbrigativo di De Luca, e riconoscervi solo l’antico vizio notabilare della politica meridionale. Ma nell’uno e nell’altro caso bisogna comunque passare attraverso la fisiologia dei processi politici democratici – la loro maturazione, l’aprirsi e l’esaurirsi dei loro cicli – e non pretendere di sostituire ad essi un astratto dover essere, e il rimpianto per quel che doveva essere e, purtroppo, non è stato.
C’è di più: a Napoli i principali partiti politici nazionali sono già franati una volta: nel 2011, quando Luigi De Magistris vinse le elezioni municipali approfittando del naufragio delle primarie democratiche e dell’impreparazione del centrodestra. La rottura, dunque, c’è stata, la rottamazione pure: quale bilancio però ne dobbiamo trarre? Ieri il sindaco di Napoli esultava alla notizia del voto spagnolo per Podemos: ecco altri che finalmente hanno scassato, proprio come lui. E però De Magistris è al governo ormai da quattro anni: forse dovrebbe trovarsi un’altra parte in commedia.
Ma forse, più in generale e più realisticamente, la politica non è palingenesi, ma una costruzione molto più faticosa e contraddittoria di quanto ci si possa augurare. E neanche a un leader come Renzi può riuscire di semplificarla del tutto. O di distribuire tutte le carte e giocare tutte le partite: qualcuna toccherà pure ai cittadini elettori, di giocarla.
(Il Mattino – ed. Napoli, 27 maggio 2015)