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Andare oltre l’ondata moralistica

Acquisizione a schermo intero 23052015 131949.bmpI luoghi, i gesti, le strette di mano. A otto giorni dal voto, la contemporanea presenza di Matteo Renzi e Silvio Berlusconi in Campania, a sostegno dei rispettivi candidati, Vincenzo De Luca e Stefano Caldoro, viene seguita dall’opinione pubblica metro dopo metro, fotogramma dopo fotogramma. La politica è fatta di parole e di programmi, ma anche di volti, di presenze, di incontri, di sale gremite e di microfoni, visite e atti simbolici, dichiarazioni e silenzi. E, contrariamente a quel che si dice, lamentando la piega personalistica della politica contemporanea, i leader non calamitano l’attenzione solo su di loro, a detrimento di tutto il resto, ma contribuiscono anzi a restituire il senso di un confronto politico al voto di fine mese, fin qui oscurato dal rimpallo delle polemiche sugli impresentabili, sulla legge Severino e tutto il resto. Naturalmente il tema della moralità della politica esiste, così come d’altra parte esiste l’esigenza di misurare gli schieramenti in lizza sulla base dei programmi, e dell’idea complessiva di sviluppo della Regione che propongono.

Ma c’è anche una partita politica che il fuoco di sbarramento dell’indignazione ha finora impedito di delineare. Lo sanno molto bene sia Renzi che Berlusconi: su entrambi grava l’onere di comporre e unire le forze, contrastando le piccole e grandi tendenze centrifughe manifestatesi nei rispettivi schieramenti.

Berlusconi è più indietro: l’ultima diaspora degli uomini di Raffaele Fitto dimostra che il processo di ricomposizione, sia o non il Cavaliere a guidarlo a livello nazionale, non è ancora cominciato. Ma c’è una necessità di sistema alla quale prima o poi il centrodestra non potrà non corrispondere, perché la nuova legge elettorale, l’Italicum, assegna un premio di maggioranza al partito, non alla coalizione. E, dunque, in ordine sparso alle prossime politiche, con rimasugli e spezzoni, partitini e liste personali non potrà certo andare.

Ora, proprio in Campania il centrodestra mostra una compattezza che altrove non ha, a riprova del valore politico di questo voto. Con l’unica, in fondo marginale eccezione di De Mita, passato armi e bagagli con De Luca, Caldoro ha saputo tenere insieme la maggioranza che lo ha sostenuto in questi anni, compreso quel Nuovo Centrodestra che a Roma è invece alleato con Renzi: non era affatto scontato. Il progetto che il Cavaliere ha preso a coltivare, una sorta di partito repubblicano sul modello americano, qui trova subito una cartina di tornasole e una base di consenso piuttosto larga.

Quanto a Renzi, quel che è fatto finora mostra se non altro la sua determinazione nel costruire un partito dai connotati profondamente mutati. Altri lo chiamano partito della nazione, come se fosse soltanto un indistinto spazio onniaccogliente. In realtà Renzi ha semplicemente dimostrato di non temere l’opposizione che gli viene da sinistra, dall’interno e dall’esterno del Pd, e la piccola, modesta diaspora che il Pd sta subendo, priva com’è di di apprezzabili effetti politici, gli sta dando ragione. Ha fatto il jobs act, la legge elettorale e sta facendo la riforma della scuola: ha cioè manomesso la costituency tradizionale del partito di sinistra. Se, dopo tutto ciò, i sismografi registrano solo un Civati che se ne va, vuol dire proprio che non ha sbagliato i conti.

Da dove potrebbero venire allora le scosse maggiori? Dall’astensione, o dal risultato dei Cinquestelle. Cioè da quei comportamenti elettorali che traggono indubbio vantaggio dalla colorazione moralistica della campagna elettorale. È, questa, una mera constatazione politologica, che naturalmente non assolve nessuno dai suoi obblighi: dinanzi alla legge o dinanzi alla coscienza. Le liste dubbie, i candidati impresentabili, le ineleggibilità a norme di legge (a meno di ricorsi e sospensioni) non dovrebbero nemmeno essere della partita. Lo sono, e sollevano (un po’ ad arte, un po’ no) ondate di indignazione. Ma quando poi l’onda si ritira rimane il problema di ciò che lascia dopo il suo passaggio. Ieri Renzi ha affermato che non basta la repressione: la camorra la si combatte anzitutto con il lavoro. Affermazione sensata e del tutto condivisibile. Si può proporre allora una analogia, e chiedere con cosa si battono collusioni e connivenze della classe dirigente locale, se cioè non sia proprio la costruzione di un genuino terreno politico di confronto ad essere in ogni senso decisiva. Anche sul piano della moralità della politica. Ma allora, per sterrare il terreno, ci vuole molto di più della polemica sulle liste. Se Berlusconi e Renzi sono venuti per promuovere questo lavoro, allora sono entrambi i benvenuti.

(Il Mattino, 23 maggio 2015)

Caldoro –De Luca eterne promesse e vecchi insulti

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Un’altra volta tutti e cinque insieme. Stavolta però seduti, nel piccolo studio di Rai 3: Salvatore Vozza, Sinistra e Lavoro, sulla sinistra, con la spilletta al bavero della giacca; Marco Esposito, lista meridionalista MO!,  informale, col pullover  azzurro; Valeria Ciarambino, Cinquestelle, con lo sguardo sempre a metà tra il conduttore e la telecamera; poi De Luca rigido, occhi piccoli e dito steccato; infine Caldoro, attentissimo alla postura, al fianco di De Luca ma in realtà quasi in un’altra inquadratura, tanto i due si son tenuti distanti.

E si parte. Il confronto deve avvenire sui temi, e i temi ci sono tutti: sanità, trasporti, rifiuti, fondi europeiu. Forse, tenendosi a ridosso dei programmi, i due principali competitor possono sottrarsi al paradosso per cui in un caso o nell’altro i campani eleggeranno un’anatra zoppa: azzoppata dalla Severino e dalla freddezza del partito democratico, nel caso di De Luca; dallo sfarinamento politico del centrodestra nel caso di Caldoro.

Su tutti i capitoli del bilancio regionale, De Luca e Caldoro si scaldano un po’, scambiandosi la stessa accusa: dici fesserie. Per De Luca non s’è fatto nulla, Per Caldoro il possibile. Per De Luca Caldoro non può dare la colpa agli altri se il porto di Napoli non funziona, se le ecoballe sono ancora per terra, se le liste d’attesa  in sanità sono eterne; per Caldoro, De Luca dimentica come il centrosinistra ha lasciato la regione nel 2009: con l’immondizia che arrivava al terzo piano, senza treni regionali e con le voragini nel bilancio. Un rimpallo di responsabilità? Sì, ma è normale: siamo in campagna elettorale. Però rispetto al precedente confronto De Luca appare decisamente più aggressivo, più ringhioso: riesce persino a ripetere due o tre volte la parola che, è evidente, gli piace di più: «vergogna!», all’indirizzo dell’avversario politico. Caldoro, dal canto suo, è stato abile, almeno nell’intervento finale, a mettere in scena il pezzo che si era preparato: staccarsi dallo schienale della sedia, avvicinarsi convinto alla telecamera, pesare le parole e mettere sul piatto la bellezza di un miliardo di euro: 500 milioni per le imprese, 500 milioni per le famiglie povere. Come il Berlusconi d’altri tempi (o forse il Renzi di oggi). A quanti lo rimproverano di non aver detto nulla sul futuro della regione ha provato a rispondere così, con un bel gruzzolo, mentre De Luca nell’appello agli elettori sfoderava il suo antico cavallo di battaglia: la polemica sulla «palude burocratica della regione».

Gli altri però non hanno affatto giocato il ruolo da comprimari. Almeno non Marco Esposito e Valeria Ciarambino. Quanto a Salvatore Vozza , è stato l’unico a usare le parole: destra, sinistra, centrodestra, centrosinistra. Ma le usava in una chiave vetero-ideologica, quasi solo per certificare la propria esistenza in vita. Per la verità, Vozza ha provato pure qualche colpo ad effetto: tirando fuori l’abbonamento alla circumvesuviana, e proponendo di firmare subito, seduta stante, la proposta grillina che tutti dichiarano di condividere, sul reddito di cittadinanza. Ma quel che veramente Vozza aveva da dire (e ripeteva quasi ad ogni intervento) era solo che De Luca e Caldoro, Pd e centrodestra per lui pari sono. Un richiamo della foresta a tutti gli elettori di sinistra, smarriti a causa della mutazione renziana. E così da una parte c’era un po’ del vecchio vocabolario politico del Novecento, per racimolare un po’ di voti identitari; dall’altra parte si svolgeva, udite udite, il confronto programmatico vero e proprio.

Ma anche il fiume di parole di Valeria Ciarambino. A cui si deve la comparsa, per la prima volta in un appello agli elettori, dell’espressione «residuo vetrificato», pronunciata a una velocità tale che solo un orecchio ben allenato avrà potuto coglierla, collegandola in maniera pertinente a tutto il resto del discorso.  I comuni mortali no: avranno magari apprezzato la foga, ma capito molto poco. I Cinquestelle rimangono la terza forza, se non addirittura la seconda, del panorama politico nazionale, capace di attrarre i voti di tutti quelli che non sono soddisfatti (e sono molti) dell’offerta politica tradizionale. Ma quando non hanno modo di parlare di vitalizi e indennità da abolire, condannati e corrotti da cacciare, rivelano una preoccupante prossimità con il genere di discorso fondamentalista: che si tratti di rifiuti o di mammografie (come Grillo qualche giorno fa), sciorinano la stessa incrollabile certezza, la stessa inflessibile dottrinarietà. Con incidenti di percorso come quello che Marco Esposito, apparso di gran lunga il più preciso della compagnia, ha notato: il reddito di cittadinanza proposto dalla Ciarambino costerebbe venti volte quanto da lei dichiarato. Un’enormità. Ma poco importa: come dice Emmanuel Carrère nel suo ultimo libro sui primi cristiani, i grillini sono coloro che da duemila anni vomitano via dalla loro bocca i tiepidi, quelli che non sono né caldi né freddi (e magari fanno pure di calcolo).

A parte la precisazione – e qua e là Esposito ne ha fatte cadere anche altre: sui trasporti pubblici locali o sui progetti europei – al capofila di MO! va il merito di aver posto con forza un tema politico centrale, che capisce chiunque, al di là di bilanci e promesse: è vero o no che la Campania e il Mezzogiorno soffrono di scarsa attenzione (eufemismo) da parte del governo nazionale? È vero, e qua e là hanno provato a dirlo anche De Luca e Caldoro. Ma Esposito lo ha potuto dire chiaro e tondo, gli altri due solo tra le righe: Caldoro per distinguere le responsabilità proprie da quelle altrui, De Luca per cercare di riproporre la verve polemica che nel passato metteva, da Salerno, contro Napoli. Ma l’uno e l’altro non possono certo prendersela con Renzi ed il governo: De Luca perché Renzi è il segretario del suo partito, Caldoro perché ha appena ricevuto dal premier la patente di «persona seria», e difatti lo ha prontamente ricordato, cercando di approfittarne. E così uno dei temi più sentiti, potenzialmente più mobilitanti, uno di quei temi intorno a cui una regione come la Campania avrebbe motivo di far sentire la sua voce, almeno quanto la fanno sentire, tirando la corda dall’altro capo, il Veneto o la Lombardia, vive in questa campagna elettorale solo di striscio, grazie a una piccola lista che, pur con tutta la simpatia e benevolenza del mondo, difficilmente porterà il suo candidato governatore a Palazzo Santa Lucia.

Ma magari colui che invece ci andrà, tra De Luca e Caldoro, lo chiamerà benevolo alla sua destra: dopo tutto, anche un’anatra zoppa lo può fare.

(Il Mattino, 20 maggio 2015)

Gli outsider all’attacco

imageIn piedi, dinanzi a un podio, i candidati alla guida della Regione Campania sono riusciti a stare senza difficoltà dentro le regole del confronto televisivo. Ed è un punto di merito, che hanno segnato tutti e cinque. Suonava il gong, e loro si tacevano: disciplinatamente. Il conduttore, dal canto suo, ha guidato il confronto sui binari programmatici, tenendo aperti capitoli importanti: prima la disoccupazione, più avanti la sanità, quindi i trasporti e la Terra dei fuochi: ce n’è di che parlare. E a due settimane dal voto viene anche un po’ di rammarico perché la campagna elettorale avrebbe potuto davvero aiutare i cittadini a scegliere. Dopo la prima risposta, i cinque profili erano infatti già nettamente delineati: Salvatore Vozza, Sinistra e Lavoro, insisteva sulla disoccupazione giovanile; Valeria Ciarambino, dei Cinquestelle, reclamava il reddito di cittadinanza; Marco Esposito, lista meridionalista Mo!, lamentava l’enorme squilibrio nei progetti europei a favore del Nord; Caldoro parlava con enfasi dei cantieri aperti in questi cinque anni; De Luca batteva e ribatteva sulla sburocratizzazione. Poi è venuta la seconda, inevitabile domanda: la campagna avvelenata dalla polemica sugli impresentabili. Nessuno ha voluto far nomi, ma Esposito e Ciarambino l’hanno giocata tutta in attacco; Caldoro e De Luca in difesa (mentre Vozza, sciorinando i nomi dei presentabili, cioè dei suoi futuri assessori, s’è tirato fuori dalla mischia). Difficile dire quanta parte del voto si orienterà in base alla qualità delle liste, ai condannati e agli inquisiti, alla quota di trasformisti presenti nell’uno o nell’altro schieramento, ma nel dibattito, salvo Valeria Ciarambino, la più aggressiva, non c’era molta voglia di discutere di queste cose. Non è un caso che il maggior numero di repliche si è avuto su un tema di programma, i trasporti, con Caldoro che difendeva l’opera di risanamento e imputava ai tagli del governo le falle del sistema, e De Luca che invece addossava tutte le responsabilità all’amministrazione Caldoro.

Difficile dire chi ha vinto: di sicuro si sono delineati con chiarezza alcuni stili comunicativi. Ciarambino parlava a manetta, sciorinando indiscutibili certezze; Caldoro tirava fuori cartelli e dati ad ogni risposta, e cercava di ribadire così la sua immagine di affidabile uomo delle istituzioni; Marco Esposito, col pullover colorato, sceglievalo stile più informale, e soprattutto insisteva più di ogni altro sull’identità meridionalista della lista; Vozza aveva l’aria un po’ demodé, ma che voleva anche essere rassicurante, della sinistra tradizionale; De Luca si è tenuto invece parecchio lontano dal cliché del sindaco sceriffo, e molto lontano anche dalla imitazione che gli ha regalato Crozza: solo alla fine, sull’ultimo gong,  ha sfoderato il suo piglio decisionista.

Poi il conduttore si è preso la libertà di chiedere a Caldoro e De Luca, che nella scenografia dello studio si sono trovati dalla stessa parte, di guardarsi una buona volta. E i due si sono voltati. Fino a quel momento, non si erano rivolti un solo sguardo. Nulla di personale, ovviamente: ma non v’è dubbio che i due erano i più ingessati, forse perché sono entrambi quelli che più hanno da perdere dalla sfida. Per entrambi si tratta di una partita decisiva: o la polvere o gli altari. Per De Luca è l’ultimo assalto ad un palcoscenico diverso da quello locale, e probabilmente morde il freno per gli ostacoli che gli sono stati buttati nel corso di questa campagna elettorale, dalla legge Severino all’intervista a Saviano. Che qualcosa non gli sia andata per il verso giusto lo dimostra anche il fatto che la Ciarambino, che pure guida una lista anti-sistema, ha polemizzato molto più con lui che con Caldoro. Quanto a quest’ultimo, governatore in carica, è l’ultimo punto di coagulo del centrodestra nel Mezzogiorno: sa bene che senza un risultato positivo il processo di frantumazione proseguirà, e sarà molto difficile immaginarsi, nel breve periodo, linee di ricostruzione di una proposta politica.

Poi sono venuti gli appelli finali. Chissà a cosa servono. Chissà se esiste un elettore al mondo che cambia al voto sulla base delle poche parole che i candidati rivolgono agli elettori in quei pochi secondi finali. Quelli di Sky ci hanno provato in realtà due volte: la prima, quando hanno chiesto a tutti i candidati di rivolgersi a Gomorra senza abbassare lo sguardo; la seconda, appunto, con gli appelli finali. Ma se è lecito interrompere la cronaca, la battuta più felice l’ha avuta, con gli occhi alla telecamera, Marco Esposito, che citando Luciano De Crescenzo, in “Così parlò Bellavista”, ha detto quello che tutti pensiamo dei camorristi: che fanno una vita di merda. È pure ora, però, che i cittadini campani facciano una vita migliore.

(Il Mattino, 18 maggio 2015)