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Quel che manca è una vera proposta politica

elezioni

Ma l’avete mai fatta una campagna elettorale? Marco Tullio Cicerone, a suo tempo, la fece. E si conserva la lettera che Quinto Tullio, suo fratello, gli scrisse per consigliargli il modo di ingraziarsi gli amici e procacciarsi i voti. La lettera risale, a quanto ci dicono gli studiosi, al 64 a.C: la bellezza di duemilasettantanove anni fa, se non ho fatto male i conti. Beh: andatevelo a leggere. Le circostanze storiche e politiche generali erano a quel tempo un po’ diverse da ora, ma si votava anche allora, eppure i consigli di Quinto temo funzionerebbero benissimo anche oggi. Basti solo questo piccolo inciso, che si trova nell’epistola: «di questi comportamenti [non importa quali] il primo è tipico dell’uomo onesto, il secondo del buon candidato». Non serve commento.

Orbene, che lezione vogliamo trarre, a proposito della campagna elettorale che si sta svolgendo sotto i nostri occhi, della formazione delle liste, dei comizi e delle strette di mano? Forse nessuna. O forse questa, che siccome il suffragio l’abbiamo dai tempi di Quinto e Marco reso (faticosamente) universale e non lo possiamo certo abolire, i «petitores» (così si chiamavano i candidati: quelli che ti chiedono il voto) si troveranno immancabilmente di fronte al dilemma di Quinto: vedi tu se vuoi essere solo un uomo onesto, o piuttosto un buon candidato. Se è così, c’è purtroppo ben poco da sperare dal candidato, e molto più dal contesto in cui è chiamato ad operare, e dunque dal numero di volte in cui si presenterà innanzi a lui il fatidico dilemma.

Questo contesto è fatto di tre cose: di leggi, di partiti, di opinione pubblica e società civile, cioè del corpo elettorale. Ieri su questo giornale Raffaele Cantone si è preoccupato anzitutto di chiedere leggi più severe: nuovi interventi normativi, rafforzamento delle misure attualmente in vigore.  Che il tema ci sia, come ha detto Saviano e come ha ripetuto Cantone, è assolutamente indubbio. C’è a tal punto che quasi non si parla d’altro. In particolare, non si parla di programmi, ma in verità i sondaggisti assicurano che gli elettori non votano certo in base ai programmi, e temo che la pensassero così anche i fratelli Cicerone, pur senza disporre dei sondaggi d’opinione.

Poi però ci sono i partiti. E qui la prospettiva deve essere, io credo, un po’ diversa. Non può bastare cioè l’appello ai codici etici. Non però perché questi codici siano solo carta straccia, o peggio una foglia di fico, buona solo per brillanti esercizi di ipocrisia; ma perché non s’è mai visto un partito che ripulisce le liste a colpi di applicazioni del codice etico, e non lo si vedrebbe neanche se li si trasformasse in più vincolanti norme statutarie, come Cantone propone. Se un partito non ha la forza di buttare fuori qualcuno per indegnità, difficile che gliela dia il codice di autoregolamentazione. È la stessa differenza che passa tra un leader di partito e gli oscuri (nel senso che nessuno li conosce) probi viri: non si può certo lasciare a questi ultimi il peso di decisioni, che competono a candidati e segretari. I quali mettono la loro firma sotto le candidature e si assumono così la responsabilità politica della scelta. E il punto diviene allora se e innanzi a cosa essi rispondono effettivamente.

Arriviamo così all’ultimo pezzo del problema: l’elettorato. L’elettorato, certo, non lo si può cambiare, come invece si possono cambiare i candidati: è comprensibile perciò che si chieda di agire sulla selezione di questi ultimi, e che ci si rammarichi di scelte discutibili, a tal punto che in questi giorni è lo stesso candidato governatore, De Luca, che finisce con l’ammettere qualche imbarazzo. Ma alla fine tocca all’elettore. Certo, non si fa una bella figura ad appellarsi all’elettore solo per lavarsene pilatescamente le mani. Purtuttavia, ripetiamolo: alla fine è all’elettore che tocca la scelta.

Così torniamo al dilemma di prima, più crudamente di prima: se un buon candidato non è necessariamente, almeno per Quinto Tullio Cicerone, una persona onesta, è perché l’elettore non sa che farsene di una persona onesta. Una simile proposizione è certo inaccettabile, e bisogna confutarla. E tuttavia la confutazione non è una roba che si possa affidare semplicemente al ragionamento, come se ci fossimo imbrogliati da qualche parte: sul piano del ragionamento, anzi, lo spazio per una smentita è molto piccolo. Dobbiamo invece e necessariamente affidarlo alla politica, e ai comportamenti effettivi. Forse è un problema culturale, e forse è più ampiamente ancora un problema sociale: poiché ci vuole una diversa coscienza politica ma anche una diversa struttura di interessi economici che debbono trovare il modo di convergere su una proposta politica di altra qualità. Ma allora non esistono scorciatoie, e quel che è da fare è costruire proposte politiche, non scomuniche morali.

(Il Mattino, 11 maggio 2015)

S'allarga il solco partito-cacicchi

A guardare le vicende che in questi giorni scuotono il PD un elemento emerge con sempre maggiore chiarezza: le dimissioni del sindaco bolognese Delbono, la schiacciante vittoria di Vendola nelle primarie pugliesi, le difficoltà ad individuare candidati condivisi in regioni nelle quali il centrosinistra è al governo (la Calabria) spesso anche da molti anni (l’Umbria, la Campania), la necessità di affidarsi a personalità esterne al PD (Emma Bonino nel Lazio), tutto questo mostra che qualcosa, nel rapporto fra il partito e gli amministratori locali, non funziona più.
Non è una novità di queste settimane, perché data anzi da molti anni: almeno da quando si è cominciato a modificare le leggi elettorali, e cioè dall’elezione diretta dei sindaci in poi. E tuttavia, poiché la partita in Puglia è stata giocata in proiezione nazionale, come banco di prova di quell’allargamento al centro che dovrebbe perfezionarsi in vista delle elezioni politiche, rischia di non essere abbastanza osservato il dato, assai preoccupante, che il partito democratico, e più in generale il centrosinistra, non sa più bene come regolarsi con gli amministratori che provengono dalle sue stesse file. Un punto di forza è divenuto un punto di debolezza; soprattutto al Sud, terra di cacicchi.
In alcuni casi, il centrosinistra si avvicina alle elezioni con l’intenzione di dare all’opinione pubblica il segno di una novità, ma allora accade che gli amministratori uscenti non ne vogliano sapere di passare la mano (più benevolmente: chiedono di essere giudicati dall’elettorato). In altri, la novità è proposta esplicitamente come elemento di rottura rispetto al quadro logoro dei partiti, che viene per ciò stesso declassato a "teatrino della politica", per dirla in linguaggio berlusconiano: e non è un caso se per i Vendola in Puglia e i De Luca in Campania si cercano paragoni con figure e modelli presenti già nel centrodestra. Infine, anche quando gli uscenti hanno titoli di buon governo da esibire, si trovano pezzi di partito non disposti a seguirli, pronti a saltare sul treno delle primarie pur di mettere il bastone fra le ruote. E così vanno le cose: dai consigli comunali alle assemblee regionali, dai sindaci ai governatori, l’impressione è che rischi di venir meno il collante che tiene insieme le diverse anime del PD.
Non si tratta però del fatto che il PD non sa ancora bene come selezionare le candidature, sicché se le vede dopo qualche anno (o addirittura qualche mese: vedi Bologna, che, ricordiamolo, ha scelto Delbono con il metodo delle primarie) ritornare addosso come un boomerang. In realtà, è evidente che fino a quando le primarie rimarranno nello statuto del partito, qualunque altro metodo di selezione apparirà meno democratico rispetto alla chiamata alle urne, e si potrà sempre trovare lo scontento di turno che a torto o a ragione, per personale tornaconto o per intima convinzione, accuserà il partito di ricorrere a metodi poco trasparenti, ad accordi di potere, a spartizioni di poltrone, a scelte calate dall’alto, e via elencando tutto il vocabolario di questi ultimi quindici anni di contestazione a volte anche virulenta della stessa pratica della politica. Come la metteva Celentano: le primarie sono rock, tutto il resto è inesorabilmente lento. Ma per l’appunto non si tratta di questo, che è piuttosto l’effetto, e non la causa di una debolezza di fondo dei partiti. Per la quale dovrebbe farsi valere l’altro pezzo della piattaforma congressuale di Bersani, tanto urgente e essenziale alla sua leadership quanto l’accordo al centro. E cioè la bocciofila. Bersani ha vinto il congresso chiedendo che il suo partito avesse quel minimo di disciplina che consente a una bocciofila di funzionare. Ora, a parte il fatto che i presidenti delle bocciofile non sono eletti con le primarie, ma è chiaro che è proprio nel rapporto con gli amministratori il punto dolente, perché sono anzitutto gli eletti, nel deserto di cultura politica di questi anni, a non capire più perché mai dovrebbero rispondere a una rissosa assemblea di partito piuttosto che al più vasto popolo delle primarie.
E così il partito democratico le affronta: con rassegnazione o entusiasmo, ma sempre senza rendersi conto che primarie vuol dire contendibilità, e che dunque la prima cosa che occorre per sostenerne l’urto è un partito più forte e più radicato degli stessi contendenti, altrimenti al termine della contesa il partito rischierà di non ritrovarsi mai dalla parte del vincitore, ma casomai del cacicco o del rocker di turno.