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Se le regole non bastano

ImmagineNihil sub sole novi. Altro che novità, discontinuità, rottamazione: non c’è niente di nuovo sotto il sole. Un sistema definitivo per tenere imbroglioni e furbastri fuori dai partiti purtroppo non è stato ancora inventato, e si vede. In verità, il regolamento del Pd, che si accinge a celebrare il congresso, ha tutte le cose a posto: i garanti, gli organi di controllo, l’anagrafe degli iscritti, le procedure per i ricorsi e così via. Ma ovviamente non basta, se i candidati si combattono a colpi di pacchetti di tessere. La commissione nazionale per il congresso, con delibera n. 19 dello scorso 10 ottobre, ha fissato i requisiti per il tesseramento: l’iscrizione è individuale, sono esclusi dall’Anagrafe degli iscritti gli appartenenti ad altri movimenti politici, chi partecipa al voto sottoscrive una impegnativa dichiarazione di sostegno al partito democratico. Ma è come svuotare il mare con il secchiello: in omaggio ad una retorica irresistibile che chiede alle organizzazioni di partito, e solo a quelle, di scegliere i propri leader non solo tra i propri iscritti ma anche tra gli aderenti dell’ultimora, le primarie sono aperte ed esposte ad ogni vento. Ed anche, naturalmente, ad ogni colpo basso. Se ne sono avuti esempi, e ancora se ne avranno. A Napoli come nel resto del Paese.

La risposta standard a questo tipo di preoccupazioni nel partito democratico è: noi almeno il congresso lo celebriamo. Noi almeno siamo un partito, non una formazione personale o padronale, non un movimento carismatico, non un raggruppamento estemporaneo. Perciò vigileremo, cercheremo di evitare ogni inquinamento, ma il percorso congressuale deciso resta il più democratico e inclusivo.

Sarà, ma non basta. Non si tratta infatti di regole e formalità da rispettare, ma di funzione e identità da recuperare: quello che i partiti hanno smarrito nel progressivo smottamento della seconda Repubblica, complici anche pessime leggi elettorali, e che stentano drammaticamente a ritrovare. Due anni fa Michael Moore dedicò un film al fascino esercitato sui migliori cervelli di un’intera generazione dalla ricerca di sempre più sofisticati algoritmi finanziari. Di recente, uno dei più grandi intellettuali viventi, George Steiner, ha posto la medesima questione: quale futuro stiamo disegnando, se le menti giovani più brillanti sono attratte non dalle istituzioni politiche di un paese, ma solo dalle sue architetture finanziarie. Di questo infatti si tratta: di come portare intelligenze nuove alla guida del Paese, di come formare una nuova classe dirigente. Non sarà naturalmente il congresso del Pd a invertire l’allarmante tendenza denunciata da Moore e Steiner. Ma se i partiti rinunciano al compito di selezionare funzionari e dirigenti all’altezza, se perdono ogni capacità di visione dedicandosi soltanto al rastrellamento di pacchetti di tessere, se rinunciano alle idee, se si mutano in agenzie di collocamento per aspiranti amministratori, se consentono i più spericolati gattopardismi e ripropongono i più impresentabili notabilati, allora i numeri gonfiati del tesseramento potranno anche essere combattuti a colpi di carte bollate, ma metteranno comunque piombo nel corpo del Pd. E a quello napoletano non basterà certo un quesito referendario per restituirgli il colpo d’ala.

(Il Mattino, 24 ottobre 2013)

Il segno di una doppia debolezza

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Non una soltanto, ma due elezioni primarie: il Pd deve essere in crisi di identità. Bella scoperta, si dirà. Ma il fatto è che questa volta non si tratta di una constatazione, ma di una dimostrazione. Più correttamente di un ragionamento di natura squisitamente abduttiva (i dirigenti democratici non lo sanno, ma ogni tanto abducono). Il ragionamento è il seguente. In primo luogo, il partito democratico ha nello strumento delle primarie un tratto irrinunciabile della propria identità politico-culturale e della propria fisionomia organizzativa. Così lo ha immaginato il suo primo segretario, Veltroni, e così è stato, dal 2007 ad oggi, passando per Franceschini e Bersani e un paio di elezioni politiche generali. Ora però si scopre che all’attuale segretario, Guglielmo Epifani, un solo turno di primarie non basta: ce ne vuole uno per eleggere il segretario, ristretto, e un altro dopo per scegliere il candidato premier, aperto. Se Bersani poteva dire, nella precedente campagna elettorale, che per lui contavano le secondarie, cioè le elezioni politiche vere e proprie, per Epifani le secondarie si allontanano, e le elezioni vengono ormai per terze. Abduciamo, dunque: se al Pd un solo turno di primarie non basta, e se le primarie fanno l’identità del Pd, allora il Pd è così in affanno che per ritrovar se stesso di primarie ne deve fare due, dalla diversa logica, come ha spiegato (si fa per dire) Bersani. Due primarie: l’ossimoro elevato a metodo politico.

Non si capisce? Non è colpa mia, ma vostra: non avete avuto abbastanza incubi negli ultimi tempi. Se infatti non vi è chiaro perché un partito debba stabilire, intervenendo un’altra volta sulle regole statutarie, che il suo segretario non è detto affatto che sia il candidato alla presidenza del consiglio, e che dunque l’elezione che lo riguarda deve essere dimidiata di valore e doppiata da un’altra elezione, è perché non siete stati visitati dal fantasma di Matteo Renzi, che invece ossessiona l’attuale gruppo dirigente del Pd. Pensateci: senza una regola così cervellotica cosa infatti potrebbe accadere? Che il futuro segretario, in prossimità delle elezioni, si proponga di bel bello come il leader della coalizione di centrosinistra. Orbene, delle due l’una: o quel segretario sarà abbastanza forte da rendere naturale la sua aspirazione, e allora non avrà bisogno di appellarsi alle regole statutarie per legittimare la propria candidatura; oppure quel segretario si scoprirà debole, perché nel frattempo gli sarà comparso nel suo stesso campo un altro candidato, e allora non saranno certo regole e regolette a frenare la corsa di un tale avversario. In entrambe le eventualità, regole e regolette sono inutili. Il secondo caso, peraltro, è quel che si è verificato quando Bersani ha (meritoriamente) accettato la sfida di Renzi, nonostante lo statuto del Pd non la prevedesse. E ora che si fa? Dopo che si è dimostrato che non è statuto alla mano che si risolvono i problemi politici, si mette mano a cosa? Ma allo statuto, naturalmente, nella speranza che questa volta invece serva a frenare le ambizioni del sindaco fiorentino. Si stabilisce così che il segretario del Pd non può essere politicamente abbastanza forte da scoraggiare competizioni per la leadership. Lo si stabilisce nientedimeno che per statuto. Lo statuto del Pd deve insomma sancire ufficialmente la debolezza del Pd.

Bisogna allora «abdurre» al contrario: il Pd non può avere un’identità politica forte, marcata, pronunciata: non la regge, non la sopporta. Perciò non ne va neppure in cerca.

Sia chiaro: le obiezioni ci sono. La prima: un segretario forte farebbe ombra al governo Letta, e rischierebbe di farlo cadere. Giusto. Ma questo significa che il Presidente del Consiglio deve allora mettere in campo se non se stesso almeno il proprio peso politico, e soprattutto la propria azione di governo, per determinare la scelta di un segretario che ne condivida e sostenga il percorso. Non significa certo che bisogna escogitare soluzioni regolamentari per scongiurare il pericolo.

La seconda: il Pd non è autosufficiente, e non può decidere oggi, con le percentuali racimolate alle ultime elezioni, il candidato alla premiership di uno schieramento di cui ignora i lineamenti. Giusto anche questo. Ma allora il Pd non dovrebbe procedere alla moltiplicazione dei pani e dei pesci delle primarie, bensì alla loro pura e semplice abolizione, tanto più che la derubricazione delle primarie a primarie di coalizione è una perversione tutta italiana, sconosciuta ai sistemi che con le primarie cerchiamo malamente di scimmiottare. Questo però snaturerebbe l’identità del Pd. O forse sarebbe solo la presa d’atto di quel che il partito democratico è oggi, in via di fatto. Ma chi è oggi in grado di guardare in faccia la realtà senza proseguire in quel gioco di rimozioni e denegazioni che il Pd sta giocando da qualche mese a questa parte?

 (Il Mattino, 27 luglio 2013)

I democratici e la zavorra delle regole

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A leggere i giornali, a inseguire le dichiarazioni di questo o quel dirigente del Pd, potrebbe sembrare che il principale problema politico del partito democratico sia la determinazione delle regole con le quali tenere il congresso. Non questioni di linea o di identità, non le ricette economiche per tirare fuori il paese dalla crisi, ma le regole. Il che vorrebbe dire che sono problemi già archiviati la perdita di nove milioni di voti alle elezioni di febbraio, e la rovinosa frana del partito nell’elezione del presidente della Repubblica: fatti dirompenti avvenuti non nel secolo scorso, ma soltanto poche settimane fa. In quei giorni, Bersani e l’intero gruppo dirigente del Pd si dimisero, ma chi leggesse oggi i giornali difficilmente troverebbe tracce di una sia pur lontana consapevolezza che quelle giornate hanno segnato, per il Pd, un punto di non ritorno. Quel che si trova invece, è una discussione vagamente onirica, e in ogni caso difficile da spiegare al cittadino medio, intorno alle regole, alla celebrazione dei congressi locali prima, durante o dopo la scelta del futuro segretario, alla separazione o all’unione della figura del segretario con quella del presidente del consiglio, al ruolo degli iscritti, alle primarie aperte o chiuse, alle deroghe allo statuto, in un’orgia politicista da cui nemmeno l’osservatore più attento saprebbe venir fuori. Le avvertenze per l’uso del congresso – l’amara medicina che occorre mandar giù – rischiano di contenere più istruzioni di quelle che una casa farmaceutica può infilare nel bugiardino, e soprattutto indicare una quantità abnorme di effetti collaterali indesiderati.

Eppure il nodo è semplice: si tratta di Matteo Renzi. Quelli che vogliono tenerlo lontano dalla corsa alla segreteria del Pd insistono sulla necessità di evitare la sovrapposizione fra candidato premier e segretario del partito, come se, messa per iscritto una simile regola, sarebbe ipso facto scongiurata l’ipotesi di una vittoria di Renzi al congresso, e la sua futura candidatura a Palazzo Chigi. Quelli che invece ne sostengono l’irresistibile ascesa, temono imbrogli sulle regole: ma se l’ascesa è irresistibile, non è chiaro cosa abbiano da temere.

Per uscir fuori dall’aporia, Antonio Funiciello, responsabile cultura del Pd, ha indossato le vesti solenni del re Salomone e formulato la seguente proposta: se vince Renzi, visto che ci tiene, facciamo che il segretario possa essere anche il candidato alla guida del governo; se invece vince un altro, che non tiene alla cosa, manteniamo pure la separazione. Sembra una barzelletta, ma è invece la spia di un dibattito insensato, coltivato da chi si illude che i processi politici reali possano essere indirizzati con regolette, emendamenti, norme statutarie.

Ed il processo politico in corso sta sotto una parola alla quale, con ogni evidenza, il Pd non ha saputo fin qui corrispondere. Quella paroletta è: discontinuità. Se Bersani ha perso, è per quello. Se Renzi gode di un largo consenso, è per lo stesso motivo. Ma nel Pd è ancora in corso il tentativo di rimanere ostinatamente attaccati all’autoproclamata «non sconfitta», approfittando dell’ultima zattera che Renzi non può, al momento, rovesciare: il governo Letta. Che rischia così di divenire ostaggio delle forze che resistono ad ogni mutamento di equilibri, all’interno del Pd (e, in parte, anche fuori). Il che all’azione del governo di sicuro non giova.

L’argomento è: un Pd a guida Renzi metterebbe a rischio il governo. Ma è un argomento che per un verso prova troppo, e per l’altro non prova nulla. Prova troppo, perché i maggiorenti del Pd potrebbero altrettanto bene dire che qualunque fatto nuovo metterebbe in pericolo l’esecutivo, anche la semplice celebrazione del congresso, ed infatti son lì che cincischiano ancora sulla data. Non prova però nulla, perché anzi presuppone ciò che il congresso dovrà, se mai, dimostrare: che questo governo deve rimanere in carica per fare le cose che occorrono al paese.

Questo è il terreno sul quale si dovrebbe infatti svolgere il confronto politico nel Pd (e, si spera, anche fuori): quali sono le vie che si intendono tracciare per il paese, entro quale campo di forze, in Italia e in Europa. Ed è questione di programma, ma ancor prima di una più generale visione degli interessi nazionali e del posto dell’Italia nel mondo. Il mondo, infatti, non sembra proprio che se ne stia lì fermo, in attesa che il Pd scelga di quali regole dotarsi (e magari di quali regole darsi per decidere quali regole darsi, perché all’autoreferenzialità non c’è mai fine).

Quanto a Renzi, ha sicuramente incarnato la discontinuità, almeno in una prima fase, all’insegna dello slogan contundente della rottamazione. E con lo strattone di ieri ha voluto ricordare a tutti che è ancora di quell’idea. Ma tocca anche a lui mettere contenuti in questa esigenza di rottura, e indicare così un terreno effettivo di sfida e di cambiamento, più scabro di una parola d’ordine vincente, più concreto di una battuta ad effetto. Perché a volte sembra, come ha detto ieri, che gli altri giochino con lui al tiro al piccione. E questo non funziona. Ma altre volte sembra che lui voglia vincere sul velluto, quasi non giocando la partita, e neanche questo, per la verità, può andar bene.

Il Mattino, 3 luglio 2013