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I democratici nell’era proporzionale

The Beached Margin 1937 by Edward Wadsworth 1889-1949

E.  Wadsworth, The Beached Margin (1937)

Fra i grandi vecchi che intervennero ad Orvieto nel 2006, nel seminario di studi che precedette la nascita del partito democratico, prese la parola anche Alfredo Reichlin. Cominciò da lontano, dal movimento operaio, dal quale provenivano quelli come lui, e parlò del disagio del cattolicesimo democratico che confluiva nel nuovo partito con il timore che l’egemonia sarebbe rimasta saldamente nelle mani degli ex comunisti, ma anche del malessere della sinistra, che temeva dal canto suo di stingersi in un nuovo contenitore non ancorato saldamente nella tradizione del socialismo europeo. Poi però accorciò le distanze, guardando ai compiti ai quali il nuovo partito era chiamato – crisi della democrazia, diritti di cittadinanza, ricostruzione della politica, europeismo – ed aggiunse: «l’identità di un grande partito non è l’ideologia, ma la sua funzione storica reale». Parole sante, a dar retta alle quali la si finirebbe in un sol colpo di chiedersi quanto è di sinistra, o di centrosinistra, il partito democratico, a dieci anni dalla sua fondazione.

Quel che davvero conta non sono i richiami identitari, tantomeno le medianiche evocazioni dello spirito originario, ma quale funzione in concreto il Pd abbia esercitato, e quale funzione pensi ancora di esercitare. Certo, il contesto è cambiato: la democrazia competitiva nella quale il nascente partito democratico doveva inserirsi non c’è più. Non c’è il maggioritario, ma una legge che, faute de mieux, rimette in campo le coalizioni, o qualcosa che prova a rassomigliarci. La partita a due, centrosinistra versus centrodestra, è diventata una partita a tre, o a quattro: maledettamente più complicata. Così che la crisi della democrazia, di cui ragionavano ad Orvieto i partecipanti al seminario, è ben lungi dall’essere alle nostre spalle. La partecipazione politica continua a calare, il virus populista si è grandemente diffuso, la risposta immaginata in termini di riforme costituzionali è naufragata: la salute complessiva del sistema politico, insomma, non è gran che migliorata. Quando dunque Renzi oggi dice che senza il Pd viene giù tutto, non usa solo un argomento da campagna elettorale, ma rivendica quella funzione nazionale di cui parlava Reichlin, e che ha portato i democratici ad occupare a lungo posizioni di governo. Caduto Berlusconi, il Pd ha sostenuto prima Monti, poi Letta, poi il governo del suo segretario Renzi, adesso Gentiloni. In nessuna di queste esperienze di governo il Pd ha governato da solo, o con i soli alleati di centrosinistra: non ve ne sono mai state le condizioni, ed è difficile anche che vi siano nel prossimo futuro.

Di tutte le riflessioni che il Pd è oggi chiamato a fare, questa è forse la più urgente: come si attrezza un partito nato con l’ambizione veltroniana della vocazione maggioritaria, dentro una congiuntura che quella vocazione ha abbondantemente smentito, ridimensionando anzi sempre di più le forze maggiori. Basta guardare al di là delle Api quel che succede alla socialdemocrazia tedesca, o al socialismo francese, per convincersene.

Quanto al suo profilo programmatico, il Pd ha sempre rivendicato il carattere di una forza progressista, riformista, europeista. Non sempre però è stato chiaro a tutti, dentro il Pd, di cosa riempire queste parole. Basti pensare che ad Orvieto era nientedimeno che D’Alema a chiedere «una nuova cultura politica che andasse oltre il vecchio schema socialdemocratico». Si voleva andare al di là, e si è ricaduti al di qua. Quella nuova cultura politica, che veniva identificata con la terza via, con il New Labour di Blair, o il Neue Mitte di Schroeder è proprio ciò che il D’Alema di oggi, quello che ha mollato il Pd da sinistra, mai prenderebbe ad esempio. Ma più che la contraddizione palese, o la credibilità dei suoi interpreti, conta politicamente il fatto che con questa giravolta è rispuntata quella sinistra identitaria, radicalizzata, che il Pd aveva cercato di riassorbire.

Certo, di mezzo c’è stata la grande crisi economica e finanziaria del 2008: il Pd ha avuto la sventura di nascere con il vento contro, mentre finiva la spinta euforica della globalizzazione, e la marea, ritirandosi, lasciava riaffiorare tutti i problemi rimasti aperti: le diseguaglianze crescenti, l’erosione delle classi medie, le precarietà diffuse, le insicurezze e le paure non governate. Ma, anche così, la funzione storica del Pd non è cambiata di molto, tra ancoraggio europeo e prospettive di riformismo sociale ed economico dentro una solida cultura di governo. Questo è, o dovrebbe essere, il Pd, una cosa riconoscibilmente diversa dalla destra nazionalista di Lega e Fratelli d’Italia, dal populismo giustizialista dei Cinquestelle, dal centrismo moderato di Forza Italia.

Nessuna mutazione genetica è dunque in corso. Altra storia è se, in questa fase, in cui il mondo sembra un’altra volta finire fuori dai cardini, sia abbastanza essere una forza tranquilla – come diceva il Mitterand che saliva per la prima volta all’Eliseo – o se invece non prevalgano passioni e umori più forti, al cui confronto il riformismo appare una pietanza scipita. Le elezioni non sono lontane, e fra poco questo interrogativo verrà sciolto dalle urne.

(Il Mattino, 15 ottobre 2017)

E’ morto Alfredo Reichlin, partigiano dal Pci al Pd

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Ha avuto una vita lunga, Alfredo Reichlin: dall’esperienza partigiana alla Repubblica; dalla direzione dell’Unità alle numerose legislature in Parlamento; da Togliatti a Ingrao, che fu la figura più influente sulla sua prima formazione; da Berlinguer fino a D’Alema, di cui condivise le scelte fondamentali, fino, da ultimo, alla presidenza della commissione che avrebbe scritto la Carta dei valori del nuovo partito democratico.

L’ha raccontata lui stesso, questa vita lunga e appassionata, attraversata con un tratto di eleganza e di pensosità a cui non rinunciò mai, in un libro di qualche anno fa che Laterza ha dato alle stampe con il titolo: «Il midollo del leone». Nelle ultime pagine del libro, Reichlin spiegava il titolo prescelto. È un’espressione che si trova in un pensiero di Italo Calvino dedicato a Giaime Pintor, morto nel ’43 per l’esplosione di una mina: «l’avara presenza del bello e del bene, questo è il midollo del leone che Pintor, traduttore di Rilke, lettore di Montale, morse dalla civiltà letteraria che l’aveva preceduto». Da ragazzo, Reichlin assaggiò avidamente quel morso: «nutrimento per una morale rigorosa, per una padronanza della storia». Era stato infatti compagno di banco del fratello di Giaime, Luigi, nel Regio Liceo Tasso di Roma. Giaime, più grande di qualche anno, fu tra quelli che aprirono gli orizzonti culturali del giovane Pietro: gli diede in lettura le poesie di Eluard e gli opuscoli di Lenin, i libri di Vittorini e i racconti di Hemingway. Passò infine dai Pintor la strada che portò Reichlin ad iscriversi al partito comunista.

Dopo l’esperienza gappista durante la Resistenza, Reichlin aveva infatti aderito al partito e fin dagli anni Cinquanta ne divenne uno dei più autorevoli dirigenti. Appena trentenne, nel 1957, Reichlin fu infatti chiamato a dirigere «L’unità», che non era allora, sul finire degli anni Cinquanta, solo il giornale del partito, ma era anche il «Corriere della Sera del proletariato», e l’unico quotidiano diffuso uniformemente su tutto il territorio nazionale.

L’esperienza, tuttavia, non durerà molto. Reichlin è in quegli anni vicino a Pietro Ingrao, il capo della sinistra del PCI. I dissensi politici con Togliatti – sull’atteggiamento da tenere nei confronti del primo centrosinistra, che gli ingraiani osteggiano frontalmente, considerandolo solo un aspetto della ristrutturazione del capitalismo – determinano l’allontanamento dalla direzione del giornale. Reichlin finisce in Puglia, dove guida la federazione regionale e contribuisce a tirar su un gruppo di giovani intellettuali – Biagio De Giovanni, Giuseppe Vacca, Franco Cassano, Franco De Felice – raccolti intorno all’Università, alla casa editrice Laterza e all’altro editore di Bari, De Donato. Lucio Colletti appiccicherà a questo gruppo di studiosi l’epiteto un po’ beffardo di «école barisienne», ma, come spesso accade, il nome perderà in seguito il suo significato ironico, per indicare uno delle fucine culturali più vivaci del marxismo italiano degli anni Sessanta-Settanta, insieme all’operaismo.

Si discute, non senza qualche allarme nel partito, di nuova egemonia, di rinnovamento dei quadri dirigenti, di metodo storico, ma anche dei rapporti col movimento studentesco e di sviluppo del Mezzogiorno.

Si apre la stagione del ’68, che in Italia dura un decennio e che, nonostante i successi elettorali del partito comunista, restringe progressivamente i margini culturali e ideologici a disposizione del Pci. «Venivamo – ha scritto Reichlin, che siede in quegli anni nella Direzione del partito – da un marxismo letto come storicismo assoluto. Il nostro referente non era il vecchio scientismo socialista, ma Gramsci e la sua polemica con il positivismo»: questo peraltro era il terreno di incontro con le grandi masse cattoliche, rappresentate in quegli anni dalla complessa e tormentata figura di Aldo Moro. «Il nostro pensiero – aggiunge Reichlin nella sua autobiografia – era certamente classista, ma anche dominato dall’assillo di promuovere quella rivoluzione intellettuale e morale che l’Italia moderna non aveva conosciuto mai», e in queste parole si può forse riconoscere il travaso di temi gramsciani che giunge sino alla segreteria Berlinguer, e all’incipiente questione morale che scaverà un solco, a sinistra, fra il partito comunista e il partito socialista di Bettino Craxi. Reichlin è in quegli anni al fianco del segretario del PCI, in posizioni di responsabilità, e ne condivide tutte le scelte, di cui a distanza ha riconosciuto la complessità e, insieme, i limiti.

Anche negli ultimi tempi, in posizione più defilata, Reichlin non ha mai rinunciato ad affilare le armi della critica in relazione ai compiti storici che vedeva drammaticamente aperti dinanzi all’Italia e all’Europa.  La sua valutazione delle vicende storiche degli ultimi trent’anni non era affatto indulgente: rivoluzione conservatrice, subalternità al liberismo, subalternità rispetto alla finanziarizzazione dell’economia che ha segnato i processi di globalizzazione, restringimento degli spazi di democrazia. È un giudizio che coinvolge tutta la parabola della sinistra, non solo italiana ma europea.

Dopo il voto del 2013, aveva lui tirato fuori l’idea del partito della nazione, che era stato però largamente fraintesa. Reichlin non pensava a una formazione neocentrista, ma al contrario alla funzione nazionale di un partito di massa. In un certo senso, fedele alla tradizione comunista, non riconosceva altra funzione ad un partito degno di questo nome: «Bisogna ridare un’anima all’Italia, insediarsi   nella   storia   del   paese,   non   cancellare   il   passato. Bisogna fare della sinistra il nuovo “partito nazionale”».

Erano parole che rivolgeva ai dirigenti del PD, con una preoccupazione che ne ha segnato l’ultima, amara riflessione: «La sinistra rischia di restare sotto le macerie». Ma vale forse per il Pd quello che Reichlin ha pensato del partito comunista: non è il Pd che spiega la storia d’Italia, ma questa, se mai, che spiega quella.

(Il Mattino, 22 marzo 2017; liev. mod.)

Il declino inizio’ con la cessione dell’elettronica nazionale

programma 101

«Non possiamo liquidare tutto in un esamino di storia sul digitale»: così dice Alfredo Reichlin nell’intervista che si trova al centro di Avevamo la luna, il libro bello e appassionato che Michele Mezza ha dedicato al triennio 1962-1964 (Donzelli editore). In quel giro di anni ne accaddero di cose, e la tesi di Mezza è che fu allora che il vagone dell’Italia si sganciò dal treno dell’innovazione finendo su un binario morto. Poi sono venuti i turbolenti anni Settanta e i leggeri anni Ottanta (che però piacciono tanto a Enrico Letta), fino alla caduta del Muro, a Tangentopoli e alla seconda Repubblica, ma la partita decisiva l’Italia la giocò molto prima. Perdendola. In quel triennio prese avvio l’informatizzazione delle relazioni produttive, che si sarebbe poi estesa all’intera società, e l’Italia che grazie alla Olivetti era all’avanguardia mondiale scivolò rapidamente nelle retrovie, con la vendita del ramo elettronico Olivetti agli americani della General Electric. Al di là dei contorni non chiari di quella vicenda, che il libro affronta da più lati assegnandole un valore esemplare, la tesi è che le conseguenze di quella cessione giungono purtroppo fino a noi, e spiegano il declino di questi anni. Spiegano, in particolare, la lontananza dell’Italia dai processi innovativi del capitalismo digitale. Spiegano perché, avendo dismesso l’elettronica, l’Italia si è per esempio condannata ad essere il primo paese per numero di telefonini in rapporto alla popolazione, senza però avere alcuna presenza nel campo della telefonia cellulare (continua qui)

L’Unità, 5 maggio 2013