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In Rete troppa libertà senza responsabilità

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(E. Baj, Apocalisse, 1978)

La rete metafora della conoscenza, la rete metafora dell’appartenenza, la rete metafora dell’organizzazione: è curioso che non venga mai in mente la rete come metafora della trappola. Eppure nelle reti, da sempre, si rimane anche intrappolati.  I giovani che condividono storie su Instagram – il social più in voga fra i “millennials” – non se ne avvedono, ma la trappola scatta comunque: tu racconti una storia, pubblichi una fotografia, condividi un pettegolezzo, e da quel momento quel brano di vita non ti appartiene più. Hai voglia a cancellarlo, da qualche parte rimane. Qualcuno l’ha salvato, qualcun altro ha fatto lo screenshot, qualcun altro ancora l’ha inoltrato: nulla di ciò che è stato pubblicato scomparirà. Nel Vangelo di Luca, quando Gesù parla della fine dei tempi, e dei segni grandiosi del cielo che la precederanno, per rassicurare i discepoli dice proprio così: se saprete perseverare nella fede, nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto. L’apocalisse è dunque quel tempo in cui tutto sarà restituito così com’è stato. L’“una volta” che diviene “per sempre”. Ora quel tempo è venuto, e l’apocalisse si compie sul web: nulla di ciò che viene caricato in rete, infatti, sarà più perduto.

Solo che non è la saggezza e la bontà di un dio a gestire questa enorme massa di dati personali: è, più spesso, la cattiveria o semplicemente l’incoscienza degli utenti, che non si fa più alcuno scrupolo di usarli per divertirsi o per denigrare, per spettegolare o per deridere. Né c’è più alcuna vera privacy. I giovanissimi abituati alle pratiche del social networking trovano del tutto naturale confessare segreti (veri o falsi, non importa) in rete. Ma un conto è affidarli a una parola confidenziale, un altro è mettere quella stessa parola in una chat. La prima vola via, la seconda resta. Resta, e rimbalza e scappa. Resta, e si moltiplica: altro miracolo della rete. E, badate, non resta una sciocchezza qualunque; resta invece lo scatto più pruriginoso, la maldicenza più insinuante, l’insulto più offensivo. E soprattutto rimane affidato alla rete un ruolo da sempre cruciale in ogni modello di socievolezza, che è quello della costituzione dei gruppi primari e delle relazioni informali in cui si formano innanzitutto le nostre identità. Si formano, o si distruggono. Senza che “quelli che c’erano prima” – genitori, educatori, insegnanti, insomma: adulti – ne sappiano più nulla, o quasi.

C’è tuttavia un’aria di ineluttabilità intorno al mondo della comunicazione online. Come se qualunque accorgimento tecnologico fosse vano, e qualunque intervento normativo fosse sbagliato. Ma è falsa sia la l’una cosa che l’altra. E si tratta di falsità interessate, perché i gestori degli spazi online sui quali ciascuno di noi pubblica di tutto e di più traggono profitto dai grandi numeri della rete: da ogni clic, da ogni like, da ogni informazione personale che riversiamo sui social. Traggono profitto: profilano potenziali clienti e vendono spazi pubblicitari. Più sanno di noi, meglio ci bersagliano con le loro proposte commerciali. Più tempo trascorriamo con loro, più sono loro a gestire il nostro tempo.

Ora, nonostante il riferimento all’apocalisse, non è un tono apocalittico quello che vorrei assumere. Vorrei solo che si mettesse da parte un po’ di retorica sulle straordinarie opportunità della rete (ci sono tutte) o sugli spazi di libertà che la rete assicura (pure quelli ci sono, e sono importanti, anzi ormai irrinunciabili). Ma opportunità e libertà devono fare il paio con responsabilità. Non è possibile che un quotidiano abbia mille motivi di rispondere del proprio operato dinanzi alla legge e le piattaforme pochi, o nessuno. Né può essere – per rimanere al caso delle storie di Instagram, o di Snapchat – che basti il loro automatico cancellarsi nel giro di 24 ore a regalare una sorta di extraterritorialità morale e giuridica. Quella roba rimane, altro che se rimane. E prima o poi qualcuno la mette nuovamente in giro. Ma ritenere che l’unico responsabile di una diceria sia il ragazzino che sparla con l’amico è fare dell’ipocrisia. Significa non interrogarsi sul modo in cui quella diceria diviene, a volte, una valanga, in grado di schiacciare e far morire di vergogna qualcun altro, come purtroppo è già accaduto.

Se i social sono oggi (come effettivamente sono, ancor più dei quotidiani) parte importante dello spazio pubblico, della formazione di opinione e dunque anche della salute complessiva di una società, non può esservi a disciplinarli un’unica regola, che ciascuno risponde per sé. Perché in tutti gli altri luoghi pubblici, aperti al pubblico o destinati al pubblico, vigono delle regole che impongono una certa manutenzione di quegli spazi, e qualche controllo sul loro corretto utilizzo. Finché le cose vanno più o meno lisce, funestate solo ogni tanto da qualche triste caso di cronaca, quasi non si avverte, peraltro, il paradosso di un luogo pubblico, ormai indispensabile allo stesso funzionamento della democrazia, tenuto in mani tutte private. Ma quando qualcosa non dovesse più andare per il verso giusto, che si fa? Di nuovo, non è una domanda apocalittica, se non altro perché c’è già adesso un pezzo che sta andando storto: a compromettere – come sta accadendo – la distinzione fra pubblico e privato si compromette, infatti, la democrazia. E allora domando di nuovo: che si fa?

(Il Mattino, 5 settembre 2017)

M5S, la Rete per tutti, decide uno

Kim

Roma capitale mondiale della democrazia diretta: con questo altisonante auspicio il Movimento Cinquestelle prova a rilanciare l’immagine, invero parecchio appannata, della giunta capitolina. L’iniziativa prevede l’introduzione delle petizioni popolari online (con la possibilità di discuterle in aula), e il voto elettronico per i referendum. Non prevede – o almeno: gli estensori del progetto ieri non ne hanno parlato – in quale misura questi strumenti incideranno effettivamente sull’amministrazione della città. Questo è il gran buco nero in cui finiscono, al momento, tutti i propositi di democrazia partecipativa che, con la Rete o senza la Rete, vengono variamente sperimentati in giro per il mondo. Democrazia, peraltro, non è solo la possibilità per ciascuno di dire la propria, ma anche l’organizzazione di questa possibilità, in forme che devono pure queste essere nella disponibilità di tutti. Questo punto rimane il vero tallone d’Achille del Movimento, come ha mostrato la vicenda delle comunarie di Genova. Anche in quel caso c’è stata una partecipazione online alle scelte del Movimento, anzi alla più importante di tutte: la selezione del candidato sindaco. Ma la trionfatrice, Marika Cassamatis, è stata sconfessata da Beppe Grillo, che a votazione ormai conclusa e risultati ormai proclamati non le ha concesso l’uso del simbolo. A quale titolo Grillo è intervenuto? In veste di garante del movimento. Ma quella veste non è sottoponibile ad alcuna votazione online: nessuno può toglierla, nessun altro può indossarla. La democrazia diretta si ferma sulla soglia della villa di Grillo.

Forse però non è un caso che l’ideale della democrazia diretta sia stato rilanciato proprio dopo il controverso episodio genovese. Non si è trattato nemmeno dell’unico rilancio. Sul «Corriere della Sera», Davide Casaleggio ha pubblicato un intervento, in occasione del convegno organizzato per l’anniversario della morte del padre, Gianroberto, che si è tradotto in qualcosa di più di un semplice ricordo. Casaleggio junior ha infatti steso una sorta di piccolo manifesto del Movimento, prendendosi così, sotto la testata del primo quotidiano nazionale, il ruolo che già era stato del padre. Due cose colpiscono nella lettera indirizzata al direttore del «Corriere». La prima riguarda lo scenario che Casaleggio tratteggia: siamo alla vigilia di un salto tecnologico destinato a cambiare la faccia del mondo, e in particolare a rivoluzionare il rapporto dell’uomo con la produzione ed il lavoro. È inutile dire che, così stando le cose, è l’intera sfera pubblica, sociale e politica, ad esserne investita. Ma la lettera di Casaleggio non offre alcun elemento per capire quali valori debbano orientare la comprensione (ed eventualmente la direzione) di questi processi. La tecnologia sembra essere il terreno di una spoliticizzazione radicale; ma siccome non c’è cambiamento che non faccia le sue vittime, che non abbia i suoi vinti e i suoi vincitori, che non dia più potere agli uni e meno potere agli altri, la triste impressione è che la politica ci sia, ma se ne stia da qualche altra parte, nascosta dietro la retorica che guarda stupita alle mirabilie del futuro. O più prosaicamente nelle mani di chi detiene le chiavi di quel futuro: una volta magari erano i proprietari della macchina a vapore, oggi forse i proprietari degli algoritmi che configurano la Rete.

La seconda cosa che merita di essere segnalata è la breve riflessione sulla politica italiana proposta da Casaleggio. Che è essenzialmente una rivendicazione dello sviluppo degli strumenti della democrazia diretta come segno di una proposta politica nuova che gli altri partiti non sanno formulare. Questo «discutere in modo partecipato» il programma coglie effettivamente un tratto essenziale del bisogno di democrazia che nei canali tradizionali si fa ormai fatica a riconoscere e soddisfare, ma ha daccapo il torto di non mettere a disposizione della Rete il modo in cui si decide il come, il cosa e il quando viene offerto alla discussione partecipata.

Si tratta di una contraddizione? Credo di sì. Credo che nessuna democrazia – né diretta né indiretta – sia possibile se non è democratico il partito o lo Stato che la organizza e struttura. E però questo rilievo critico conta molto poco: il voto non fa l’analisi del sangue ai candidati e ai partiti, non premia, di fatto, il tasso di democraticità di una forza politica. Se mai ne apprezza l’indice di credibilità, affidabilità, autorevolezza. E operazioni come quella condotta da Casaleggio sulle pagine del primo quotidiano nazionale servono proprio a questo. Servono a mostrarsi un altro volto rispetto a quello delle consuete intemerate grilline. Servono a Davide Casaleggio, per ritagliarsi, senza più tutele paterne, la figura di guida autorevole del movimento anche fuori dai circoli online della piattaforma Rousseau che illumina custodisce regge e governa il Movimento. E servono al Movimento tutto, che infittisce così la sua interlocuzione con l’establishment economico e sociale del Paese, per accreditarsi come una forza tranquilla (così si diceva una volta), in grado di assumere le più alte responsabilità nell’interesse generale del Paese. Auguri.

(Il Mattino, 5 aprile 2017)

Più che un saggio sembra una catena di sant’Antonio

Su Veni, vidi, web 23.12.2015

L’Unità

Il declino inizio’ con la cessione dell’elettronica nazionale

programma 101

«Non possiamo liquidare tutto in un esamino di storia sul digitale»: così dice Alfredo Reichlin nell’intervista che si trova al centro di Avevamo la luna, il libro bello e appassionato che Michele Mezza ha dedicato al triennio 1962-1964 (Donzelli editore). In quel giro di anni ne accaddero di cose, e la tesi di Mezza è che fu allora che il vagone dell’Italia si sganciò dal treno dell’innovazione finendo su un binario morto. Poi sono venuti i turbolenti anni Settanta e i leggeri anni Ottanta (che però piacciono tanto a Enrico Letta), fino alla caduta del Muro, a Tangentopoli e alla seconda Repubblica, ma la partita decisiva l’Italia la giocò molto prima. Perdendola. In quel triennio prese avvio l’informatizzazione delle relazioni produttive, che si sarebbe poi estesa all’intera società, e l’Italia che grazie alla Olivetti era all’avanguardia mondiale scivolò rapidamente nelle retrovie, con la vendita del ramo elettronico Olivetti agli americani della General Electric. Al di là dei contorni non chiari di quella vicenda, che il libro affronta da più lati assegnandole un valore esemplare, la tesi è che le conseguenze di quella cessione giungono purtroppo fino a noi, e spiegano il declino di questi anni. Spiegano, in particolare, la lontananza dell’Italia dai processi innovativi del capitalismo digitale. Spiegano perché, avendo dismesso l’elettronica, l’Italia si è per esempio condannata ad essere il primo paese per numero di telefonini in rapporto alla popolazione, senza però avere alcuna presenza nel campo della telefonia cellulare (continua qui)

L’Unità, 5 maggio 2013

Il comico Grillo tradisce la libertà di Internet

«Il dissenso non è concepito all’interno del Movimento. Paradossalmente i partiti, con tutti i disastri che hanno arrecato a questo Paese, sono più controllabili dai cittadini di quanto lo siano Grillo e Casaleggio».
Sono le parole di Federica Salsi, fresca di espulsione dal Movimento 5 Stelle, insieme a Giovanni Favia. Stavano sulle palle, come ha avuto l’amabilità di spiegare Grillo sul suo blog. Siccome infatti nel movimento nessuno può mettere in dubbio che il comico genovese sia un fior di democratico, i due sfrontati che hanno osato farlo sono stati (democraticamente, suppongo, ma senza formalità, perché il Movimento non le prevede) messi alla porta. La compattezza, anzi la purezza del Movimento è salva.
L’unica cosa che non torna nella dichiarazione della Salsi è, tuttavia, l’avverbio: dove sarebbe il paradosso? Non c’è nulla di paradossale nel fatto che i partiti, capaci di disputare congressi, di svolgere primarie – e, da ultimo, come nel caso del Pd, di indire le primarie per la scelta dei parlamentari su una base elettorale trenta volte più ampia delle cosiddette parlamentarie di Grillo – siano più controllabili del duo delle meraviglie Grillo-Casaleggio. Il paradosso, se mai, è un altro. È che il movimento (non partito: non sia mai!) che predica apertura, trasparenza, partecipazione, democrazia diretta e non so più quale altra preziosissima virtù politica, si stia rivelando il più impermeabile alle ragioni del dissenso, alle divergenze di opinioni, alla formazione non si dirà di minoranze o opposizioni interne, ma anche solo di critiche o lievi dissapori. Non ce ne possono essere, non ce ne debbono essere e non ce ne sono: previa espulsione.
Ma, a pensarci, c’è ancora un altro, più singolare paradosso. Che tutto questo avviene non nelle pieghe di qualche imbroglio regolamentare o statutario (il movimento non ha uno statuto: evidentemente ha solo il Verbo), non nelle antiquate sezioni di partito, non in novecenteschi congressi, ma nel luogo principe dell’intelligenza collettiva, in Rete, terra promessa dell’accesso libero, negli spazi cioè in cui ogni giorno proliferano nuove forme di aggregazione e di comunicazione, nel medium che i grillini vogliono consacrare alla diffusione illimitata della conoscenza, nel paradiso della condivisione. È lì che ieri pomeriggio, in un boxino di spalle all’ennesimo, torrenziale comunicato con il quale Grillo smaschera ogni giorno le malefatte altrui, in poche righe si augurava simpaticamente buon lavoro a Salsi e Favia. Buon lavoro, e fuori dalle palle.
E la comunicazione molti-a-molti tipica delle reti digitali? Sarà per un’altra volta. E la compartecipazione delle informazioni, la trasparenza? Non pervenute neanche quelle. E l’invito rivolto da Grillo, qualche tempo fa, a spedire a Wikileaks qualunque documento riservato possa far luce sui mille misteri d’Italia, con tanto di istruzioni per l’invio? Al diavolo la coerenzA.  E forse sarà effettivamente Wikileaks a diffondere tutti i dati delle parlamentarie del Movimento 5 stelle, visto che al momento non è dato sapere quasi nulla su come siano andate le cose. A meno che, infatti, non vi fidiate del Verbo e dei suoi comunicati online, resterete delusi. I risultati sono quelli diramati, e stop. Cittadini elettori: state contenti al quia, e più non dimandate. Che è la forma elegante, dantesca, del non rompete i maroni praticata da Grillo.
Insomma, la Rete è divenuta, nelle sapienti mani di Beppe Grillo, la forma ipermoderna dell’ipse dixit di antichissima memoria., e Grillo parla ormai come un maestro di sapienza dell’Antica Grecia, anche se lo fa ticchettando su una tastiera o sbraitando davanti a una webcam. Come Pitagora, che si diceva avesse una coscia d’oro e si rivolgeva ai suoi iniziati parlando da dietro una tenda, così Grillo, coscia o non coscia, se ne sta dietro lo schermo, dove si tiene stretti tutti i dati delle votazioni (e il controllo del Movimento). Pitagora non aveva il copyright del teorema che pure porta il suo nome, Grillo invece del logo ce l’ha, e come!, e sa farlo valere. Così predica l’apertura e pratica la chiusura, diffonde contenuti in maniera virale ma si immunizza dal dissenso, esalta l’orizzontalità della Rete, ma tiene rigorosamente verticale il bastone del comando. Ci faccia almeno il piacere di non agitarlo, sempre – s’intende – in nome della democrazia.
Il Mattino, 13 dicembre 2012

Regole per salvare l'identità on line

Che ve ne pare della ripetizione? Vi piacciono gli originali, le tirature limitate, odiate le copiee diffidate delle imitazioni? Allora non è che semplicemente siete lettori della Settimana Enigmistica, il giornale che vanta innumerevoli tentativi di imitazione, ma è che vivete proprio nell’epoca sbagliata. Perché dalle fotocamere ai videofonini, dagli mp3 ai canali satellitari, questa è l’epoca della riproducibilità tecnica, della moltiplicazione, della proliferazione – e naturalmente anche della contraffazione. In un’epoca del genere, può capitare che qualcuno si registri su un social network, ad esempio su Facebook, col vostro nome e cognome (e magari ci metta pure una vostra foto). Da quel momento in poi, una vostra copia virtuale potrà farne di cotte e di crude, in rete, prima che vi accorgiate dell’imbroglio e lo denunciate. Può succedere anche che qualcuno vi riprenda per strada con un cellulare, o in qualche luogo meno conveniente con una telecamera nascosta, e riversi poi su Youtube il filmato. E per quel canale, o per qualunque altro canale di condivisione di file, un numero illimitato di copie di voi stessi potrà circolare incontrollato nel web, che lo vogliate o no.

Non c’è scampo, tracce della nostra esistenza sono ormai ovunque. Si può esser sicuri che esiste già, da qualche parte, un pezzettino di noi digitalizzato e illimitatamente riproducibile: una voce, un immagine, una notizia che gli onnivori motori di ricerca sono pronti a mettere a disposizione di chiunque. E come le popolazioni indigene, a contatto con gli esploratori europei, rifiutavano di farsi fotografare perché temevano che la fotografia strappasse loro l’anima, così noi oggi temiamo il furto di identità on line, con la complicazione che ben difficilmente possiamo sottrarci ad esso. Quando poi qualche potere pubblico, per il rispetto di qualunque diritto sia stato nel frattempo violato, vorrà provare a cancellare questo enorme archivio di segni, sarà come svuotare il mare col secchiello: e in ogni caso tutto quello che nel frattempo sarà stato scaricato nelle private memorie dei personal computer si sarà sottratto facilmente ai controlli.

Che ora il governo italiano, per bocca del ministro Alfano, stia pensando a come mettere ordine nel mare magno della rete è cosa del tutto comprensibile, se non altro perché spazio virtuale non è sinonimo di zona franca, e il rispetto delle regole deve valere tanto per le strade della città quanto lungo le autostrade telematiche. Ma, come diceva Musil, non si può fare il broncio ai propri tempi senza riportarne danno: è bene quindi lasciar perdere l’idea che le maglie della rete vadano serrate con lo strumento della legge penale, anche perché non risulta affatto dimostrato che un incremento significativo di reati sia direttamente proporzionale alla libertà di accesso alla rete.

Resta il fatto, si dirà, che in rete si trova di tutto. Il che è vero, come è vero però che di tutto si trova anche nel mondo. L’importante, piuttosto, è sapere dove ci si trova: mettere non divieti, ma se mai un po’ di segnaletica. Dopo di che, è dai tempi di Platone che si tengono in gran dispetto copie, duplicati e riproduzioni: siccome però non c’è modo di evitarle, perché tutto nell’ambito del sapere e della cultura in generale si basa sull’educazione, cioè sulla trasmissione, quindi sulla riproduzione, l’accigliato filosofo cercò in ogni modo di distinguere le copie buone da quelle cattive, quelle che a suo dire rispettavano l’idea (oggi diremmo: i valori) da quelle che invece la sfiguravano. Fatta la distinzione (e non è semplice), avrebbe voluto ritirare dalla circolazione tutte le copie cattive, tutti i racconti bugiardi, tutte le immagini immorali e licenziose. La cosa però non poteva riuscirgli: troppo vasto era il programma. E soprattutto presentava un difetto non da poco: eliminando via via le copie cattive, eliminava anche la possibilità che ciascuno si eserciti nel compiere per sé la distinzione. Ora, che cos’è questa possibilità se non ciò che per secoli abbiamo chiamato anima? Partito col proposito di proteggerla, per eccesso di zelo, avrebbe finito in realtà con l’impedirne la fioritura, che si realizza solo nell’esercizio individuale. Fuor di metafora, e adattando ai tempi: il decoro generale si paga a prezzo del grigiore generale.

Il punto non è dunque se non si debbano limitare gli eccessi, ma come limitarli. Se qualcuno li elimina per tutti, nessuno salvo uno avrà più una cultura del limite. E quell’uno, peraltro, la perderà facilmente, non essendovi nessun altro che potrà limitarlo. Certo, della rete fa spavento anzitutto la dimensione. Possiamo con un clic accedere a miliardi di documenti, file, siti: chi potrà mai scrutinare, ispezionare, controllare questa spropositata mole di dati? Preoccupiamoci allora di regolare il traffico generale, ma soprattutto di affinare il controllo di qualità all’ingresso della nostra anima. Dopotutto, almeno la sua capienza non è aumentata né diminuita di molto.

(Il Mattino)

Non solo totale, ma totalizzante

"La questione fondamentale è dunque la seguente: è possibile esprimere un contenuto ultimo e supremo in un formato la cui qualifica come mezzo di comunicazione comporta l’incapacità a fornire contenuti totalizzanti?".

Lo so che il contenuto ultimo e supremo in questone è somminstrato dalla filosofia, ma non chiedetemi quale sarebbe il mezzo (oppure il medio, o il luogo), in cui si potrebbero viceversa fornire dei bei contenuti totalizzanti. La nuova rivista online Sophias schiera i nomi di Cacciari, Sini ed Eco, ma l’editoriale di presentazione – per la verità, l’unica cosa che ho letto finora – è francamente imbarazzante.

(Che poi, se l’interrogativo ha fatto sorgere in voi seri dubbi, proseguite pure così: "Il contenuto filosofico entra nel mezzo elettronico e lo disintegra nella pluralità che più si adatta al raggiungimento di una fruizione non solo totale, ma totalizzante". Che la pluralità in questione è in tutto uguale a quella di cui è capace una rivista cartacea, beh: questo è un dettaglio. Ma intanto grazie a una "capacita unica di corrispondere alla totalità multiforme dell’umano", grazie a questa corrispondenza, che permette ai "contenuti ultimi e supremi di pervadere il supporto mediatico su cui si innestano per piegarlo e informarlo della fruizione totalizzante che spetta loro essenzialmente", grazie a tutto ciò la filosofia ha finalmente la strada spianata. La network society è avvisata).