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Spingendo la notte più in là

Motherwell

Con l’argomento che la corruzione è un male endemico del nostro Paese, come le mafie, il Senato si appresta oggi a votare modifiche al codice antimafia che estendono gli strumenti a disposizione nella lotta contro la criminalità organizzata al contrasto dei reati di corruzione. In particolare, il Senato della Repubblica sta dando il suo voto a un provvedimento che estende agli indiziati di reati contro la pubblica amministrazione misure di prevenzione personali e patrimoniali. Si tratta di misure che di fatto anticipano il giudizio di colpevolezza sulla base di un quadro meramente indiziario: misure palesemente emergenziali, com’è del resto emergenziale tutta la legislazione antimafia e la cultura che l’accompagna, di cui un giorno si vorrebbe vedere il termine ma che in realtà cresce sempre di più, penetrando sempre nuovi ambiti della realtà sociale ed economica del Paese. Una nuvola che s’ingrossa: invece di essere portata via dal vento del cambiamento e delle riforme, si abbassa sempre di più sulla vita civile e pubblica del Paese. Ne chiude l’orizzonte. Ne oscura l’aria. Regole che dovrebbero valere in ambiti ristretti, in circostanze limitate, in casi eccezionali, vengono messe a disposizione della normale attività delle Procure. Regole la cui stessa efficacia è molto dubbia (per Raffaele Cantone si tratta di modifiche «né utili né opportune, che rischiano persino di essere controproducenti»), ma che certamente fanno compiere all’Italia un enorme passo indietro sul piano della civiltà giuridica.

Contro la riforma si è dunque espresso il Presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione. Ma contro la riforma si sono pronunciate con fermezza anche le Camere Penali. E contro la riforma hanno parlato i più eminenti giuristi del Paese, da Giovanni Fiandaca a Giuseppe Tesauro, da Sabino Cassese a Giovanni Verde.  E forti preoccupazioni ha espresso anche il presidente nazionale di Confindustria, Vincenzo Boccia, per i riflessi sull’economia di una estensione abnorme dell’ambito di applicazione delle misure cautelari.

E però la maggioranza sembra determinata ad andare avanti. Qual è la forza che la sospinge? Purtroppo, sembra che sia una soltanto: la volontà di dare un segnale, la volontà di dimostrare che il governo intende fare sul serio. La volontà e, forse, la cattiva coscienza. Perché non è in discussione la lotta alla corruzione, ma il modo in cui la si fa. Se con le garanzie dei processi e le pronunce dei tribunali, o anticipando la pena grazie alle misure cautelari e alla grancassa mediatica, disperando di poter mai arrivare a sentenza. Se si prende questa seconda, più comoda strada, è perché la prima è ostruita e non c’è verso di liberarla.

Ma il prezzo che il Paese paga è alto. Non è infatti inasprendo le pene, introducendo nuove fattispecie di reato, allungando in maniera oscena i termini della prescrizione che si ottiene più giustizia. Allungare i termini della prescrizione significa solo consentire al giudice di spostare un po’ più in là la prossima udienza. Introdurre nuove fattispecie di reato significa solo complicare la normativa vigente, che già gronda di norme penali da un numero impressionante di leggi. Inasprire pene e sanzioni, senza aumentare efficienza ed efficacia dell’azione penale, non ha alcun effetto deterrente, ma solo una vuota funzione declamatoria.

Che il Senato se ne avveda: è ancora in tempo. Che abbia un sussulto di consapevolezza. Perché non basta porsi come argine contro i populismi, e poi assecondarne di fatto i temi, l’agenda, le politiche. Tanto più che non saranno mai sufficienti a saziare la sete giustizialista. Domani, dopo il voto, chi ha costruito la propria fortuna politica in nome della lotta contro la corruzione e le ruberie della politica dirà comunque che non si è fatto abbastanza, perché i ladri sono sempre al loro posto.

Certo, le elezioni sono dietro l’angolo: la volontà di «dare segnali» viene da lì, e da quel populismo giudiziario che continua a costringere la politica in posizione di subalternità nei confronti delle richieste che provengono dalla parte della magistratura investita del ruolo di guardiano della pubblica moralità. Ma se la maggioranza, e il partito democratico, intendono andare ancora a rimorchio di questi umori, allora a che titolo potranno dire di aver costruito e fatto avanzare, almeno in materia di giustizia, una proposta riformistica seria? Le modifiche del codice antimafia era finalizzata a rivedere la disciplina dell’amministrazione giudiziaria dei beni sequestrati, e a riformare drasticamente l’Agenzia nazionale dei beni confiscati. Su entrambi i fronti le opacità erano tali, da rendere necessario l’intervento legislativo.  Ma per prendere queste misure, non c’era bisogno di mettere a repentaglio garanzie e libertà, creare profili di dubbia costituzionalità, allargare enormemente il raggio di intervento delle Procure.

È possibile sperare, allora, che la maggioranza ci pensi ancora, prima di fare un simile voto?

(Il Mattino, 4 luglio 2017)