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Una sanzione non fa primavera

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La destituzione del consigliere di Stato Francesco Bellomo non è ancora operativa. Dopo l’assemblea plenaria di ieri, dovrà essere il consiglio di presidenza della giustizia amministrativa a dar seguito al parere espresso dall’adunanza generale. Ma ormai il percorso è tracciato ed è assai improbabile che un pronunciamento quasi unanime venga disatteso. D’altra parte, a prescindere da futuri risvolti giudiziari, il caso di un alto magistrato che si occupava della lunghezza delle minigonne delle borsiste della propria scuola, o del quoziente di intelligenza dei di loro fidanzati, era così abnorme, e così poco consono alla funzione magistratuale, che subito era parsa inevitabile la massima sanzione disciplinare.

Ma per un organo di autogoverno che fa pulizia al proprio interno ce n’è un altro che invece fa finta di nulla. E intanto incassa. È accaduto infatti, lo ha raccontato “Il dubbio” la scorsa settimana, che nell’ultima legge di stabilità, fra un comma e l’altro della legge, venisse infilata una norma piccola piccola, che coi conti dello Stato non c’entra assolutamente nulla, ma che al Consiglio Superiore della Magistratura non sarà affatto dispiaciuta. La norma dice che il membro togato che termina il suo servizio a Palazzo dei Marescialli può finire immediatamente a capo di qualche Procura (o assumere qualche prestigioso incarico extra-giurisdizionale). Prima era previsto un intervallo di due anni, poi di uno soltanto, adesso nessuno. Così il do ut des è più rapido ed efficace: io aiuto te a entrare al Csm; tu ti mostri subito riconoscente con me, nominandomi alla guida di un ufficio. Se c’è un modo per rafforzare il controllo sulle funzioni apicali, e di riservarli a una cerchia ristretta in grado di assicurare una gestione corporativa  del potere in seno alla magistratura, beh: la norma approvata è precisamente quel modo. Ne rappresenta anzi lo stadio supremo.

Permettetemi di dire: capisco lo scandalo, ma delle due notizie la seconda avrebbe meritato molta più attenzione della prima. Ed è molto più grave. Perché il caso Bellomo è il caso di un uomo che aveva evidentemente perso qualunque senso del proprio ruolo. Fa scalpore, produce articoli e commenti, ma rimane una vicenda individuale, circoscritta al ridicolo superomismo del personaggio, che inevitabilmente si conclude con il suo allontanamento dai ranghi della Magistratura. Nel caso invece della norma piccola piccola che il Parlamento ha votato, non si sa se in piena consapevolezza o in modo colpevolmente distratto, siamo dinanzi all’ultima pennellata su un quadro istituzionale sempre più sbilanciato a favore di un soggetto, la magistratura, sempre meno contenuta nel suo ordine. La magistratura, ma certo è più corretto dire, in particolare, certe sue espressioni organizzate. Sta di fatto che, ora, può accadere che un membro del Csm si chiuda dietro di sé la porta di Palazzo dei Marescialli per vedersi aperta immediatamente la porta di qualche ministero, o vedersi affidata la direzione di qualche importante ufficio. Come se non accadesse già dell’altro: magistrati che si mettono a fare politica negli stessi territori dove hanno esercitato le loro funzioni, o che non disdegnano di assumere addirittura la guida di un partito (che qualche volta fondano a proprio uso personale). Ora è la volta di Pietro Grasso, ma arriva buon ultimo dopo i vari Di Pietro, Ingroia, De Magistris.

E come non chiedersi quanto opportuno sia che dal vertice dell’Autorità Nazionale Antimafia si arrivi rapidamente in Parlamento? Non c’è forse il rischio che l’istituzione né venga svilita, risolvendosi (al di là delle intenzioni soggettive, sicuramente nobilissime) in una sorta di passerella per il successivo ingresso in politica? Eppure, stando alle voci raccolte dai giornali, per Franco Roberti si starebbe profilando in queste ore una candidatura al Senato. Come se trascorrere nel giro di poche settimane dai vertici dell’Antimafia ai palcoscenici della politica nazionale fosse il più logico degli approdi possibili.

Le cause generali di questo stato di cose sono state raccontate fino alla nausea, e assommano tutte alla debolezza di una politica in prolungato deficit di autorevolezza. Così va avanti da anni. E ora che l’antipolitica non disdegna di scegliere fra i magistrati i suoi eroi, figurandoseli al governo del Paese, va anche peggio. Ma non è una buona ragione per rassegnarsi, o per soprassedere. Anzi, forse è un motivo in più per chiedersi e chiedere dove, come e quando si troveranno le forze per ripensare daccapo i rapporti fra politica e magistratura, per riformare il Csm, e magari per mettere mano a quella separazione delle carriere. Che per ora è solo una battaglia simbolica dell’avvocatura, ma che un Paese che volesse davvero cambiare dovrebbe avere il coraggio di cominciare almeno a discutere.

(Il Mattino, 11 gennaio 2018)

Intercettazioni, la finta delle virgolette

Touché

G. Sachs, Touché (1979)

Niente più virgolette, ma solo parafrasi del contenuto delle intercettazioni. È una rivoluzione? Dipende. Se il ministro dello sviluppo economico si lamenta di essere trattata dal compagno come una lavandaia del Guatemala, non si potrà più leggere, tra virgolette: “Mi tratti come una lavandaia del Guatemala!”. Per evitare le virgolette e fare la differenza tra il discorso diretto e il discorso indiretto può, però, bastare una semplice congiunzione. Come il bacio è un apostrofo tra le parole “T’amo”, così la riforma delle intercettazioni rischia di essere solo una congiunzione – “che” – posta, invece dei due punti, tra il verbo “dice” e la frase intercettata: tanto occorre, difatti, per togliere le virgolette alla frase.
Non è questo lo spirito del provvedimento, ovviamente, e anzi il Ministro Orlando si trova ad essere attaccato dalla stampa giustizialista, che lo accusa di voler limitare l’informazione con la scusa della tutela della privacy. Ma questi esercizi di interpretazione, o di stile, cui sarà chiamato il magistrato per inserire nei suoi provvedimenti, rigirandoci attorno, il materiale raccolto tramite le intercettazioni rischiano di accendere una discussione fuorviante. Per i paladini della stampa libera, qualunque filtro o limitazione alla diffusione è da ritenersi, in realtà, un divieto ingiustificabile. E, in effetti, qualche misura in tal senso c’è. La bozza predisposta negli uffici di via Arenula prevede che non possa essere trascritta la telefonata tra l’avvocato e il difensore che fosse stata eventualmente intercettata. Stessa sorte toccherà alle conversazioni che non siano giudicate rilevanti ai fini delle indagini. L’una e l’altra misura vengono ritenute in qualche modo lesive del diritto della pubblica opinione a conoscere vita morte e miracoli dei personaggi pubblici, ai quali non dovrebbe essere riconosciuto un diritto assoluto alla privacy, ma solo un diritto limitato, attenuato, come numerose sentenze delle più alte corti di giustizia italiane ed europee hanno in più circostanze ribadito.
Discussione fuorviante, però: lo ripeto. Per una ragione essenziale: perché non affronta il tema più spinoso, cioè qual genere di strumento siano le intercettazioni, a cosa debbano servire, e dunque entro quali limiti sia bene consentirne l’utilizzo. Anche nell’intervento che il Ministero ha elaborato, a quel che si capisce, pare che l’unico nodo che il legislatore deve affrontare riguardi la diffusione del loro contenuto. È sorprendente allora apprendere che, in base alla bozza, il magistrato potrà  disporre la trascrizione delle intercettazioni in un solo caso, quando “il pm ne valuti la rilevanza per i fatti oggetto di prova”. È sorprendente non perché sarebbe una misura troppo restrittiva, come ritiene il partito giustizialista che vorrebbe poter leggere di tutto e di più, ma perché non è chiaro per quale motivo si dovrebbe fornire la parafrasi di tutte le altre intercettazioni, di quelle cioè che non abbiano rilevanza per i fatti oggetto di prova. Di queste intercettazioni si fornirà, avvolto in circonlocuzioni e parafrasi, il contenuto. Ma la domanda inevasa è: se non sono rilevanti per i fatti da provare, per cosa sono rilevanti? E più in generale, cosa bisognerebbe augurarsi che abbia rilievo per il diritto penale, ai fini dello svolgimento del processo, oltre a quel che riguarda i fatti costituenti reato? In verità, la sfera di questa rilevanza si è di molto ampliata, e da tempo, finendo col riguardare cose come le condotte, l’ambiente, il contesto, la personalità di quanti sono fatti oggetto di indagine. Sempre al fine di restituire meglio la materia su cui un giudice dovrà infine giudicare, ma col risultato che nei faldoni delle inchieste ci può ormai finire la qualunque. Ora c’è (o ci sarebbe) uno stop alle parole espresse, direttamente pronunciate dalle persone intercettate. Ma la qualunque, sia pure parafrasata, rimane la qualunque.
Certo, non è facile tirare una linea. E lo è sempre meno, quanto più ci si è allontanati da una concezione liberale del diritto, in cui si cerca per principio di restringere il più possibile i margini di interpretazione nella  qualificazione giuridica dei fatti, si tende a preferire la certezza all’efficacia, e non si sacrifica il rispetto di tutele e garanzie al perseguimento dei reati.
Ma la cosa riesce ancora più difficile quando le più pensose considerazioni su quale diritto, per quali procedure e quali processi, vengono sostituite dalla brama di fare nero il malcapitato di turno, si arrivi o no a sentenza. Perché questo è troppe volte diventato il vero movente della diffusione del contenuto delle intercettazioni: qualche volta per merito della stampa (il che ci può stare, se e nella misura in cui la stampa mantiene, in democrazia, una funzione di contro-potere), qualche altra volta invece per colpa di certi pm, che, forse per tema di non farcela in tribunale, si prendono intanto la briga di dare avvio al processo sui giornali.
 Il tempo di dare attuazione alla delega non è molto, questo è vero. Ma è auspicabile che, nella fase avviata con questa prima relazione illustrativa fatta circolare negli uffici giudiziari, venga usato nel migliore dei modi. Non per portare a casa un risultato pur che sia, ma per correggere convinzioni e prassi fin qui assai dubbie.
(Il Mattino e Il Messaggero, 9 settembre 2017)