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Il referendum decisivo per il futuro

272175433-giocare-a-carte-carta-da-gioco-tavolo-da-gioco-pokerE di nuovo ieri il premier Matteo Renzi ha ribadito, parlando in chiusura della festa nazionale del partito democratico, a Catania, la disponibilità a rivedere la legge elettorale. Lo aveva detto anche il giorno prima, ed era sembrato che fossero quelle le parole più importanti del suo intervento a tutto campo. Se le si guarda dal punto di vista della lotta politica – e dal punto di vista più limitato della lotta politica all’interno della maggioranza – lo sono indubbiamente. La minoranza del Pd, con Cuperlo e Speranza, continua a chiedere modifiche dell’Italicum. Lo stesso fanno i centristi, da Alfano a Casini. Quando dunque Renzi si dichiara disponibile a intervenire sulla legge, parla innanzitutto a questi settori. Quando però prova a rilanciare l’iniziativa politica, parla a tutti gli italiani. E allora le parole più importanti divengono altre: «una riforma elettorale si cambia in 3-5 mesi, una riforma costituzionale no». Non sarà un diamante, e non sarà per sempre, ma una riforma costituzionale dell’ampiezza di quella in discussione ha, non può non avere l’ambizione di durare per un bel pezzo. Abbiano o no ragione quelli per i quali l’Italicum non è il vestito giusto per l’attuale sistema politico tripolare – e tra di loro c’è anche il presidente emerito Napolitano, primo sponsor delle riforme – è persino ragionevole mostrare disponibilità sul terreno della legge elettorale, per portare a casa un risultato molto più durevole sul terreno delle riforme.

Un risultato, cerca di dire Renzi, capace di futuro. Tutto il discorso di Catania di ieri aveva questo significato. Dalla parte del sì sta il futuro del paese, dalla parte del no stanno i fallimenti della seconda Repubblica. Sta il passato, sta un’altra stagione della vita politica italiana ormai conclusa. E ovviamente sta Massimo D’Alema – sceso in campo come leader del no alla riforma – che più di tutti la incarna. Renzi prova a rilanciare l’iniziativa politica, a raccontare le riforme del suo governo (le unioni civili, la scuola, il jobsact) e i buoni propositi per l’anno venturo (primo fra tutti la riduzione delle tasse).

Ma soprattutto torna ad essere quello che sta davanti, con gli altri ad inseguire. Complici infatti le difficoltà dei Cinquestelle – ancora incartati con il caso Roma e i dolori della sindaca Raggi –, complici le guerre intestine nel centrodestra – con l’investitura di Parisi, voluta dal Cavaliere ma osteggiata dalla dirigenza del partito –, il presidente del Consiglio torna a dare le carte. A mettersi al centro degli equilibri e delle prospettive di governo del Paese. Tutto però dipende dalla capacità di apparire non come quello che vuol sfangarla, sopravvivendo alle forche caudine del referendum, ma come quello che cambia l’Italia. Il viatico è dunque la legge elettorale («sia che la Corte costituzionale dica sì, sia che dica no»), ma l’orizzonte è l’Italia del futuro. La prima è la polpetta che i partiti devono dividersi (se ci riescono, il che non è affatto scontato), ma il secondo è l’elemento davvero decisivo di cui ci si deve impadronire. La vittoria al referendum è insomma legata, per Renzi, alla possibilità di allestire uno scenario che coinvolga tutto il paese e non solo le sue classi dirigenti, che rimangono incerte spaventate o divise dal salto in un nuovo sistema politico-istituzionale.

Al premier, del resto, non manca il dinamismo per condurre questi due mesi, due mesi e mezzo di campagna elettorale all’attacco, su più fronti. Cercando sponde internazionali. Girando per l’Italia. Parlando a tutto campo. Mettendo anche un po’ di furbizia nell’orientare l’attività politico-parlamentare delle prossime settimane (vedi alla voce: legge di stabilità). E aprendo canali di comunicazione anche là dove, fino a poco tempo fa, si era al muro contro muro. A Napoli è così. Oggi il premier è in Campania, per una serie di appuntamenti in cui non gli mancherà certo il modo di confermare, insieme all’attenzione per il Mezzogiorno portata avanti con i patti per il Sud, questa nuova linea dialogante. E in serata, per l’evento organizzato da «il Mattino», siederà nel palco reale del San Carlo insieme al sindaco Luigi De Magistris. Certo, è una serata di gala, non un incontro istituzionale. Ma è, o può essere anche l’occasione per mostrare di avere il vento nelle vele anche alla città più «derenzizzata» d’Italia. A cui stasera in fondo si tornerà a chiedere se convenga continuare il gioco comunardo della repubblica indipendente, o unire il proprio destino a quello del resto del Paese.

(Il Mattino, 12 settembre 2016)

La Grande Scorciatoia

Quando, nell’agosto del 2005, Mario Monti rilasciò a La Stampa l’intervista alla quale ha voluto riferirsi due giorni fa, concedendone un’altra allo stesso giornale, si sollevò un dibattito ampio e animato intorno all’ipotesi formulata con grande precisione dall’ex commissario europeo: “non  un partito di centro ma un’operazione di centro, nel senso che richiede il convergere di sforzi da destra e da sinistra ed è indispensabile non solo alla sopravvivenza del mercato ma della stessa democrazia”.

Come adesso, così anche allora mancava circa un anno alle elezioni; anche allora, il centrodestra non aveva dato prova di buon governo. Monti però dava un giudizio non lusinghiero non solo sul governo Berlusconi, ma anche sull’opposizione. A suo giudizio, né il centrodestra né il centrosinistra avrebbero potuto realizzare quelle “riforme liberali” di cui il paese aveva impellente bisogno.

Il centrodestra perse le elezioni, il centrosinistra le vinse di un’incollatura e franò poi al governo: le tanto attese riforme non furono fatte, coi risultati che sappiamo (aggravati da un nuovo ciclo berlusconiano, l’ultimo e certo il peggiore). In continuità con il giudizio di allora, il Monti di ora attribuisce dunque all’attuale esperienza di governo il valore di primo passo in direzione dell’“operazione di centro” già prospettata nel 2005.

Monti riprese nuovamente la parola una settimana dopo, sul Corriere, per rispondere alle critiche. Gli fu facile lasciar cadere le obiezioni fondate sulla debolezza delle forze politiche di centro, e più chiara si fece l’idea che l’operazione somigliava piuttosto a una grande coalizione che a un grande centro. Il punto stava per lui nel fatto che, sotto il profilo del governo dell’economia, i due poli erano più vicini fra loro di quanto non lo fossero al loro interno. Quanto ciò fosse vero allora e sia vero oggi è difficile a dirsi. Sensibile poi all’argomento di quanti gli avevano fatto osservare che una grande coalizione avrebbe cancellato “l’unico progresso istituzionale fatto dall’Italia dopo gli scandali degli anni Novanta” (Sergio Romano), cioè l’alternanza fra i due poli, rispose che considerava anche lui il bipolarismo un passo avanti, e tuttavia non poteva non notare che tutti i difensori dell’assetto bipolare riconoscevano la necessità di miglioramenti così sostanziali, che, in assenza, il sistema politico si presentava piuttosto come “una grande frittata che non funziona” (Giovanni Sartori).

E così siamo, io credo, al punto. Non però allo stesso punto di allora. Non solo perché si è realizzata una delle condizioni che agli occhi degli osservatori impediva il realizzarsi dell’operazione, cioè l’uscita di scena di Berlusconi (e da ultimo pure di Bossi), ma perché nelle stesse parole del Monti di allora stava la consapevolezza che la grande coalizione era un’ipotesi subordinata rispetto alla prima urgenza, cioè un sistema politico da riformare. Il che era tanto più vero in quanto, nelle parole di Monti, ad essere minacciata non era solo la sopravvivenza del mercato, ma della stessa democrazia.

Quel che allora accadde, grazie alla sciagurata introduzione del Porcellum, fu in realtà studiato apposta non per riformare il sistema politico, ma per incepparlo ulteriormente – cosa che in effetti non mancò di accadere con la striminzita vittoria dell’Unione. Ex contrario, sappiamo cosa ci occorre innanzitutto oggi: far ripartire la politica. E dunque: il superamento del Porcellum e la riforma istituzionale, meglio ancora se accompagnata dall’attuazione dell’art. 49 della Costituzione (quello che recita: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”).

Tanto più che sono ancora le parole di Monti (questa volta dell’ultimo Monti) a richiamare implicitamente la necessità che si delineino chiare visioni politiche alternative, non offuscate da supposte neutralizzazioni tecniche. Monti mantiene infatti la caratterizzazione dell’attuale esperienza di governo come tecnica, distinguendola da una “nuova fase di governi politici”. A questa distinzione si deve certo obiettare che tutti i governi sono politici, nella misura in cui ricevono in Parlamento il sostegno delle forze politiche, ma è evidente che la più forte ragione per mantenerla da parte del Presidente del Consiglio è non la competenza professorale sua e degli altri ministri (in fondo, anche Prodi era un professore universitario, anche se non bocconiano), bensì l’esigenza di mettere il governo al riparo della cattiva fama di cui godono i partiti. Segno che, di nuovo, è da lì che bisogna ripartire, se non si vuole assecondare definitivamente un clima e una piega, che, complici gli ultimi eventi, non promette nulla di buono. Non tanto o non solo per i mercati, che peraltro sono forti abbastanza per far sentire le loro ragioni, quanto per la tenuta della democrazia, le cui ragioni, dopo tutto, tocca ancora ai partiti far valere.

L’Unità, 6 aprile 2012