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Sud & storia. Ma la memoria non è una sola

Penone

G. Penone, Continuerà a crescere tranne in un punto (1968)

«Ricordo che quando andai a Caprera, in Sardegna, nel periodo in cui lavoravo al film, il custode della casa – museo di Garibaldi volle mostrarmi la pallottola che avevano estratto dalla gamba del Generale. E mi disse che quella era la pallottola con cui i Borboni avevano sparato a Garibaldi. I Borboni, mi disse: non l’esercito italiano».

In procinto di girare il suo prossimo film, Mario Martone ha accettato volentieri di tornare a riflettere sul Risorgimento italiano, al quale ha dedicato un film importante, bello e teso, «Noi credevamo», uscito nel 2010. L’occasione è la proposta di una giornata in memoria delle vittime meridionali dell’unificazione nazionale, che, su proposta del Movimento Cinque Stelle, ha avuto il voto di quasi tutto il consiglio regionale pugliese, compreso quello del Presidente Emiliano.

«Una proposta assurda, figlia di una grande confusione, di tutto quello che denunciavo quando ho fatto «Noi credevamo». Noi italiani abbiamo un rapporto falsato col passato. Abbiamo tutta una serie di incrostazioni, di letture sbagliate della storia che chiaramente inquinano anche il nostro presente. E questa proposta ne è la dimostrazione. Ma proprio perciò le ho raccontato del custode di Caprera: perché mostra come per il senso comune Garibaldi non potesse essere stato ferito dall’esercito italiano (come in realtà fu). Questo vuol dire che la realtà storica è semplicemente ignota o incomprensibile per larga parte degli italiani.

Martone non sceglie esempio casuale. Il suo film si chiudeva proprio con i fatti del 1862, quando tra i monti dell’Aspromonte avvenne lo scontro a fuoco tra i volontari garibaldini e l’esercito regolare intenzionato a bloccare il generale che tentava di risalire nuovamente la penisola per conquistare Roma. L’Unità d’Italia era stato il capolavoro politico di Cavour, non certo la vittoria di Garibaldi. E il film racconta fin dal titolo quante contraddizioni, quante disillusioni e anche quali fallimenti furono vissuti in quegli anni all’ombra delle grandi imprese risorgimentali.

«Nel senso comune manca un’idea dei contrasti che vi furono allora. Non è entrata l’idea che le visioni dell’Italia durante il Risorgimento sono state non semplicemente diverse, ma contrapposte – da un lato i monarchici, dall’altro i repubblicani; da un lato i moderati, dall’altro i democratici –. Queste cose naturalmente ci sono nei libri di storia. Ma nel senso comune questa verità non è passata. Gli italiani hanno un loro pantheon di signori con la barba, che mette insieme indistintamente Vittorio Emanuele, Giuseppe Garibaldi, il conte di Cavour, Mazzini. È ovvio che in questa fase di populismi, di demagogia dilagante, diventino un unico avversario da abbattere in blocco. Ma è una falsificazione della realtà storica. Non ci si rende conto così che Mazzini e Cavour non possono trovarsi insieme in uno stesso Pantheon. Furono acerrimi nemici. Avevano idee politicamente opposte: su come costruire l’Unità d’Italia, come affrontare il rapporto col Meridione, come affrontare tutti gli aspetti della vita civile».

Martone parla con grande rispetto del lavoro storiografico. E racconta di quanto lui stesso, insieme a Giancarlo De Cataldo, hanno potuto attingere dai libri di storia nella preparazione del film. Ma il punto che evidentemente gli preme non riguarda la mera accuratezza della ricostruzione storica, quanto piuttosto “l’uso della storia per la vita”, cioè nel presente, nell’Italia di oggi.

«Dovunque son andato, in giro nel Mezzogiorno, per presentare il film (eravamo a ridosso del centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia) ho sentito le critiche, la rabbia, il fastidio verso le celebrazioni, a volte l’odio. Era ed è molto doloroso. Ma domando: tutto questo può mai trasformarsi in una nostalgia per i Borboni? Non significa tornare indietro, e dico: indietro rispetto non tanto ai dibattiti sul passato, ma ai dibattiti sul nostro presente? D’altra parte, cosa vuoi dire a un ragazzo del Sud oggi, cosa dire a generazioni completamente sfiduciate, quando gli racconti cosa è successo allora? Io penso che si tratta non di alimentare nostalgie per il regime borbonico; semmai, di fargli conoscere Pisacane, di farlo appassionare alla sua storia. Ma per questo il blocco unico del Pantheon ufficiale non aiuta. Pisacane era un repubblicano, stava per dir così sul lato opposto rispetto a quelli che hanno fatto l’Unità d’Italia con i Savoia. E lo stesso Garibaldi: tutti ricordiamo il suo famoso “Obbedisco!”. Voleva dire: mi piego per ragioni di opportunità politica. Fu la scelta giusta, che altro doveva fare? In quel momento le condizioni storiche portavano a questo, e la liberazione di Napoli significò la consegna del Regno a Vittorio Emanuele II. Ma Garibaldi aveva tutt’altro animo, era anche lui un repubblicano. E del resto la vera impresa eroica di Garibaldi fu la Repubblica romana. La Repubblica romana è la vera luce del risorgimento.  Allora io farei una giornata della memoria: ma per ricordare le vittime della Repubblica romana, le vittime di un sogno che è stato calpestato.

Le armi borboniche, in effetti, erano puntate contro la Repubblica romana. Ma voglio ricordare cosa ha scritto Alessandro Leogrande a proposito del suo film: “Che siano esistiti dei patrioti meridionali, dei democratici meridionali, e che questi siano stati stritolati da una Storia travagliata, è la miglior risposta da dare a chi oggi intende riscrivere il nostro Ottocento. Non solo da Nord (da un certo Nord) sparando su tutto ciò che odora di unità. Ma anche da Sud (da un certo Sud), sostenendo che il Risorgimento è stato fatto unicamente da «criminali» al sevizio dei piemontesi «simili ai nazisti», e che quello delle Due Sicilie era in fondo un regno fiorente e liberale».

«Ma certo. Il sentimento dell’unità d’Italia è stato un sentimento straordinario, costruttivo, moderno. Sputare su di esso è orribile. Che modo di ragionare è quello di dividere geograficamente, invece di confrontarsi politicamente? Altro però è chiedersi, come io ho provato a fare, quali opposte visioni si scontrarono. Altro è lo scontro politico interno al processo risorgimentale, che – io credo – si prolunga ancora adesso. A che serve allora una generica giornata per le vittime meridionali? Dentro l’unificazione hanno convissuto non uno, ma due sentimenti unitari. Mazzini è morto da clandestino. Cavour aveva deciso per tempo in quale piazza doveva andare eseguita la sua condanna capitale. Quella piazza è a Genova, e oggi c’è invece un monumento a Mazzini. Ma il sentimento che animava i repubblicani – i Mazzini, i Garibaldi, i Pisacane – non si misurava nel senso dell’annessione ma nel senso dell’unione».

Lei ha detto che nel senso comune c’è solo una versione semplicistica, e in fondo agiografica, del Risorgimento. A me colpisce quanto poco il cinema (che sa entrare nell’immaginario collettivo di un popolo) si sia occupato di Risorgimento. Non c’è paragone, mi pare, con l’epopea resistenziale. Ci sono i film di Visconti, c’è un film di Rossellini, i Taviani di Allonsanfàn, Florestano Vancini, i film in costume di Luigi Magni e naturalmente anche qualcos’altro. Ma non mi pare ci sia la costruzione di una vera e corale narrazione risorgimentale.

«Che i film non siano stati tanti dimostra quel che dicevo, la difficoltà di rapporto del nostro Paese con la sua storia e con l’unità d’Italia. L’Ottocento risorgimentale avrebbe potuto dar luogo a una vera e propria mitologia: come gli americani sono riusciti a fare con il West, trasformando in un mito (mito universale, che vale anche per noi) la nascita di una nazione. Ma un mito va affrontato prendendolo di petto. Cosa che noi non abbiamo fatto. Abbiamo invece costruito il nostro Pantheon posticcio. E alla costruzione ha ovviamente dato un contributo decisivo il Ventennio fascista. Ma più in generale io continuo a domandarmi se non rimanga vero che la complessità dei fatti risorgimentali rimanga fuori dalla coscienza collettiva. Come se certe cose non si potessero dire. Come se certi conflitti non si potessero esplicitare. Ed è un problema del nostro Paese, per cui o i conflitti si affrontano con le armi in mano oppure li si rimuove e non li si riesce fare terreno di una dialettica vera, reale.

Tra le cose che nel senso comune passano in maniera distorta c’è anche, a me pare, il rapporto con il Mezzogiorno. O forse è vero che questo rapporto è stato profondamente distorto nell’ultimo quarto di secolo. Il film vede le cose dalla prospettive meridionale, inizia e finisce il suo racconto al Sud. Lei trova che anche su questo tema delle divisioni d un Paese troppo lungo vi sia una vulgata che si tratta di mettere in questione?

Temo di dire cose note. Il processo di unificazione è stato un processo di annessione. È un fatto: si è sviluppato in questo modo. Basti pensare a un episodio, la vicenda più amara per Garibaldi, che spiega tutto. Mi riferisco al fatto che la stragrande maggioranza dei garibaldini, i famosi Mille, sono stati di fatto abbandonati; non furono stati arruolato nell’esercito italiano. È stata la cosa che più di ogni altra ha devastato l’animo di Garibaldi, che più gli ha provocato delusione ed amarezza. Se di unità si trattava, chi ha combattuto dallo stesso lato doveva ritrovarsi anche dopo l’Unità d’Italia. Non fu così. Questo dice tutto sul modo in cui è avvenuto il processo unitario. Che è avvenuto a danno del Sud: neanche su questo – mi pare – ci sono più molti dubbi. Ovviamente la mia prospettiva è quella di un uomo del Sud. I protagonisti del mio film sono cilentani. Ma tengo a dire: non è un punto di vista non anti-unitario, ma è il punto di vista di chi racconta la possibilità di un’unità diversa. Che sarebbe potuta essere e che non è stata. E la celebrazione della giornata delle vittime meridionali dell’unificazione sarebbe di offesa per tutti i meridionali che hanno sacrificato la loro vita per la causa unitaria.

Le chiedo ancora qualcosa a partire dal suo film. Dalle cose che vi mancano. Da un lato i grandi eventi, le grandi battaglie, il 1860. La visione laterale fa sì che i momenti cruciali della storia – che so: l’incontro di Teano – non vi compaiano. Qual è il senso di questa scelta? L’altra cosa che manca è la città. Dico la città del Mezzogiorno, Napoli. Per chi conosce il suo rapporto con Napoli, per chi conosce la sua filmografia – a partire al primo film, Morte di un matematico napoletano – è un taglio che colpisce. Nel film si vedono salotti piemontesi (o parigini) e campagne meridionali.

«Ho cercato, insieme a Gianfranco di Cataldo, di portare ad evidenza tutte le zone d’ombra del processo risorgimentale. Perciò non ci sono le pagine famose. Perfino la Repubblica Romana, che pure è centrale per lo svolgimento del film, non c’è. Ho cercato invece di portare sulla scena i conflitti che ai miei occhi di cittadino italiano mi sono sempre parsi nascosti.

D’altro lato, è vero: il Sud certamente è campagna. È una scelta sociale. Il Sud era ben altro che il Paese di Bengodi che i nostalgici borbonici vogliono farci credere. Vigevano leggi di carattere feudale dal punto di vista sociale. Condizioni sociali e di vita faticosissime. Io non discuto quale fosse stato il bilancio e la prosperità del Regno. Mi domando però quali sperequazioni ci fossero al suo interno. Questo era il contenuto sociale dell’idea che del processo di unificazione avevano i repubblicani, ai quali guardo nel film. Quanto questo contenuto poteva stare a cuore dei monarchici? Nulla. Basta invece leggere la Costituzione  della Repubblica Romana, difesa da Garibaldi e Mazzini, per trovarvi cose come il suffragio universale, le terre ai contadini. C’era un’idea di un vero progresso sociale che doveva accompagnare il moto risorgimentale. C’era l’idea di uguaglianza. Con la sconfitta dell’idea unitaria repubblicana è questo il sogno che svanisce. Riportandoli a una dimensione di nostalgia borbonica, noi certo non onoriamo le vite dei meridionali che si sono battute per questo sogno. Ma a questo sogno è dedicato il film».

A proposito del titolo, “Noi credevamo”. Quello che colpisce non è solo la declinazione al passato, che accentua la dimensione del disincanto e della disillusione (lè la chiusa del film: “Eravamo tanti. Eravamo insieme. Noi credevamo”). Ma anche la scelta di un soggetto plurale, collettivo, che sembra essere il soggetto politico mancato, disatteso, di tutta la vicenda nazionale.

«Ma quel noi è vivo ancora adesso. Come sa, il titolo viene dal libro di Anna Banti, così come una robusta parte del film (poi il film racconta molte altre cose, per cui non è una messinscena del romanzo). Ma Noi credevamo implica anche un presente.

Siamo noi, oggi, quelli che credevano ieri?

Ma certo. Il punto in questione siamo noi oggi. Che cosa vogliamo fare del nostro passato e del nostro futuro. riusciamo a recuperare un rapporto sincero, onesto, pieno col passato? Farlo però significa anche recuperare una prospettiva politica: che ha perso, che è stata sconfitta.

Un’ultima domanda vorrei farle. E riguarda il giudizio sulla politica che viene fuori dal film. Non dico sui singoli protagonisti, ma sulla politica nel suo insieme. Uno degli elementi su cui si gioca il film è la contrapposizione fra gli ideali che vivono nella clandestinità, nella cospirazione, nella lotta armata, e il piano lontano, distante, cinico, dei giochi politico-diplomatico-militari. L’impressione è che l’agire politico, schiacciato sulla dimensione della “politique d’abord”, ne esca con le ossa rotte.

«Lei pensa a Francesco Crispi»

Ecco, non voglio dire che la sua figura è più complessa di come compare nel film, non sono uno storico, ma mi interessa una riflessione su questa contrapposizione. Anche dal punto di vista del ragazzo che oggi vede il film .

«Il ragazzo che oggi vede il film non è scoraggiato da ciò che vede, ma da ciò che ha intorno a sé. Il problema non è all’interno del film ma all’interno della politica italiana ed europea. Ecco: partiao dall’Europa. È molto evidente nel difficilissimo rapporto che c’è tra come è governata l’Europa negli alti livelli finanziari, politici, e la sostanza di vita dei cittadini europei. Si ripropone a livello europeo qualcosa che ha attraversato la nostra storia italiana: una sorta di costrizione dei vasi di comunicazione fra i bisogni delle persone e l’elaborazione politica che soffoca il sogno europeo. I vasi continuano a essere molto stretti.

Ciò che portava alla disillusione allora porta alla disillusione oggi. La sperequazione è la stessa. Anche oggi possiamo chiederci: è l’Europa un continente povero? Non che non lo è. Il problema è la distribuzione della ricchezza. Il problema è quello che accade fra la Germania e la Grecia. Come vede, il discorso si riapre. Ed è qui che si infilano le semplificazioni populiste. Ma per rifiutarle occorre vedere il problema in tutta la sua verità e complessità, mettendo in luce i conflitti che attraversano la realtà politica europea, non solo italiana. Glielo dice uno che ama l’idea di un Europa unita. A maggior ragione bisogna allora battersi contro l’idea di un’Europa unita per annessione.

A maggior ragione bisogna provare a declinare un’idea di eguaglianza a livello europeo, e far passare un’idea dell’unificazione non come un’annessione tedesca, ma come qualcosa che spinge da tutti i lati».

Qualcosa che spinge da tutti i lati. In tempi di disaffezione dalla politica, di disincanto e di scarsa partecipazione alla cosa pubblica, questa immagine della vita civile e politica come una cosa mossa da tutti i lati mi sembra davvero uno dei migliori antidoti alle volgarizzazioni populiste e alle nostalgie neo-borboniche. E chissà, magari si ritroverà anche nel prossimo film che Martone si appresta a girare.

(Il Mattino, 11 agosto 2017)

Un futuro per il Sud

 

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M. Pistoletto, Venere degli stracci (1967)

Idiozie, stupidaggini, follie. Non usa mezzi termini, Adriano Giannola, per bollare la proposta di una giornata in memoria delle vittime dell’unificazione italiana, avanzata in Puglia dal gruppo consiliare dei Cinquestelle e sostenuta con voto quasi unanime, compreso quello del Presidente Emiliano. Ma a fargli scuotere il capo non è tanto il merito della proposta, quanto il fatto che il dibattito sulle ragioni del Sud devii verso questioni del tutto anacronistiche, lontane dai problemi veri del Mezzogiorno. Ha una voce sottile ma ferma, che a volte sembra alzarsi come quella di un profeta inascoltato. E parla piano ma senza mai smarrire il filo del ragionamento:

«Si tenta di spiegare il divario Nord/Sud recriminando sulle ingiustizie passate. Il problema è invece rivendicare oggi – con molta determinazione, con argomenti e con buon senso – un ruolo diverso per il Mezzogiorno. C’è un cortocircuito che viene da lontano, almeno dagli anni Novanta, alimentato quasi ad arte da politiche sbagliate. E che oggi si manifesta nel modo più deteriore con queste scorciatoie verso nulla. Queste celebrazioni di nulla».

Nulla, beninteso, cioè priva di significato e persino controproducente è la piega presa da questo meridionalismo recriminatorio che veste i panni nostalgici di un improbabile revival neoborbonico. Non lo è certo una lettura attenta e non agiografica della storia d’Italia:

«Basta prendere Cavour. Cavour muore al momento dell’Unità. E muore raccomandandosi al Re – così racconta la nipote – perché l’Italia del Settentrione è fatta “ma mancano i napoletani”. Intende naturalmente il Regno delle due Sicilie. E si raccomanda proprio al Re, che lo va a trovare nelle sue ultime ore: «Niente stato d’assedio, nessun mezzo di governo assoluto. Tutti son capaci di governare con lo stato d’assedio. Io li governerò con la libertà e mostrerò ciò che possono fare di quel bel paese dieci anni di libertà. In vent’anni saranno le province più ricche d’Italia. No, niente stato d’assedio. Ve lo raccomando”. Insomma: mi sembra che avesse le idee chiare».

Le aveva, certamente. E aveva qualche ragione anche di dire che “non sarà ingiuriandoli che si modificheranno i Napoletani”.

«Ma lo stato d’assedio ci fu. Massimo D’Azeglio, sempre nell’agosto del 1861, su un giornale francese scrisse: “La questione di Napoli – restarvi o non restarvi – mi sembra dipendente soprattutto dai napoletani, a meno che non si voglia, per la comodità delle circostanze, cambiare i principi che abbiamo sin qui proclamato […]. Anche a Napoli abbiamo cambiato il sovrano per instaurare un governo eletto dal suffragio universale. Ma occorrono, e pare che non bastino, sessanta battaglioni per tenere il Regno; ed è noto che briganti e non briganti sarebbero d’accordo per non volere la nostra presenza. […] Dunque deve essere stato commesso un errore. Dunque bisogna cambiare le azioni e i principi e trovare il mezzo per sapere dai napoletani, una volta per tutte, se ci vogliono o non ci vogliono”. E poi conclude: “Agli italiani che, pur restando italiani, non intendono unirsi a noi, non abbiamo il diritto di rispondere con le archibugiate invece che con gli argomenti”. In realtà si rispose con le archibugiate e con lo stato d’assedio. Quindi che ci sia stata una guerra civile – anche interna al Mezzogiorno, tra quelli che erano a favore e quelli che erano contro l’unificazione – è fuor di dubbio».

L’uso del concetto di guerra civile a proposito del brigantaggio postunitario è ben presente nel dibattito storiografico degli ultimi decenni (per esempio nei lavori di Salvatore Lupo). Ma il punto, per Giannola, non riguarda affatto la ricerca storica:

«In quegli anni, esattamente in quegli stessi anni, c’è stata la guerra civile negli Stati Uniti. Non mi sembra che lì si ponga una questione del Sud e del Nord negli stessi termini che da noi. Negli USA ci sono stati quattro anni di guerre civili, massacri enormi perpetrati da battaglioni con l’uniforme. Il Nord ha vinto, il Sud ha perso. Ma gli Stati Uniti sono gli Stati Uniti. E certo non stanno a discutere di fare la giornata per le vittime della Secessione.

Che senso ha allora scoprire da noi che c’è stata una guerra civile? I briganti non erano soltanto dei briganti: e allora? Dopo vent’anni di stupidità assoluta in cui il localismo l’ha fatta da padrona – questo il vero dramma – siamo a discutere di cosa? Di quali idiozie? Che cosa pensiamo di rivendicare, con ciò? Bisogna invece fare i conti con la realtà. Non è così che si sostiene la causa del Sud».

Però c’è un partito che sostiene che il Sud si è caricato con l’unificazione di un enorme fardello. Che l’unità d’Italia ha penalizzato l’economia meridionale. Che al momento dell’unificazione il divario fra le diverse aree del Paese non era così ampio com’è stato in seguito:

«In questa diatriba tocca andarci coi piedi di piombo perché è vero che, quale che fosse prima dell’unificazione (ed io penso che c’era ma non era così enorme), il divario Nord/Sud peggiora. Comincia anzi a peggiorare vent’anni dopo l’Unità, per tutta una serie di motivi che la storiografia ha saputo indagare. Ma in generale è vero: connettere il Nord al Sud (i grandi lavori, le ferrovie), in un quadro di politica liberale, fece aumentare il divario perché era più facile concentrare risorse nella parte più sviluppata del Paese. Paradossalmente, l’infrastrutturazione ruppe le barriere per dir così naturali favorendo la concentrazione al Nord.

Ma dal punto di vista sociale (età media, mortalità infantile, analfabetismo) il Mezzogiorno ebbe invece un recupero incredibile. Quindi stiamo attenti perciò a dire che il Mezzogiorno ha pagato economicamente e socialmente. È molto più complesso. Certo, a un certo punto le convenienze di mercato avvantaggiarono il Nord. Ma la differenza di fondo che mi interessa è che allora il Mediterraneo contava molto, molto poco, mentre oggi conta molto di più».

Giannola vuole venire ai giorni nostri, al presente. Al modo in cui ricostruire le ragioni di un nuovo meridionalismo. Alle sfide che l’Italia, non solo il Mezzogiorno, ha dinanzi. Ai nuovi scenari geopolitici che si aprono oggi per il nostro Paese:

«Vogliamo collocare l’Italia in Europa? Vogliamo capire per il Sud cosa significhi questa nuova collocazione? Il baricentro cambia, si va verso Sud. Possiamo essere la sponda del Mediterraneo ora che il nostro mare torna ad essere fondamentale via di commercio. Se l’Italia ha un minimo di consapevolezza e di visione è il momento che il Mezzogiorno abbia il suo ruolo. Queste sono le condizioni da discutere, non è di guerra civile e di Risorgimento che dobbiamo parlare. Costruiamo su queste basi il ragionamento sul Paese, sul Nord e sul Sud. In questi anni non siamo stati vittime, ma (mi perdoni la parola) cretini, perché abbiamo rinunciato a una strategia, perché abbiamo accettato tante idiozie ben vestite sul piano culturale, perché abbiamo smantellato l’unica cosa seria che abbiamo fatto dall’Unità in poi, l’intervento straordinario».

Su cui però il giudizio comune non è così univocamente lusinghiero.

«Dal ‘57 al ‘73-’74, checché se ne dica, è avvenuto questo: con trasferimenti molto contenuti il Sud è cresciuto più del Nord, il divario del reddito pro capite è diminuito di ben dieci punti.

Quel disegno è stato in seguito abbandonato e addirittura demonizzato. Dalla crisi petrolifera in poi si è persa la capacità strategica di destinare risorse allo sviluppo. E i trasferimenti, anche maggiori rispetto agli anni passati, sono diventati solo uno strumento di assistenzialismo improduttivo. Non a caso se sono quelli gli anni in cui nascono le Regioni e i poteri decentrati.

Ma la questione italiana è di nuovo la questione del Paese intero. I segnali ci sono perché il Mezzogiorno torni ad essere centrale: non per idealità, ma per interesse nazionale. Come è stato del resto all’indomani della seconda guerra mondiale, con la riforma agraria e l’intervento per il Mezzogiorno, che insieme posero le basi del miracolo economico».

A me però colpisce il fatto che nel Mezzogiorno prosegue invece lo smottamento dei temi su cui si fonda la legittimazione dello Stato nazionale. Come se dalla disgregazione del tessuto nazionale il Sud avesse da guadagnarci e non da perderci.

«Vediamo allora cosa succederebbe se tornassimo a prima dell’Unità. Checché se ne dica, il Sud riceve dal Nord il 25% delle sue risorse. Non si tratta di carità: l’Italia è uno Stato nazionale e non uno Stato confederale. Vi sono diritti di cittadinanza (la scuola, la sanità) che è giusto – ed è soprattutto efficiente – che le risorse vadano a garantirli in modo uguale a Palermo come in Val d’Aosta. Poi in realtà essi non sono garantiti per cui il Mezzogiorno ha molti crediti, ma certo non per i torti subiti nel passato. Ma se fossimo indipendenti sarebbe un dramma. L’impatto sarebbe immediatamente negativo in termini di trasferimenti di risorse verso Nord e di enormi conseguenze sociali ed economiche».

E allora torniamo all’oggi. Come giudica il lavoro di quest’ultima legislatura?

«Oggi è un momento propizio. Il governo Renzi lanciò il cosiddetto Masterplan per il Sud. Certo, l’iniziativa aveva anche una finalità propagandistica, ma ha consentito di recuperare un minimo di direzione. Oggi il Ministro della Coesione territoriale e Mezzogiorno ha voce in capitolo per indicare priorità. Può addirittura arrivare a dire che almeno il 34% degli investimenti pubblici deve essere fatto nel Mezzogiorno, altrimenti salta il Paese. È una novità non da poco. E non è assistenza, è esattamente il contrario.

Penso, ancora, alle zone economiche speciali. Sono strumenti che dovrebbero diventare immediatamente preda delle Regioni, perché le facciano, perché si coordinino in un disegno nazionale. Rifare i porti di Napoli o di Taranto non è un problema di Napoli o di Taranto ma dell’intero Paese. Un problema di intercettare i flussi di merci che provengono dalla Cina e di sfruttare i vantaggi enormi che ci derivano dalla nostra posizione di perno del Mediterraneo. Mi lasci dire: l’Italia è uscita dal Medioevo grazie alle Repubbliche marinare: dovremmo ricordarcene. Se però facciamo scappare i cinesi in Grecia, nel Pireo, per via di incredibili lungaggini burocratiche, e intanto parliamo della Giornata della memoria, ci rendiamo colpevoli di un fallimento strategico».

Non sarebbe l’unico fallimento strategico, nella storia del Sud d’Italia. Una cesura si è senz’altro prodotta negli anni Settanta, come prima ricordava. Ma un’altra cesura più recente cade con la fine della prima repubblica, quando la questione meridionale viene soppiantata dalla questione settentrionale agitata anzitutto dalla Lega.

«Quegli anni sono anche gli anni in cui finisce formalmente l’intervento straordinario. E coincidono con la prima grande crisi finanziaria europea. Noi siamo stati cacciati dal SME e abbiamo fatto una svalutazione del 40% in un solo anno, che ha rimesso in moto l’economia del Nord, distrutta dal tentativo di entrare nella cosiddetta banda stretta di oscillazione del sistema monetario europeo. Il Sud non era esportatore e quindi non ha beneficiato della svalutazione, ma soprattutto fu oggetto della prima illegale spending review. Delibere già emanate e formalmente valide per contributi a quindicimila imprese vengono cancellate, con una scia di fallimenti e contenziosi che trascinò con sé la crisi del banco di Napoli. Fu questa la causa strutturale, non la mala gestio. L’economia del Sud fu bloccata. Quel periodo fu un periodo di crisi acutissima dell’economia del Mezzogiorno, da cui si pretese velleitariamente di uscire con la nuova programmazione e i patti territoriali. Una pura idiozia. Aver segregato il Mezzogiorno nei fondi strutturali, peraltro sostitutivi e non aggiuntivi, ha significato farne una riserva indiana, dal ’98 in poi».

Gianfranco Viesti ha scritto sul Mattino che la classe dirigente nazionale non sapendo più parlare agli italiani si piega a sollecitare piuttosto gli egoismi locali…

«Non hanno capacità di analisi e sono incapaci di guardare alla storia. Il Mezzogiorno è il nodo. Nel 1903 De Viti De Marco, un ‘autorità mondiale in materia di finanza pubblica, disse una cosa molto semplice. Finché il Sud rimarrà una specie di colonia, l’Italia non conterà nulla in Europa. Sarà insomma una specie di Olanda, solo con un territorio molto più grande e con una popolazione più numerosa, quindi molto più povera. Se si vuole divenire potenza europea – diceva già nel 1903, io dico: se vogliamo essere leader nell’area euro-mediterranea – occorre darsi da fare. Nonostante il rallentamento mondiale, noi siamo talmente sottodimensionati che abbiamo spazi enormi da recuperare. Abbiamo nuovamente, grazie alla posizione centrale nel Mediterraneo, una rendita di posizione da sfruttare. Ma non siamo ancora in grado di valorizzarla. Ci vorrebbe una grande rigenerazione orientata da due o tre priorità che siano priorità del Paese.

La via d’uscita non è celebrare i drammi della guerra civile. È vero che c’è stata. E che c’è una colpa della retorica risorgimentale. Basta vedere il film di Mario Martone, «Come eravamo», per capire ciò che è stato. Dopodiché però siamo diventati parte di un sistema ed è in questo sistema che dobbiamo operare».

(Il Mattino, 10 agosto 2017)