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Il brutto clima e le decisioni da prendere

Nauman

B. Nauman, Body Pressure (1974)

Ho l’impressione che occorra affrontare una domanda preliminare per mettere un po’ di riflessione sui fatti intorno ai quali si arroventano le polemiche di questi giorni. Parlo naturalmente della questione migratoria, che si presenta ora sotto l’aspetto degli sbarchi, ora sotto quello degli sgomberi, ora nei rapporti con l’Unione europea, ora nelle responsabilità dei sindaci. Nulla e nessuno ne viene risparmiato, se a Pistoia il vescovo deve mandare il suo vicario generale a concelebrare la messa con don Massimo Biancalani, dopo l’annunciata partecipazione di «militanti forzanuovisti» di estrema destra, preoccupati di vigilare de visu sull’effettiva dottrina professata dal sacerdote pro-migranti. È sicuramente un episodio, ma un episodio indicativo di un clima parecchio invelenito, in cui qualunque gesto di accoglienza o di integrazione viene considerato complice di una sconsiderata politica immigrazionista che mina alle radici, in un irresistibile climax, prima l’ordine pubblico e la sicurezza, poi il benessere degli italiani, infine l’identità della Nazione e i suoi fondamenti storici, etici e spirituali. Ma è vero altresì che qualunque iniziativa presa dal Viminale o dalle Prefetture, per il solo fatto che a muoversi sono le forze dell’ordine, diviene espressione di intolleranza e di autoritarismo. Ogni volta che la polizia usa un idrante c’è qualcuno che cita Pinochet. Lo sgombero dello stabile di via Curtatone non è stato certo un capolavoro di efficienza – come del resto non lo sono stati gli anni in cui l’edificio è rimasto occupato nell’indifferenza generale – ma la polizia che interviene non assume, per il solo fatto di intervenire, l’aspetto di una falange fascista. Solidarietà e accoglienza non si fanno gettando per strada i rifugiati, ma non si fanno nemmeno stipandoli per anni in un palazzo in cui gli operatori sociali non riescono nemmeno a entrare.

Clima invelenito, polemiche surriscaldate dal lucro politico che sulla questione migranti è possibile realizzare facilmente, per cui i soldi spesi per le politiche di integrazione sono tolti agli italiani che se la passano male e i migranti sono quelli che stanno tutti in alberghi a quattro stelle (e ora don Biancalari li porta pure in piscina). Ma sono polemiche complicate anche dalle astratte posizioni di principio che rifiutano di guardare di volta in volta, nella concretezza delle situazioni reali, cosa mai da quei principi principia. Cioè succede davvero. È stato così con il codice Minniti, che addirittura per taluni non sarebbe figlio di una cultura democratica, anche se le politiche messe in campo dal governo ci hanno risparmiato un’estate di immani tragedie in mare: non solo meno sbarchi, ma anche meno morti nelle acque del Mediterraneo.

Qual è allora la domanda preliminare? Eccola: cosa significa essere cittadini? Questa domanda ha sicuramente un risvolto teorico, e chiama in causa secoli e secoli di riflessione filosofico-politica, accompagnando praticamente tutto il corso della storia umana. Ma ha poi anche un lato sociologico, pratico, che riguarda la maniera in cui gli italiani si sentono cittadini. Attenzione: non cosa significa essere italiani, ma cosa per gli italiani significa essere cittadini. E cioè: cosa ritengono che essi debbano alla condizione della cittadinanza, quali diritti e quali doveri sono ad essa legati, chi sono disponibili a considerare cittadini alla loro stessa stregua, quali formazioni simboliche sono coinvolte nel modo in cui essi si sentono cittadini, in che modo si sentono effettivamente accumunati da questa condizione, e così via. Ho il timore che anche nel dibattito sul cosiddetto ius soli (che dovrebbe riprendere a settembre, ma chissà) questa domanda non sia stata seriamente presa in considerazione. Eppure è lì la chiave: prima ancora di capire chi siano i migranti, cosa dobbiamo o non dobbiamo loro in termini morali, giuridici o politici, noi dovremmo sapere chi siamo noi, quale comunità politica formiamo in quanto cittadini di una democrazia costituzionale. Ho paura infatti che la dimensione normativa connessa all’idea della cittadinanza sia per noi italiani veramente troppo gracile, e finisca spesso per essere completamente schiacciata dal peso degli umori e dei sentimenti. E, certo, anche dei pregiudizi e delle ideologie. Solo così si spiega perché ogni appello alla legge, in questo Paese, suona invariabilmente di destra. Ma si spiega pure perché troppo spesso alla destra slitti la frizione, dimenticandosi che essere italiani significa esserlo come cittadini, dentro un quadro costituzionale di diritti e di garanzie, a sua volta inserito ormai in una cornice di diritto europeo e internazionale che è parte altrettanto irrinunciabile della nostra cittadinanza. Così ci sono quelli che rifiutano anche solo l’idea che si possa mettere fine a un’occupazione illegale, e quegli altri che se sentono parlare di diritto del mare o di protezione internazionale gridano subito alla sovranità violata. Gli uni e gli altri non fanno che agitare bandiere. Gli uni in nome di un umanitarismo di fatto inconcludente condannano lo Stato italiano (e dunque loro stessi) all’impotenza; gli altri in nome di un malinteso sovranismo perpetuano condizioni di emarginazione, esclusione e conflitto, riducendo gli spazi di libertà e di democrazia (e quindi i loro stessi spazi). Le politiche di integrazione non si fanno né in un modo né nell’altro, ovviamente. Però vanno fatte. E siccome sono politiche, cioè cose che richiedono tempo perché dispieghino i loro effetti – soprattutto innanzi a fenomeni di lunga portata come le migrazioni in corso – bisogna che ci sia una cultura preparata a sostenerle. Malauguratamente, a volte, i luoghi dove ospitare i rifugiati non sono l’unica cosa che manca. E la cultura: non c’è prefetto, purtroppo, che possa requisirla da qualche parte.

(Il Mattino, 28 luglio 2017)

Roma, l’indecenza di chi scherza su quei tre manichini impiccati

Manichini

I manichini con le maglie dei giocatori della Roma appesi dinanzi al Colosseo? Una presa in giro, uno sfottò, una boutade. Così si sono giustificati gli ultrà della Lazio, ma in realtà non si sono giustificati affatto, perché non hanno sentito minimamente la necessità di una giustificazione, ma, se mai, l’orgoglio di una rivendicazione. C’era il rischio, infatti, che qualcuno pensasse che a impiccare i fantocci con le maglie di Salah, Nainggolan, De Rossi, fossero stati gli stessi tifosi romanisti, delusi e arrabbiati con la squadra dopo la sconfitta nel derby. Quelli della Lazio, a scanso di equivoci, hanno allora pensato di metterci la firma. La scena era terribilmente macabra, e a detta dell’ex laziale Mihajlovic – uno slavo tosto, che in campo non è mai stato una mammoletta – la minaccia formulata nello striscione esposto alle spalle dei manichini faceva paura (“Un consiglio senza offesa. Dormite con la luce accesa”). Ma per i tifosi laziali si è trattato solo di uno scherzo. Magari di cattivo gusto, ma sempre e solo di uno scherzo. I giocatori della Roma, avranno pensato, sono come i fanti: coi santi non si può scherzare, ma con loro sì.

Il fatto è che ormai si scherza con tutto e di tutto, e a tracciare i limiti di quello che è lecito e di quello che non lo è non ci prova più nessuno. Non dico i limiti di legge: teniamoci pure le leggi più liberali del mondo e difendiamo strenuamente libertà di espressione, di critica e pure di scherzo (ma una minaccia, sia chiaro, non è affatto uno scherzo). Prima della norma giuridica c’è però l’opinione pubblica, prima della sanzione penale c’è il regime comune di discorso al quale collettivamente apparteniamo, e c’è (o ci dovrebbe essere) la ragionevolezza del buon senso. Ci sono o ci dovrebbero essere, aggiungo, l’educazione e la formazione nelle scuole, la cultura della cittadinanza nella società, la serietà nei comportamenti, la correttezza nell’uso delle parole, e il senso dell’onore e l’amore della verità in ciascuno di noi. Roba vecchia, superata? Può darsi. Allora accantoniamola per un momento, prendiamo a misura di ciò che si può fare o non fare lo scherzo laziale del Colosseo (o magari le indecenti offese di parte juventina contro il Grande Torino schiantatosi a Superga, il 4 maggio di 68 anni fa) e andiamo in giro per la città di Roma a fare qualcuno di questi tiri.

Per cominciare, si potrebbero impiccare a Saxa Rubra tre pupazzi col volto di tre noti presentatori televisivi, fate voi quali. Al mattino, al lavoro, i dipendenti della Rai se li potrebbero trovare davanti ai cancelli, magari con un cartello ingiurioso affisso sul petto. Spostiamoci ora in via Nazionale, davanti alla banca d’Italia, e lì allestiamo la scena: tre pupazzi con la macina al collo e i volti di celebrati uomini della grande finanza mondiale: da ridere, non vi pare? Tra l’altro, mentre i giocatori della Roma hanno almeno i loro tifosi a difenderli (e magari, la prossima volta a vendicarli: sarà legittima difesa?), questi qua chi volete che li difenda?

Si potrebbe proseguire, naturalmente. E allora nella nostra galleria degli scherzi funerei non potrebbero certo mancare tre politici, a cui fare per finta la pelle davanti a Montecitorio. Anche più di tre, visto il discredito di cui gode la categoria. E siccome infine nelle curve spesso si annidano sentimenti xenofobi e razzisti, non ci facciamo mancare qualche croce a cui appendere tre sporchi negri o tre luridi ebrei. Sempre di cartapesta, s’intende. Sempre per scherzo, si capisce: tanto per giocare.

Ho esagerato, forse. Ma la domanda rimane. Ed è la seguente: può una società ospitare il turpiloquio in televisione e appendere manichini in piazza, lasciare che si diffondano i discorsi d’odio on line e deridere le espressioni politically correct nel dibattito pubblico, senza farsi venire il dubbio che quella cosa fatta di buone maniere, di rispetto e di decenza che si chiama civiltà, processo di civilizzazione, va difesa, coltivata, promossa, non disprezzata come una ipocrisia vecchia, falsa e inautentica.

Avishai Margalit, filosofo politico israeliano, ha introdotto qualche tempo fa il concetto di «società decente», che è tale se non umilia coloro che vi appartengono. E, direi pure, se non umilia se stessa. La decenza ha a che fare con qualcosa di più fondamentale della giustizia, ed è dovuta agli uomini indipendentemente da ciò che prescrive la legge (né una società formalmente giusta risparmia a volte umiliazioni ai suoi membri). Dove infatti si trovi il limite della decenza non può essere una legge a dirlo: una comunità dovrebbe aver cura di trovarlo da sé. Se non lo trova, oggi succede che dinanzi al Colosseo compaiano striscioni e lugubri manichini, domani chissà: forse si farà un bel programma TV con il sondaggio, le domande per il pubblico a casa,e il dibattito in studio fra gli ospiti. Tema: e voi, dove appendereste i vostri funesti manichini?  Risate, applausi, pubblicità.

(Il Mattino, 6 maggio 2017)

Il movimento con il patto di soggezione

leviatano

Il codice di comportamento del Movimento 5 Stelle in caso di coinvolgimento in indagini giudiziarie, che oggi sarà ratificato col voto online degli iscritti, rimette nelle mani del «Garante del MoVimento 5 Stelle», del «Collegio dei Probiviri» o del «Comitato d’Appello» la sorta dell’eletto (denominato «portavoce») che dovesse incappare in procedimenti giudiziari. Da oggi, il ricevimento di un avviso di garanzia non equivale a un’espulsione o a una sospensione dal Movimento. Una valutazione in ordine alla gravità delle contestazioni viene affidata agli organi statutari (cioè a Grillo o chi da lui proposto), e può allinearsi come non allinearsi alle decisioni della magistratura.

È una notizia. Il Movimento che per anni ha fustigato tutti gli altri partiti al primo stormire di carte giudiziarie, e che aveva elevato a grido rivoluzionario la parola «onestà!», scandendola fra le lacrime, come un grido identitario, finanche al funerale del leader carismatico, Gianroberto Casaleggio, è ora in grado di considerare onesti anche quei politici che, pur colpiti da un provvedimento della magistratura, non fossero stati ancora raggiunti da una condanna. Almeno quelli fra le proprie file cui dovesse toccare una sorte del genere, perché non è detto che questa improvvisa equanimità di giudizio venga riservata anche agli avversari politici. In passato, infatti il blog di Grillo additava al pubblico ludibrio chiunque risultasse implicato in indagini di qualche tipo, senza andar troppo per il sottile con le valutazioni circa la presunta gravità.

È un passo avanti o uno indietro? Messi di fronte alle difficoltà della vita politica e amministrativa, i Cinque Stelle stanno diventando come tutti gli altri, pronti a chiudere un occhio sulle malefatte della politica, o più banalmente prendono atto con qualche realismo che un avviso di garanzia – per esempio per abuso d’ufficio – non può equivalere immediatamente a una sentenza di condanna? Che non tutte le fattispecie di reato paventate destano la medesima preoccupazione? Che certe reputazioni sono compromesse indipendentemente dall’azione dei pubblici ministeri, e magari certe altre non lo sono nonostante quell’azione?

È evidente che essersi scottati a Parma, a Livorno, a Quarto, infine a Roma doveva avere prima o poi delle conseguenze. A Roma, soprattutto. È già stato chiaro, nelle difficili settimane passate, che bisognava imbastire una difesa della sindaca Raggi a prova di avviso di garanzia. Nomine sbagliate, indagini e arresti mettono un eventuale avviso per il primo cittadino della Capitale nel novero delle cose possibili. Il costo politico delle dimissioni, o anche del ritiro del simbolo, potrebbe essere troppo elevato, soprattutto se non giustificato da fatti di modesta entità. In ogni caso, Grillo vuole riservarsi la possibilità di decidere. Ed è normale che sia così, se si vuole mantenere il controllo politico degli eventi, anche se – va detto – non è la normalità delle dichiarazioni alle quali ci avevano finora abituati gli esponenti del Movimento.

Prendete Di Maio. Un paio di anni fa, di questi tempi dichiarava: «Per me, ai politici non va applicata la presunzione di innocenza. È facendo i garantisti con i politici che abbiamo rovinato lo Stato Italiano». Per difendere queste parole, aveva pure aggiunto, sulla sua pagina Facebook: «Per me, se c’è un dubbio non c’è alcun dubbio. È così che [i politici] vanno trattati». Ora, a meno di non volersela prendere con i magistrati, come si fa a dire che un avviso di garanzia un dubbio non lo fa venire? Ma con l’approvazione del Regolamento, anche Di Maio dovrà tenersi i dubbi per sé, e avere meno certezze sulla flagrante colpevolezza dei politici.

Di certezze dovrà invece continuare ancora a nutrirne di saldissime nei confronti del «capo politico», di Grillo, visto che la qualità democratica del Movimento non è affatto assicurata dalla partecipazione online degli iscritti ai voti di ratifica indetti ogni tanto dal titolare del blog. Basta domandarsi infatti: cosa succederebbe se un avviso di garanzia dovesse arrivare proprio a Beppe Grillo? È evidente che gli estensori del regolamento non si sono posti minimamente il problema. La circostanza che il «capo politico» debba valutare il proprio stesso caso non è disciplinata. Come se fosse esclusa a priori. Grillo è cioè la perfetta incarnazione del sovrano legibus solutus, sciolto dalle leggi che proclama. È l’ultimo discendente di una vecchia idea di Thomas Hobbes, che all’origine del contratto politico moderno metteva non uno, ma due patti: un patto di unione con cui tutti si impegnano reciprocamente a osservare gli stessi doveri, ricevendone gli stessi diritti, e un patto di soggezione, con cui tutti accettano di essere subordinati a (e giudicati da) uno solo, che del primo patto è il supremo garante. Il primo patto prevede una simmetria, che il secondo invece non prevede. Dentro il primo stanno tutti gli iscritti; dietro il secondo sta il solo Beppe Grillo. Ma in un Movimento che per principio «rifiuta la mediazione di organismi direttivi o rappresentativi» non c’è molto altro: i direttori, infatti, prima o poi si squagliano. Per ora dunque hanno riveduto il solo regolamento, rivendicando autonomia rispetto alle decisioni delle procure; chissà che in futuro, apprezzata questa nuova libertà, non debbano rivedere anche il resto.

(Il Mattino, 3 gennaio 2017)

Due pesi due misure e un avviso

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Si è parlato di ultimatum, ma la situazione in cui si è infilato il Movimento Cinquestelle, a Roma, somiglia invece a un gioco «lose-lose»: comunque ti muovi, perdi. Perdi tu, e perde Virginia Raggi. Riuniti in un conclave che, per l’ennesima volta, non ha più nulla dello streaming delle origini, i capi del Movimento dovevano decidere se ritirare il simbolo che sei mesi fa aveva espugnato il Campidoglio, promettendo una rivoluzione che non è mai iniziata, o commissariare il sindaco, pazienza se questo avrebbe comportato il ridimensionamento della sua figura e una aperta sconfessione del suo operato.

La prima opzione equivaleva ad ammainare la bandiera a Cinquestelle dai colli fatali di Roma. Che se poi l’Amministrazione fosse caduta per l’indisponibilità dei consiglieri a proseguire fuori dall’orbita del Movimento (come invece è accaduto a Parma, con Pizzarotti), sarebbe stato persino meglio. I pentastellati avrebbero potuto dire, in tale ipotesi, che loro sono e rimangono diversi, che loro non accettano compromessi, che loro ci mettono un secondo a cacciare chi viola i principi del Movimento, che loro non guardano in faccia a nessuno. Tutto ben detto, salvo che la via d’uscita sarebbe stata la più clamorosa sconfitta per i Cinquestelle, che sulla Raggi alfiere del rinnovamento avevano puntato tutte le loro fiches. È illusorio, infatti, pensare che Grillo possa fare con la Raggi quello che maldestramente ha tentato di fare la Raggi con Marra: come lei ha detto che in fondo era solo uno dei dodicimila dipendenti del Comune, così Grillo e i suoi avrebbero dovuto provare a dire che in fondo la Raggi non è che uno degli ottomila sindaci d’Italia. La Raggi si è scusata per aver scelto Marra: sarebbe bastato che Grillo si scusasse per aver scelto la Raggi?

La seconda opzione, quella per la quale Grillo si è risolto, al termine di un vertice fiume, punta a debellare il virus che ha infettato il Movimento, – per usare l’espressione impiegata da una personalità di punta dei Cinquestelle romani, Roberta Lombardi –, allontanando, dopo l’arresto del fidatissimo Marra, anche gli altri uomini sui quali Virginia Raggi ha puntato: il vicesindaco Daniele Frongia e Salvatore Romeo, capo della segreteria politica. L’ipotesi è insomma che la via d’uscita sia spegnere il raggio magico, e mettere definitivamente il sindaco sotto stretta tutela. In realtà, avevano già provato a fare una cosa del genere: con il contratto che la candidata aveva dovuto firmare (con tanto di penale in caso di «danno d’immagine» al Movimento), e con la costituzione di un mini-direttorio sulle rive del Tevere, ben presto però sciolto per manifesta inutilità. La Raggi infatti aveva orgogliosamente rivendicato la propria autonomia. La quale però, com’è di tutta evidenza, si fondava proprio sugli uomini finiti nel mirino delle indagini. Dove, d’altra parte, avrebbe dovuto andare a prendere una classe dirigente pentastellata? I grillini non ce l’avevano, e forse aveva ragione un’altra esponente di peso, Paola Taverna, quando disse (per paradosso ma non troppo) che a Roma sarebbe stato molto meglio perdere: sta di fatto che il sindaco ha pescato nel giro delle sue amicizie, dei suoi rapporti personali, professionali, anche per mantenere un minimo di indipendenza. Partita col piede sbagliato, in mezzo a mille incertezze, tra assessori nominati e poi revocati, assessori dimessi e ora anche dirigenti arrestati, la possibilità che la Raggi continuasse a fare di testa sua e che il Movimento la seguisse compattamente era già del tutto tramontata. Ma ora commissariare il sindaco, chiedere e ottenere la testa dei suoi fedelissimi, non farle fare più un passo senza l’approvazione di Grillo (o del suo Staff, o di Casaleggio, o del direttorio nazionale, o dei parlamentari romani, o dei presidenti pentastellati dei municipi cittadini, oppure di tutti costoro messi insieme) significa comunque esporsi al rischio che, alla prossima tegola, se ne venga giù tutto il tetto del Campidoglio, e che il Movimento intero, non solo la Raggi, ci finisca sotto. Perché le procedure con le quali ha proceduto alle nomine sono tuttora sotto la lente dei magistrati: cosa succederà allora se domani arrivasse al primo cittadino un avviso di garanzia per abuso d’ufficio? Nel contratto, il «danno di immagine» è quantificato per la modica somma di 150.000 euro, e a quanto si sa la Raggi, al primo stormir delle fronde, avrebbe chiesto un parere legale circa l’esigibilità di quella cifra. Ma a parte la vile pecunia: il danno politico?

Stretto fra queste due opzioni, Grillo ha deciso: commissariamento. Romeo si dimette, Frongia non fa più il vicesindaco e mantiene solo le deleghe. E pure il fratello di Marra se ne va. Il tutto viene rubricato sotto la voce «segno di cambiamento», come se la giunta Raggi non fosse in piedi da soli sei mesi, e il problema non fosse casomai quello di durare, essendo cambiata la squadra di governo già troppo in così poco tempo. Ma tant’è: anche i grillini scoprono il politichese e la realpolitik.

E se poi la Procura notificasse davvero qualcosa, nei prossimi giorni o nelle prossime settimane? Ecco la risposta di Grillo, che merita di essere letta per intero, e, quasi, di essere lasciata senza commento: «A breve defineremo un codice etico che regola il comportamento degli eletti del MoVimento 5 Stelle in caso di procedimenti giudiziari. Ci stanno combattendo con tutte le armi comprese le denunce facili che comunque comportano atti dovuti come l’iscrizione nel registro degli indagati o gli avvisi di garanzia». Definiranno un codice etico. Tradotto: fino a ieri un avviso di garanzia comportava dimissioni; da oggi, per i nostri, cominceremo a parlare di atti dovuti e ci riscopriremo garantisti. Contro gli altri continuiamo a strillare in piazza «onestà! Onesta!», per i nostri gridiamo invece al complotto e ce la prendiamo con quelli che ci vogliono fermare. Due pesi, due misure, due morali. Se la contraddizione non esplode prima e arrivano presto le elezioni, magari Grillo la sfanga, ma Roma no.

(Il Mattino, 18 dicembre 2016)

 

 

Raggi, un nuovo schiaffo per la giunta: anche Tutino rinuncia all’assessorato

immagineLa saga dell’assessore al bilancio del Comune di Roma continua e non se ne vede la fine. Virginia Raggi, la Sindaca, ha detto a Palermo, lo scorso weekend, che l’ultima moda della stampa che imperterrita si accanisce contro di lei sono le sue orecchie.

Sarà. Ma non si tratta precisamente di orecchie, quando trascorrono più di cento giorni e la nomina dell’assessore non arriva. Non è poi così frequente che la Capitale d’Italia rimanga per oltre tre mesi senza una pedina fondamentale, senza l’uomo che deve far quadrare i conti pubblici (che a Roma quadrati non sono). Non è neppure quello che la Raggi aveva promesso ai cittadini, in campagna elettorale.

A ciò si aggiunga che, in realtà, si tratta di nominare il terzo assessore al Bilancio, visto che il primo, Marcello MInenna, si è dimesso dal mandato per insanabili contrasti politici, mentre il secondo, Raffaele De Dominicis, non ha fatto a tempo ad essere indicato che subito la sindaca ci ha ripensato e lo ha revocato, avendo scoperto che non era in possesso dei necessari requisiti (non giuridici ma, a quanto doveva parerle, morali).

Il Movimento Cinquestelle ha insomma già maciullato un paio di nomi. Ora è la volta di Salvatore Tutino, anche lui come il predecessore (predecessore per modo di dire) magistrato della Corte dei Conti. Il suo nome circolava da alcuni giorni, ma appena è sembrata cosa fatta è partito un robusto fuoco di sbarramento. Il capo d’accusa: far parte della casta. La Raggi aveva detto chiaramente agli altri esponenti di punta del Movimento che la scelta dell’assessore sarebbe toccata a lei e non ad altri che a lei. Ma non è bastato a fermare gli attacchi, a cominciare – dicono le cronache – da quelli di Roberto Fico, che Tutino proprio non lo voleva. Così Tutino ha dovuto rinunciare: «Attacchi del tutto ingiustificati minano alla base ogni possibilità di un proficuo lavoro». E tanti saluti al Campidoglio.

Ma a proposito di orecchie e padiglioni auricolari: siccome il nemico ti ascolta, è d’uopo tacere. Così Beppe Grillo ha twittato: «Ringrazio di cuore tutti i portavoce M5S che non faranno né dichiarazioni né interviste su Roma nei prossimi giorni. Grazie di cuore a tutti».

Il capo politico – perché i grillini dell’«uno vale uno» un capo ce l’hanno e non possono non averlo, visti i casini in cui si stanno infilando – il capo ha imposto a tutti il silenzio stampa, come succede alle squadre di calcio che perdono una partita dietro l’altra. Il Presidente chiama a rapporto l’allenatore, e vieta ai tesserati del club di parlare con gli odiati giornalisti.

Prima o poi la vicenda si chiuderà e Roma, abituata del resto al gioco delle fumate nere e delle fumate bianche del conclave cardinalizio, avrà il suo assessore. Ma resta qualcosa di più di un’impressione di inadeguatezza in capo alla sindaca. Perché non si tratta di difficoltà amministrative, non ci sono provvedimenti o delibere che dividono i dirigenti pentastellati. Tutto questo deve ancora avvenire: la concreta attività di giunta non è neppure cominciata. Si tratta invece di una lotta di potere serrata. Si tratta di nomine, di persone che la Raggi vuole che rispondano innanzitutto a lei e che godano della sua fiducia, e che invece il Movimento vuole controllare da vicino.

La geografia dei Cinquestelle dice che la Raggi ha contro i grillini antemarcia, e in particolare le esponenti romane di maggiore peso, Roberta Lombardi e Paola Taverna. Ma c’è comunque un nodo di fondo che rimane irrisolto. Tutte le volte in cui Virginia Raggi rivendica indipendenza e autonomia si urta contro l’ideologia pentastellata del mandato imperativo, contro il vincolo di mandato che è, però, quintessenziale al Movimento. Ora Tutino farebbe parte della casta per via di stipendi e pensioni di cui godrebbe: di qui l’accusa, le tensioni, le dichiarazioni, infine la rinuncia. Ma in realtà il solo fatto che un diaframma rappresentativo si interponga fra la base e gli eletti scatena prima o poi attacchi e risentimenti. È così fin dall’elezione, a Parma, di Pizzarotti, il primo sindaco grillino di una città di medie dimensioni. Che non a caso sta finendo in questi giorni definitivamente fuori dal Movimento. Non ci possono infatti essere rappresentanti, tra i Cinquestelle. Almeno in linea di principio. Perché di fatto ci sono, e non possono non esserci, dal momento che la legge assegna poteri e prerogative alla Sindaca, non certo a Roberto Fico (questa volta) o a Roberta Lombardi e Paola Taverna (le altre volte). Così lo scontro è inevitabile, ed è altrettanto inevitabile che avvenga non in consiglio comunale, ma da qualche altra parte tra la villa di Grillo, l’azienda di Casaleggio, gli uffici dei deputati o la stanza della sindaca. I grillini, campioni di democrazia e di regole per i quali tutto il resto del mondo politico affonda nell’illegalità e nella corruzione, non riescono insomma a dare chiarezza, formalità e certezza al modo in cui procedono nel rapporto con gli eletti. Non lo sanno, ma è, o sarebbe, moralità anche questa.

(Il Mattino, 28 settembre 2016)

Uno vale uno, ma il comico vale per tutti

immagineC’è una bella metafora di Aristotele, che viene in mente leggendo di queste giornate di passione del Movimento Cinque Stelle a Roma. Che continuano: stavolta l’amaro calice delle dimissioni devono berlo i componenti del mini-direttorio che avrebbero dovuto affiancare Virginia Raggi nelle scelte più rilevanti della nuova amministrazione capitolina. Sembra scritto in neo-lingua: tutto bene, compito svolto, mollate i pappafichi, noi restiamo a terra mentre la nave comincia la sua navigazione. In realtà, ancora nulla è tornato al suo posto. Il nuovo assessore al bilancio, De Dominicis, non ha nemmeno fatto in tempo a insediarsi che ha già dovuto rinunciare: risulta infatti indagato dalla procura per abuso d’ufficio, e così, per la Sindaca che poche ore fa lo ha nominato, non ha più i requisiti. La giunta, dunque, non è ancora al completo.

Intanto vacilla pure il gran Direttorio (in realtà un duumvirato) di Di Battista e Di Maio: non c’è solo il sindaco di Parma, Pizzarotti, che lo vorrebbe dimissionare; anche fra i parlamentari e nella base aumentano le perplessità e le critiche. Grillo e Casaleggio avevano rinunciato al sacro principio dell’«uno uguale uno», e del «siamo tutti portavoce» perché non è così che funziona in realtà, e perché anche un Movimento retto da un non-Statuto con una testa in Liguria (Grillo) e un’altra in Lombardia (Casaleggio), ha bisogno di un’ossatura organizzativa. Il peso dei big del Movimento è allora cresciuto, e di pari passo è venuto scemando il ruolo della Rete, ridotto a rumore di fondo che si ingrossa solo nelle giornate di tempesta. Ma l’infelice gestione del caso Roma sta mettendo a dura prova la struttura direttoriale, per la semplice ragione che essa è priva di un’autentica legittimazione: si fonda infatti sul principio della nomina, pur non essendo scritto da nessuna parte ed essendo anzi contrario allo spirito «dal basso» del Movimento che i dirigenti pentastellati debbano essere, tutt’al contrario, nominati «dall’alto».

Grande è dunque la confusione sotto il cielo. Se Grillo non si stuferà, se come un grande Timoniere non deciderà di bel bello di bombardare lui il quartiere generale, sarà difficile che il Movimento trovi presto un punto fermo.

Così viene in mente la metafora aristotelica dell’esercito in rotta: le fila che disordinatamente si rompono e il fuggi fuggi generale. A un certo punto, però, qualcuno si arresta, non indietreggia più. Qualcun altro allora gli si fa accosto e poco a poco si costruisce una nuova linea difensiva. Aristotele usava la metafora per spiegare la nascita del concetto, ossia: com’è che a un certo punto ci si raccapezzi un po’. Per i Cinquestelle è un po’ più dura che per l’esercito di Aristotele, perché la rotta avviene in una terra incognita: non solo o non tanto per l’inesperienza politica o amministrativa, ma perché mancano persino i luoghi dove questo debba avvenire: nella residenza genovese di Grillo o in quella al mare? Nell’albergo romano deciso all’ultimo minuto o nel retropalco di un comizio? In un ufficio di Montecitorio o negli uffici della Casaleggio e Associati? Il movimento ha casa in Rete, così una casa vera non ce l’ha. E non ha dei veri organi interni. Probabilmente nessuno rimpiange i congressi, le assemblee nazionali, i comitati centrali e gli uffici politici di una volta. Nessuno prova più un brivido se sente parlare dl dispositivo di una commissione regionale di controllo, o dei provvedimenti di una segreteria di federazione: i partiti sono stati liquidati da un pezzo. Ma lo svolgimento della vita interna non sembra proprio che ne abbia guadagnato. Può darsi che l’iniziativa presa dal Pd, di stendere una legge sui partiti in attuazione dell’articolo 49 della Costituzione,non andrà in porto, ed è nota, peraltro,la ragione per cui quella legge non è mai stata scritta: per timore che, essendovi una legge, la lotta politica interna potesse essere decisa da qualche ricorso al magistrato di turno. Ma resta un impressionante deficit di democraticità in tutte le formazioni politiche (bisogna dirlo: proprio il Pd, che tiene ancora congressi e primarie, fa eccezione), l’assenza di chiare procedure di autorizzazione, e un’inconsistenza sul piano organizzativo e gestionale preoccupante. Naturalmente c’è stato e c’è ancora un modo per coprire tutti questi difetti, ed è il ricorso al leader. È così, dopo tutto, che il centrodestra tiene ancora botta: grazie a Berlusconi (pur essendo, in verità, molto più dell’esercito di Silvio), ed è così che il M5S ha sin qui funzionato: grazie a Grillo (pur essendo, senza di lui, molto meno di quello che appare nello schermo virtuale della Rete)

Ma allora ci vuole almeno che il comico genovese salga su un predellino, come il Cavaliere, e dica come si fa o non si fa, consumando così anche le ultime ambizioni di autonomia dei piccoli candidati in pectore che cercava di coltivare nel Direttorio: i Di Battista e i Di Maio, appunto.Un colpo, forse, finirà allora davvero per cadere sul quartier generale, e una bella rivoluzione culturale restituirà definitivamente al Movimento la sua vera natura anti-istituzionale.

(Il Mattino, 9 settembre 2016)

I grillini nudi, senza il totem dell’onestà

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La riservatezza, l’ipocrisia, il compromesso. Da un lato. E dall’altro l’ambizione, il potere, la forza. Ora, si provi a far politica eliminando tutto questo: rinunciando alle ambizioni degli uomini, all’uso (legittimo) della forza, alla gestione del potere. Ma anche alla necessaria riservatezza che protegge ogni forma di accordo o di mediazione, all’ipocrisia spesso necessaria per cucire i rapporti, salvare le apparenze, lavorare in squadra. E infine ai compromessi su principi o valori chiamati a confrontarsi con la realtà sempre prosaica del mondo. I Cinquestelle hanno pensato forse che fosse possibile qualcosa del genere, qualcosa che ovviamente ha i contorni ideali della purezza, dell’onestà, della sincerità ma che purtroppo non ha, non riesce ad avere la forma della politica.

Ora succede che la sindaca Virginia Raggi ha mentito, o forse ha solo omesso di dire (distinzione ipocrita quant’altre mai), che l’assessore Muraro ha taciuto, poi ammesso a bassissima voce (altra ipocrisia), quindi smentito o precisato o corretto. Succede che uno, Di Maio, diserta l’appuntamento televisivo, e l’altro, Di Battista, diserta la manifestazione pubblica. Succede infine che il Movimento che aveva fatto della trasparenza, dello streaming, della partecipazione online una bandiera, di colpoammutolisca: Grillo non dice nulla (al più lascia filtrare: ipocrita), Davide Casaleggio è inavvicinabile, e nulla compare sui blog e le bacheche dei leader del movimento.

Una punizione, una forma di contrappasso che neanche Dante Alighieri avrebbe saputo immaginare così dura, rapida e perfetta. Il fatto è che, privatisi di strumenti essenziali alla vita politica, rimasti solo con il grido: “Onestà! Onestà!” strozzato in gola, i grillini non sanno come venirne fuori. Che vuol dire, ben al di là della crisi in corso, come salvare un’ideologia totalmente impolitica ed esercitare insieme la responsabilità politica, che i romani hanno pur sempre conferito loro alle elezioniamministrative, cartina di tornasole di ogni futura prova di governo.

Le due cose non stanno insieme, e non perché la politica è inguaribilmente corrotta, marcia, irredimibile. Al contrario: proprio l’aver pensato che la politica fosse inguaribilmente corrotta marcia e irredimibile li ha costretti a rifiutarne completamente la forma. In termini psicanalitici, si direbbe che i grillini hanno qualche problema con il principio di realtà. Di qui i narcisismi e, ora, gli isterismi.

Parliamoci chiaro, infatti: quello che è successo a Roma è nulla, o quasi. E invece rischia di affossare tutto, e di sommergere tutto: un assessore, una giunta, un Movimento. C’è un nuovo assessore al bilancio scelto dalla sindaca sentendo non organi di partito (esistono?) mauna persona amica, di cui si fida. E c’è un’indagine in corso a carico di un altro assessore, indagine che è solo agli inizi, di cui si sa molto poco, e che peraltro interessa una materia assai controversa, in cui si mescolano interessi e lotte di potere. Quisquilie. Pinzillacchere. In qualunque parte del mondo, un sindaco e il suo partito saprebbero come attutire l’impatto di queste piccole grane, e troverebbero il modo di affrontare politicamente anche i contrasti interni al Movimento (“raggio magico”contro mini-direttorio romano). Invece per i Cinquestelle diventano due patate bollenti impossibili da maneggiare. Se ora uno domandasse per esempio, a un cittadino della Capitale: “vuoi la soluzione dei problemi finanziari della città e del problema dei rifiuti, anche se il costo èqualche compromesso con i poteri reali, maniere un po’ più spicce e la testa di questo o quell’esponente politico?”, non vi è dubbio che la risposta sarebbe: “fate pure le vostre lotte, ma datemi una città risanata”. Ma il guaio è che i grillini non sono in condizione di porre quella domanda né esplicitamente né implicitamente (e ovviamente si dovrà vedere – se si potrà vedere – cosa sapranno fare), cioè non sono in condizione di fare politica. Continuano a pensare che basti l’onestà, e sono anche disponibili a considerare indispensabile la competenza, per cui si sforzano di trovare ed esibire come uno scalpo le competenze tecniche conquistate alla causa (vedi il ricorso ai magistrati), ma non sono disponibili a confessare, anzitutto a se stessi, che in politica è in gioco ben altro. Non sanno, non vogliono sapere, che la politica è una di quelle dimensioni che sul cammino della civiltà gli uomini hanno costruito per spostare su mete socialmente condivise una certa quota di aggressività primaria, ineliminabile ma per fortuna regolabile. A condizione ovviamente, di riconoscerla, invece di negarla come struzzi.

Si chiama sublimazione. E in certo modo un meccanismo simile c’è persino nella Bibbia, se è vero che la colpa di Adamo fu felice, perché diede origine alla storia della salvezza. Vale a dire: qualcosa di non propriamente commendevole è potuta servire a maggior gloria di Dio. Ma i Cinquestelle sono oltre la Bibbia: non accettano nulla che sia meno che commendevole,  tracciano una linea che impedisce loro di pareggiare, compensare o mediare. E alla fine impedirà anche di agire politicamente.

(Il Mattino, 7 settembre 2016)

La lotta di potere a porte chiuse dei Cinquestelle

ImmagineNo, non c’entrano i topi, i cassonetti pieni di rifiuti, le baracche lungo il Tevere o uno qualunque dei mille problemi della città. Virginia Raggi è sindaco di Roma da troppi pochi giorni perché le si possa già buttare addosso la responsabilità per i mali che affliggono la Capitale. Ma i giorni che ha impiegato per completare la sua giunta, pochi o molti che siano, sono stati sufficienti a Roberta Lombardi per lasciare il direttorio capitolino, lo «staff stellare» che s’era deciso avrebbe affiancato la Raggi per governare al meglio la città.

Naturalmente la Lombardi smentisce litigi, diverbi o dissapori. Ha un sacco da fare, sta preparando la festa nazionale del Movimento che si terrà a Palermo a settembre, e quindi il suo supporto non potrà che venire «dall’esterno». I giornalisti: sono loro che si inventano «liti, gelo o siluramenti»: secondo la Lombardi tutti vanno d’amore e d’accordo, tutti danno una mano generosa a Virginia.

Ora, si potrebbe dire: dateci almeno uno straccio di diretta, fateci vedere le riunioni del direttorio e i baci e gli abbracci che si scambiano i cinque membri fra di loro, così evitiamo di leggere i perfidi retroscena della carta stampata, ostile e prevenuta contro i grillini. Ma purtroppo la mistica della trasparenza è in ribasso: nessun incontro avviene in favore di telecamere, Grillo va dalla Raggi, si intrattiene due ore e nulla trapela; da Casaleggio a Milano gli amministratori locali si riuniscono a porte chiuse, tutti si incontrano riservatamente e nessuno spiega che fine abbia fatto il caro vecchio streaming al quale, ai loro esordi in Parlamento, volevano inchiodare i maneggi e le sordide trame delle forze politiche tradizionali.

In realtà, non c’è nulla di sorprendente in quello che accade all’ombra del Campidoglio, e se anche è difficile mettere a fuoco i particolari, è chiaro che le dinamiche innescate dalla vittoria della Raggi mettono i Cinquestelle di fronte a un’evidenza lampante, ma ufficialmente e ostinatamente negata, alla quale si accostano dunque impreparati: che cioè l’esercizio della responsabilità politica è un esercizio di potere. Né più, né meno. E ciò è vero persino nel Movimento Cinquestelle, lo vogliano o no i cittadini-portavoce: c’è chi ha potere e chi no. Chi è eletto e chi no. Chi guida il Movimento e chi no. Chi fa le nomine e chi cerca di condizionarle. La legittimazione democratica non elimina affatto queste distinzioni, e non le elimina neppure l’interpretazione grillina della democrazia. È il caso infatti di aggiungere che nulla di quello che sta avvenendo a Roma avviene, ovviamente, via web. Sulla Rete si trova piuttosto il gelido comunicato ufficiale della Lombardi, o le parole brezneviane del premier in pectore Luigi Di Maio. Ecco: non ci fossero i giornali con le loro maldicenze, di tensioni interne al Movimento nessuno parlerebbe (come non se ne parla sul blog di Grillo, che nulla dice), e la Lombardi scomparirebbe dalle foto del direttorio romano con un semplice photoshop, come una volta si sbianchettavano le immagini del Politburo, eliminando le figure cadute in disgrazia.

Di qui alla fine del mandato di Virginia Raggi con ogni probabilità ne vedremo molte altre, di vicende simili: di dimissioni, espulsioni, cambi di casacca. Manca però ai grillini la possibilità di rappresentare questi sommovimenti così come li si rappresentava una volta: come uno scontro fra linee diverse, o fra interessi diversi, o fra correnti diverse. Per definizione, infatti, nessuna diversità può albergare nel Movimento, che sta sempre dalla parte dei cittadini, che è anzi formato dai cittadini medesimi e che dunque non può mai tradirne le ragioni (salvo cacciare i traditori). Né si vede come sia possibile, allo stato, che si formi una dialettica interna ai Cinquestelle. Una dialettica, beninteso, che sia riconosciuta come tale, e che possa liberamente articolarsi senza subire gli anatemi di Grillo, o i richiami all’ordine di Casaleggio.

La costituzione di un direttorio che, nelle alate parole primaverili dell’allora candidata Raggi doveva fare la differenza e mettere il sindaco «nelle condizioni di superare le difficoltà gestionali e burocratiche a cui la mala politica ci ha sottoposto per decenni» era in realtà un tentativo di commissariarla ante factum. Per ora sembra che la Raggi, sostenuta da Grillo e da Di Maio, pur cedendo nei giorni scorsi sulla nomina del capo di Gabinetto, abbia però ottenuto qualche margine di autonomia in più, scrollandosi di dosso l’ingombrante cupola: al posto tanto ambito non è così andato la sua prima scelta, Daniele Frongia – nominato in compenso vice-sindaco – ma nemmeno il nome sponsorizzato dalla odiata Lombardi, il magistrato Daniela Morgante. È toccato così a Carla Ranieri, e la Lombardi ha lasciato il direttorio.

Ebbene, come si dovrebbero raccontare queste storie, se non in termini di una lotta senza esclusioni di colpi per il governo della città? Ma siccome la politica pentastellata è ufficialmente un’altra cosa, si chiamerà in un’altra maniera. Purtroppo però non è solo una questione di parole, ma di capacità politica, prima ancora che amministrativa. Non di competenze o professionalità, ma di direzione e leadership. E alla fine, al netto di tutte le parole, è su questo che anche i grillini e Virginia Raggi saranno giudicati.

(Il Mattino, 15 luglio 2016)

Se la politica si cela dietro una maschera

neutraTra Virginia Raggi e il Campidoglio c’è di mezzo il voto di domenica, ma pure qualche grana, scoppiata nelle ultime ore con la rivelazione che tra le cose non dichiarate dalla Raggi ci sono pure incarichi ricevuti da aziende pubbliche. Il principio grillino dell’assoluta trasparenza di tutti su tutto e innanzi a tutti sembra violato, e così pure la veridicità delle autocertificazioni presentate dalla aspirante sindaco al Comune di Roma, ma per i Cinquestelle sono solo schizzi di fango, sollevati strumentalmente. O al massimo pagliuzze, a confronto delle travi che sarebbero negli occhi di tutti gli altri.

Ed effettivamente di pagliuzze si tratta, a confronto con le inchieste di Mafia Capitale, o con i quotidiani conti che l’opinione pubblica è chiamata a fare con le inchieste per corruzione. E però se uno impronta tutta la propria retorica, e coltiva il proprio elettorato, e fa manbassa di voti sulla base di una intransigente discrimine morale – per cui di qui ci sono solo gli onesti, mentre di là non vi sono che farabutti, o complici dei farabutti – è chiaro che pure le pagliuzze rendono l’occhio meno limpido. E magari un Pizzarotti qualunque potrebbe accorgersene e chiederne conto: perché al sindaco di Parma si è imputato di non aver comunicato l’avviso di garanzia ricevuto, mentre a Virginia Raggi si permette di presentare dichiarazioni omissive, e forse mendaci?

La risposta c’è, in realtà, ed è pure molto semplice: è la politica, bellezza. E cioè: non quella cosa sporca e ignominiosa che i Cinquestelle pensano che la politica sia, ma quella logica intrisa di realismo, di prudenza, di mali minori, di fini che non giustificano tutti i mezzi ma qualcuno sì, per la quale un movimento politico che si appresta a conquistare la Capitale non butta tutto a mare per qualche piccola furbizia della propria candidata di turno. Si tratta di una logica che però, per farla breve, non permetterebbe di usare l’argomento che tanto sono tutti uguali e fanno tutti schifo (tutti gli altri, beninteso). E tuttavia è proprio questo l’argomento che connota il voto qualunquista che gonfia il risultato elettorale del movimento pentastellato. Sicché come si fa? In un modo solo: accettando non la disonestà morale, ma una certa quota di disonestà intellettuale, per cui certe cose si fanno ma non si dicono, e anzi si dice se mai il contrario. Si dice a gran voce che basta una bugia, un silenzio, la minima violazione di una regola, il più sottile dei veli di ipocrisia per essere espulsi dalle integerrime file dei cittadini a cinque stelle, ma poi si espelle solo se  e quando conviene (oppure solo se non conviene fare il contrario). Se poi nelle regole non c’è salvezza, tocca a chi sta al di sopra delle regole, cioè il garante supremo, Grillo. Ed è lui insindacabilmente a risolvere il caso. a sua totale discrezione.

Sul voto di domenica questa vicenda non inciderà più di tanto. Ma c’è un problema più di fondo, che va oltre il voto e che perciò merita di essere segnalato. Perché quella logica della politica che i Cinquestelle rifiutano a parole, ha dalla sua la forza delle cose reali. Le cose reali sono quelle che ritornano, e che le parole, alla lunga, non riescono a superare. Si prenda il caso De Magistris, il più clamoroso scollamento fra la demagogia messa in campo per raccogliere consenso, e i concreti atti amministrativi e di governo della città. Sui quali De Magistris non chiede di essere giudicato, preferendo invece parlare di laboratorio Napoli e di un movimento politico transnazionale che rivoluzionerà la democrazia italiana e, perché no?,quella mondiale.

Anche nel caso del voto napoletano, al tornante elettorale si presenterà probabilmente davanti il populismo «non leaderistico» di De Magistris (non leaderistico, dice il Sindaco: e se lo fosse stato, di grazia: cosa sarebbe stato?). Ma resta la doppiezza retorica: non solo la fuga dai problemi veri della città, ma, più gravemente ancora, la rimozione di quell’esercizio di responsabilità in cui la politica consiste.

Le maniere di proporsi dei grillini, come di Giggino, si somigliano molto: e infatti il sindaco di Napoli lancia abboccamenti e manifesta simpatie. Non direi però che sono tutte e integralmente di destra. Se mai, di una destra populista e demagogica, disposta a buttare all’aria tutto il quadro degli strumenti politici e istituzionali disponibili, in una democrazia, pur di indossare quella eterna maschera della incorruttibile virtù morale, che consente di fare piazza pulita di tutto il resto e di tutti gli altri.

Capiterà, a un certo punto, di doverla togliere. E non sarà per i peccati veniali della Raggi, o magari di De Magistris col fratello Claudio, ma per la obiettiva necessità di trovare compromessi, condurre mediazioni, assumersi responsabilità, accettare qualche sana incoerenza pur di portare a casa qualche risultato.

Che ne sarà allora del sacro furore dei grillini, o della confusa caciara del bel Gigi?

(Il Mattino, 18 giugno 2016)

Linus e Bonino con Sala. Parisi: ha scelto bene

bruschettiEmma Bonino e Linus, il direttore di Radio Deejay, saranno in giunta con Beppe Sala, se il candidato del centrosinistra dovesse vincere il ballottaggio contro il candidato del centrodestra, Stefano Parisi. Il lettore indovini ora chi ha rilasciato il seguente commento: «Li conosco entrambi sono due persone molto diverse e tutte e due di grande valore, Sala ha fatto bene a metterli nella sua squadra». Prima ipotesi: l’ha detto il premier Renzi, che su Sala ha puntato molto, e dunque non perde occasione per supportarne le scelte. Seconda ipotesi: l’ha detto Giuliano Pisapia, il sindaco uscente, che aveva sostenuto nelle primarie del Pd la sua vicesindaco, Francesca Balzani (uscita perdente dal confronto), ma che ha poi dimostrato grande cavalleria e spirito unitario affiancando Sala nel corso della campagna elettorale. Terza Ipotesi: l’ha detto Vasco Rossi, che dei radicali è storicamente amico e sicuramente ascolta Radio Deejay che gli passa i pezzi. Quarta e ultima ipotesi: l’ha detto Stefano Parisi, cioè proprio il candidato del centrodestra, che deve provare a battere Sala, e che però, quanto a spirito di cavalleria, non è evidentemente secondo a nessuno.

Ora è facile: ebbene sì, è stato quest’ultimo, che invece di fare dell’ironia sul disc jokey prestato alla politica, novello Gerry Scotti, o, che so, su una storica militante radicale un po’ agée, ha dimostrato di apprezzare le scelte del suo competitor. Come mai? Si tratta solo di buona educazione, di squisitezza personale, di un elegante segno di stile? In realtà no, o meglio: non solo. Tutta la campagna elettorale milanese è stata condotta in realtà in punta di fioretto, senza colpi sotto la cintola, senza toni sguaiati, senza polemiche pretestuose. Da Parisi come da Sala. E entrambi gli schieramenti hanno offerto complessivamente un profilo che altri diranno forse moderato, o liberale, ma che sarebbe più corretto – credo – definire concreto, pragmatico, raziocinativo. È forse merito di Milano, dello spirito meneghino, della tradizione illuministica lombarda, che vive ancora all’ombra della Madonnina? Com’è che lì non c’è nemmeno un candidato sindaco che del premier dica che si deve fare sotto dalla paura, o che inneggi a Zapata e Panchi Villa?

La risposta non è difficile. C’entra naturalmente lo spirito civico – ma sarebbe il caso di ricordare che l’illuminismo, in Italia, ha avuto non una, ma due capitali: Milano e Napoli; solo che una delle due dà ancora a vederlo, mentre l’altra no – c’entra ovviamente il contesto ambientale, sociale ed economico – e qui si aprono evidenti abissi fra il Nord e il Sud del Paese, fra la seconda e la terza città d’Italia – ma c’entra anche la maturità della proposta politica. Milano è anche la città in cui si sente forte la voce di Matteo Salvini, è la città capoluogo della Lombardia a guida leghista, con Roberto Maroni. E però il caso vuole – no, non il caso: ma Stefano Parisi – che a precisa domanda il candidato sindaco del centrodestra rispondesse, con lo stesso garbo: «Salvini mio assessore alla sicurezza? No, mi serve uno a tempo pieno, e Salvini deve fare il leader di partito. E ho già spiegato che nel non dire chi sono i miei assessori io difendo la mia autonomia».

Milano l’è sempre Milàn, ma i temi della sicurezza, della paura dell’immigrato, dell’Europa cattiva si sentono anche lì. E anche a Milano ci sono i centri sociali, ma il centrosinistra di Pisapia, pur senza demonizzarli, ha evitare di fare l’elogio dell’occupazione abusiva o del vento liberatorio dell’anarchia. Il fatto è che lì tanto il centrodestra quanto il centrosinistra riescono a dimostrare di aver acquisito un tratto di credibilità, profilo programmatico, e anche un certo equilibrio politico, e di coalizione, che altrove invece fanno molta fatica a tenere. Prova ne è il fatto che a Milano le percentuali grilline non sono minimamente paragonabili a quelle che i Cinquestelle hanno toccato in città come Torino o Roma. A Napoli il Movimento di Grillo è andato di nuovo in difficoltà, ma in compenso c’è De Magistris che ne fa abbondantemente le veci.

Ancora: a Torino e a Roma si è riusciti, tra grandi sforzi, ad arrivare ad un confronto televisivo diretto fra i candidati in lizza, ma i toni sono rimasti quelli di una fortissima diffidenza: i grillini dilettanteschi e incapaci di governare; i piddini compromessi coi poteri forti e moralmente discutibili. Questi i toni. A Napoli peggio ancora. De Magistris non ne ha proprio voluto sapere di sedersi in mezzo agli altri candidati, e ora, in vista del secondo turno, di fronte a Gianni Lettieri. C’è di mezzo, naturalmente, la strategia elettorale, che sconsiglia a chi è davanti di dare spazio a chi insegue, ma c’è anche una diversa maniera di interpretare, cioè di misinterpretare, il confronto pubblico, elevando pregiudiziali morali e rifiutando la normale dialettica del riconoscimento reciproco.

Ma cosa c’è di normale, oggi, nella dialettica politica napoletana?

(Il Mattino, 14 giugno 2016)

Se la vigilia ricompatta la politica

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Che il 5 giugno, con il voto amministrativo nelle principali città italiane, non sia in gioco il governo Renzi, è sicuramente vero: se non altro perché in molti casi, se non in tutti, la partita si giocherà al secondo turno, due settimane dopo. Sia a Napoli, che a Roma, che a Milano – ma forse anche in altre città come Torino o Bologna – ci sarà infatti bisogno del ballottaggio. E al ballottaggio, ha detto ieri Renzi parlando a Napoli, si gioca un’altra partita, si parte dallo zero a zero. Ed è vero, per diverse ragioni. È vero perché a metà giugno cambia la percentuale dei votanti, che cala fisiologicamente e costringe i candidati rimasti in lizza a moltiplicare gli sforzi per spingere i propri elettori a tornare alle urne una seconda volta. È vero perché si riposiziona il voto dei perdenti, usciti di scena al primo turno. È vero perché emergono con maggiore nettezza le differenze fra i due candidati rimasti in gara e gli schieramenti che li sostengono. È vero perché cambiano le stesse motivazioni del voto, e la logica da «second best», la logica del male minore, può cambiare le scelte degli elettori (e le percentuali del primo turno). È vero soprattutto quando la competizione è stata drogata dalla pletora di liste e candidati messi in campo per acchiappare consenso pur che sia. Questa volta è andata proprio così, molto più che in passato. E la polverizzazione del consenso, che viene raccolto dalle lunghe code di candidati infilati nelle liste più diverse, comporta un forte rischio di dispersione, quando le liste scompaiono di scena e s’alza forte il vento del ballottaggio: la polvere rischia di volare via, o di non depositarsi dove si è raccolta al primo turno.

Ma è il meccanismo stesso del doppio turno che rende possibile la rimonta. Il secondo voto non ha infatti il significato di un voto confermativo. E di casi in cui chi era dietro e dato per sconfitto è riuscito a ribaltare i pronostici e a vincere al secondo turno ce ne sono stati di clamorosi. A Napoli, innanzitutto. Cinque anni fa, De Magistris arriva dietro a Gianni Lettieri di quasi dieci punti: 27,5 contro il 38,5 di Lettieri. Due settimane dopo, Giggino ha scassato tutto: 65 contro 35. Un risultato eclatante, reso possibile anzitutto dal voto in libera uscita del centrosinistra e del Pd: un flusso di voti che solo il ballottaggio poteva innescare. Ma è successo anche altrove: a Roma per esempio, dove nel 2008 Rutelli manca la riconferma nonostante il 45,8 per cento del primo turno e quasi centomila voti in più rispetto a Gianni Alemanno. Al secondo turno, finisce centomila voti dietro: 54 per cento contro 46 per cento.

A Venezia protagonisti di rimonte sono una volta Cacciari, col centrosinistra, e un’altra, dieci anni dopo, Brugnaro, col centrodestra. E tutte e due le volte a farne le spese fu la sinistra-sinistra di Felice Casson, per due volte davanti al primo turno e per due volte trombato al secondo. Tutte e due le volte non gli è bastato di sopravanzare il secondo arrivato di più di dieci punti percentuali. Ovviamente, chi è davanti rimane il favorito. Ma il doppio turno va interpretato così, come una doppia partita, non come la stessa partita giocata due volte.

Questa logica è ancora più evidente quando al voto non arrivano schieramenti tradizionali, dai lineamenti chiaramente profilati, come invece accade a Milano, dove il confronto avviene effettivamente tra un centrosinistra e un centrodestra sostanzialmente uniti. Non a caso, a Milano neanche in passato ci sono stati rovesciamenti come quelli verificatisi a Roma o a Napoli. Dove invece le carte si sono mescolate, dove le forze antisistema hanno raggiunto percentuali ragguardevoli, come a Roma o a Napoli, lì è molto più complicato leggere un turno in continuità con l’altro.

Nelle ultime ore, del resto, qualcosa forse è cambiato. L’epopea di De Magistris a Napoli, o il fascino della Raggi a Roma si fondano anche sui disastri delle forze politiche tradizionali,  in particolare del centrosinistra: sui rovesci delle passate primarie a Napoli; sulla fine ingloriosa della giunta Marino a Roma. Ma sia a Roma che a Napoli, benché Renzi abbia cercato di non accollarsi in prima persona il risultato del 5 giugno, e soprattutto i suoi effetti politici, un tentativo di ricomposizione del quadro politico è stato avviato. Ieri Bassolino era alla Mostra d’Oltremare, a fare il suo dovere di «padre fondatore del Pd». A Roma, Giachetti ha avuto il sostegno di quasi tutto il Pd, da Orfini a Veltroni a Zingaretti, e i distinguo residuali di D’Alema si sono persi nelle polemiche della minoranza democrat, sempre più sbiadita e meno convinta.  Difficile capire se questo profilo più compatto del  partito democratico avrà un seguito anche nelle urne. Però contribuisce a rendere più chiara la posta in gioco. E gioverebbe anche al centrodestra, come giova a Milano, con Parisi, presentarsi coeso intorno a un candidato capace – come si dice – di fare la sintesi. Quando questo accade, al secondo turno rimane ancora la possibilità di decidere se continuare a scassare, ma almeno dall’altra parte c’è qualcosa di più delle macerie della volta scorsa.

(Il Mattino, 4 giugno 2016)

La strategia della finestra

 

ImmagineSe Alessandro Manzoni seguisse le primarie dei grillini napoletani, e avesse voglia di scriverne, titolerebbe probabilmente così: Stefania Verusio, chi mai sarà costei? E chi mai sarà l’altra candidata, Francesca Menna? Sarà colpa di una politica sempre più personalizzata, e sempre in affannosa ricerca di volti noti, ma la scelta grillina di affidarsi, per la candidatura a sindaco di Napoli, a due degnissime persone, ma sconosciute alla quasi totalità dei napoletani,suona francamente improbabile, per non dire che sfiora la pura e semplice casualità. Del resto, il numero di coloro che partecipano a queste procedure di selezione è, di regola, talmente piccolo, che davvero il risultato sembra del tutto fortuito. È toccato a loro, poteva capitare a chiunque altro. La cosa fa pensare alle parole che Paola Taverna, deputata grillina di stanza a Roma, ha usato qualche giorno fa, denunciando il clamoroso complotto degli altri partiti per far vincere il Movimento Cinque Stelle nella Capitale. L’unica maniera di sventarlo, si direbbe, è quella di candidare perfetti sconosciuti (o sconosciute). A Napoli l’hanno fatto; ma così al rocambolesco paradosso della cittadina Taverna si risponderebbe con un paradosso più acrobatico ancora.

Naturalmente, gli esponenti del Direttorio non mancano di spiegare la cosa nei termini ligi della loro dottrina: conta il progetto, uno vale uno (cioè uno vale l’altro e nessuno vale gran che), non ci sono persone insostituibili e tutti sono fungibili, se persino Beppe Grillo ha tolto il suo nome dal simbolo. E così via.

Tutto vero, ma tutto drammaticamente insufficiente. A Napoli il Movimento è attraversato da profonde tensioni. C’è stato il caso di Quarto, con le espulsioni e le dimissioni, poi rientrate, del sindaco Capuozzo; c’è stata l’ondata di epurazioni che ha colpito i meetup partenopei. Non è detto che sia finita, e secondo alcuni è ancora possibile che i Cinquestelle non si presentino nemmeno con il loro simbolo. Come il partito radicale di una volta, che ogni tanto faceva proprio così: si chiamava fuori, addossando la colpa al regime partitocratico.

Non finirà però in questo modo: sarebbe davvero la madre di tutte le stramberie, tanto più in una città che esprime due tra i massimi dirigenti del Movimento, Roberto Fico e Luigi Di Maio. Ma la questione sembra meno legata alle vicende interne al gruppo dirigente napoletano, che alla strategia politica del movimento. Strategia che pare fatta apposta per sottrarsi all’incombenza di governare. Tenersi fuori dall’area di governo paga, in termini elettorali. O perlomeno: evita lo scotto di cattivi risultati amministrativi, la cui scia si prolungherebbe con ogni probabilità fino alle prossime elezioni politiche, se in gioco non sono più piccole realtà locali o città di provincia, ma grandi città come Roma o Napoli. Che cosa mai potrebbe combinare, infatti, un sindaco grillino? Siamo sicuri che Grillo&Casaleggio vogliano davvero saperlo? Siamo sicuri che anche i giovani membri napoletani del Direttorio, che si trovano adesso l’uno sulla seconda poltrona della Camera dei Deputati, l’altro alla guida della Commissione Vigilanza della Rai, siano disponibili a mettere in gioco il loro futuro politico lanciando il Movimento in una competizione vera per la guida di una città così complessa? E se putacaso i grillini vincessero, quanto tempo impiegherebbero anche solo per capire da che parte cominciare?

Non è questo il senso del paradosso di Paola Taverna? Se ci lasciano in mano il cerino del governo, finirà che ci scottiamo con i debiti del Comune, con la macchina amministrativa che magari rema contro, con i conflitti che immediatamente sorgerebbero con gli altri livelli istituzionali. Senza contare le tensioni che nel Movimento si producono ogni volta che si avvicina all’area di governo: scissioni ed espulsioni compaiono subito all’ordine del giorno.

È un’interpretazione malevola? Può darsi. Ma se anche fosse, rimane la questione: non è forse vero che il metodo, ancor più dei contenuti della proposta politica pentastellata, tiene obiettivamente lontano dalle assunzioni di responsabilità politica i suoi militanti e dirigenti? Dalle altre parti va molto diversamente. I candidati in campo scelgono e trovano il sostegno di leader di rilievo nazionale: Berlusconi dà l’ok a Lettieri; Andrea Orlando viene a Napoli a sostenere la candidatura di Valeria Valente. Bassolino, invece, fa da sé e mette il pronome di prima persona innanzi a ogni altra cosa. I grillini diranno invece che il loro nome è nessuno, e che questa è la loro forza. O la loro astuzia, visto che a dirlo saranno comunque proprio i nomi propri della ditta Grillo&Casaleggio nelle cui mani rimane saldamente il controllo del Movimento. Anzi: la proprietà del marchio.

(Il Mattino – ed. Napoli, 20 febbraio 2016)

Quarto, la giravolta del sindaco

Acquisizione a schermo intero 10022016 204442.bmpLa storia dei 150.000 euro di multa per l’eletto che, violando le regole, procura un danno d’immagine al Movimento sembra uscita da una caricatura di Crozza. E invece è uscita dal codice di comportamento dei candidati a Cinque Stelle al Campidoglio. Difficile sapere, però, quando vi è entrata: prima o dopo il colpo di scena di Quarto, dove il sindaco Capuozzo ha ritirato le dimissioni decidendo di rimanere in sella con un’altra maggioranza, o semplicemente con chi ci sta? Forse la premiata ditta Grillo&Casaleggio deve aver pensato che, certo, se Rosa Capuozzo avesse dovuto sganciare un pacco di euro ci avrebbe pensato su mille volte di più, prima di contraddire il verbo grillino. Quindi è deciso: multe salatissime a chi disobbedisce, in vista di chissà quale altra pena – pecuniaria, fisica o spirituale – che metta ferrei vincoli là dove la Costituzione italiana non li prevede.

Per l’articolo 67 della nostra Carta, infatti, non c’è vincolo di mandato, e così, per dirla con le auree parole con le quali Beppe Grillo salutò l’inizio di questa legislatura, finisce che l’eletto fa «il c…che gli pare».

Ma quando queste idee hanno cominciato ad entrare in circolo? In realtà, dacché esistono i Parlamenti moderni e la democrazia rappresentativa. Non sorprenderà tuttavia scoprire che il più inflessibile propugnatore del vincolo di mandato è stato quel furente giacobino che rispose al nome di Maximilien de Robespierre. In testa (finché, almeno, la ebbe sulle spalle) Robespierre aveva un paio di idee fisse che si ritrovano pari pari nel nostrano Movimento a Cinque Stelle. La prima riguarda la rieleggibilità: per l’Incorruttibile (così era soprannominato), un mandato basta e avanza. Allo stesso modo, una delle prime battaglie di Grillo è stata quella relativa alla limitazione del numero dei mandati: due, non di più. Meno severità e rigore, ma stesso proposito: infragilire i processi politici e costituzionali, per decapitare (metaforicamente, ma non solo) la classe dirigente e proporne a furor di popolo il rinnovamento completo. L’altra idea meravigliosa, che produce gli stessi effetti, riguarda appunto il mandato imperativo: l’eletto deve essere ridotto a un semplice delegato, e non deve ricevere nessun affidamento di cui non sia chiamato a rispondere non già di fronte al corpo elettorale, ma dinanzi al Tribunale del popolo (nel caso di Robespierre) o allo Staff di Beppe Grillo (nel caso del recente regolamento romano).

Certo, i grillini hanno buon gioco nel fare il conto dei parlamentari che cambiano casacca. Effettivamente, moltiplicarne il numero per 150.000 farebbe un bel gruzzolo. Ma un simile ragionamento ha il torto di saltare a piè pari il problema, che riguarda non già la coerenza o la furfanteria personale, e neppure solo i costumi parlamentari nostrani ma, più in generale, la debolezza di partiti e culture politiche. Compresa quella grillina, qualunque essa sia, visto l’elevato numero di deputati e senatori che hanno lasciato il Movimento, nonostante il muro di carte bollate, codici e regolamenti costruito dal caro (nel senso di costoso) leader.

Altra cosa è la crisi del paradigma rappresentativo in sé e per sé, che regge le sorti della politica moderna da Thomas Hobbes in poi. Tema vasto, molto più vasto di meetup e streaming grillini (a proposito: che fine han fatto? Com’è che si è passato dalle dirette web ai gruppi chiusi sui social network?). Difficile però a dirsi come possa essere più democratico ricevere una lettera in cui un non meglio precisato «Staff» stabilisce chi è dentro e chi è fuori, oppure chi deve sganciare centinaia di migliaia di euro e chi no. La democrazia parlamentare senza vincoli di mandato ha molti difetti ma ha almeno un pregio: rafforza la posizione del parlamentare dinanzi al suo capo. È infatti il capo che annoda i vincoli, non il popolo. È il capo che giudica e manda (le lettere). Rispetto alla democrazia di rito grillino, la democrazia parlamentare senza vincoli di mandato è più difficile che si rovesci in autocrazia.

L’unico partito più o meno strutturato che c’è su piazza, il Pd, questa volta ha dunque ragione nel presentare in Parlamento una proposta di legge, in attuazione dell’articolo 49 della Costituzione, che risponde all’esigenza di dettare pratiche democratiche trasparenti all’interno dei partiti. Con tutti i suoi difetti, e nonostante la forte presa personale di Renzi sul partito, non si può dire dei democratici meno che mandino lettere per espellere o multare questo o quello in base all’arbitrio di uno solo (o del suo “Staff”). Se mai, al  Pd si deve chiedere di avere più coraggio, e mettere mano anche alla materia dei rapporti con le lobbies. Le quali, quando operano nell’oscurità, hanno una capacità di corruzione di gran lunga superiore a quella che possono esercitare quando esercitano alla luce del sole la loro pressione. Se la pressione, infatti è visibile, il cittadino avrà un elemento in più per giudicare il comportamento partitico o parlamentare. Sarà più chiaro chi vuole cosa, e per chi vota sarà maggiore l’onere di indicare le ragioni del proprio voto.

L’onere politico, intendo, non quello finanziario che Grillo&Casaleggio si propongono di addossare ai voltagabbana. Ma, a pensarci, che razza di consiglieri si propongono di selezionare, se considerano che i loro comportamenti possano essere imbrigliati con una multa?

(Il Mattino, 10 febbraio 2016)

Il disastro è finito, ma il futuro è un’incognita

37479-AMBRA-DEFLe dimissioni di Ignazio Marino mettono la parola fine ad una vicenda che sfiorava ormai i limiti del grottesco, o meglio: li superava abbondantemente. Dopo la Panda in zone a traffico limitato, i viaggi negli States nei momenti e per le ragioni meno indicate, la resa dei conti per Marino è arrivata con gli scontrini, la vera cifra derisoria di questa seconda Repubblica: inezie, a confronto di qualunque altro episodio di malaffare che sia finito in questi mesi sui giornali, ma inezie gestite nel peggiore dei modi possibili. Che si tratti comunque di un disastro politico è fuor di dubbio, e per il partito democratico sarà dura circoscriverlo nei termini di una vicenda personale, che coinvolga solo ed esclusivamente la persona del sindaco. Il risultato, in ogni caso, è diverso da quello che si immaginava anche solo poche settimane fa: ad andare al voto, nella primavera del prossimo anno, saranno le tre principali città italiane, Roma, Milano, Napoli (insieme ad altri capoluoghi minori). Il turno amministrativo si colorerà così, inevitabilmente, di un significato politico. Con una complicazione fino a non molto tempo fa imprevista: in nessuna di queste città il Pd partirà con i favori del pronostico. E in nessuna ha già un candidato in pectore. La storia non si fa con i «se», ma formularne qualcuno può servire a vedere da quali spiagge il PD si è allontanato, senza avere  alcun porto sicuro in cui approdare.

E dunque: se Giuliano Pisapia, a Milano, avesse scelto di ricandidarsi, per la Lega e Forza Italia sarebbe oggi molto più dura;se, a Napoli, il PD avesse usato questi anni di opposizione a De Magistris per costruire un progetto politico chiaro, oggi non faticherebbe così tanto a trovare un candidato, e non dovrebbe tornare a Bassolino per essere competitivo; se, infine, a Roma, Marino non avesse dato una così straordinaria prova di dilettantismo, senza riuscire a portare risultati immediatamente tangibili sul piano dell’amministrazione, forse avrebbe potuto volgere in positivo la sua conclamata distanza dalla città. E invece: Pisapia non si ricandida, a Napoli non si sa a che santo votarsi, e pure a Roma, con le precipitose dimissioni di Marino, adesso si rischia di brutto.

Difficile capire come il PD si tirerà fuori da una simile situazione: di sicuro a Renzi non basterà starsene a Palazzo Chigi per non avvertire i contraccolpi del voto di primavera. Ma, su un altro piano, è impressionante constatare la distanza che separa questa stagione da quella dei primi anni Novanta, quando i sindaci costruirono non il fronte più problematico, bensì quello più avanzato del rinnovamento della politica nazionale. Oggi si torna a parlare di Bassolino, a Roma qualcuno fa il nome di Veltroni o di Rutelli, e a Milano questo non succede solo perché dopo i fasti socialisti la città non è mai andata al centrosinistra. In breve: trascorsi vent’anni, il valore che le esperienze municipali riescono ad assumere sembra essere di tutt’altro segno. A Napoli, una democrazia confusa, mescolata a istanze di partecipazione e a velleità antagoniste a volte generose, altre volte e più spessoinconcludenti, lontane da ipotesi concrete di rilancio della città. A Roma, una democrazia incapace, impotente, imbelle, con un unico vessillo in piedi, quello morale, prima che finisse nel ridicolo pure quello; a Milano la democrazia incompiuta, che mostra una certa stanchezza di sé e delle sue stesse ambizioni, quasi che la politica non fosse più il teatro sul quale valesse la pena misurarsi. Tutte e tre le esperienze specchio delle città che in esse esprimono: a Napoli, una borghesia storicamente impreparata ad assumersi un ruolo dirigente; a Roma, un involgarimento dei costumi civili contro cui è franato miseramente l’argine che l’amministrazione capitolina aveva creduto di poter costruire; a Milano una società civile che sembra sempre più attratta da dinamiche internazionali e globali, e sempre meno preoccupata della dimensione municipale e dei suoi riflessi possibili in sede nazionale. In tutti i casi, segnali di scollamento che non possono non preoccupare, e sui quali – siamo al dunque – le risposte possibili sono due: o il grillismo come epilogo conseguente di questa stagione di libera improvvisazione e drastico azzeramento della politica,oppure il suo riscatto, la sua rivalutazione, la sua ripresa, in termini non solo di progetto, ma anche di uomini, di forze e di competenze specifiche. Con risorse che, però, bisogna confessare amaramente, nelle file dei partiti ancora non si riescono a vedere.

(Il Mattino, 9 ottobre 2015)

La realtà persa sulle poltrone del talk show

Immagine 11 settembre 2015

Se fosse possibile mantenere un filo di leggerezza, si potrebbe scomodare una massima evangelica: «oportet ut scandala eveniant». E cioè: un bello scandalo è proprio quel che ci voleva. Non però per tirar su gli ascolti, o per inaugurare con il botto la nuova stagione televisiva, ma per avviare una riflessione più generale sul giornalismo televisivo. Che s’è seduto sulle poltrone e i divanetti dei talk show, e di lì si schioda sempre più faticosamente, sempre più difficilmente.

Naturalmente, la riflessione deve andare oltre l’indignazione o l’amarezza per la trasmissione di Porta a Porta dell’altra sera, quando sono stati ospiti di Bruno Vespa la figlia ed il nipote del patriarca del clan dei Casamonica, già omaggiato nei giorni scorsi a Roma di uno sfarzoso funerale. Lì dove si sono seduti nelle passate stagioni, e ancora si siederanno, le più alte cariche dello Stato, nonché personaggi celebri del mondo della cultura, della politica, dello spettacolo, proprio lì erano accomodati Vera e Vittorino Casamonica, a raccontare quanto fosse grande il «re di Roma».

La trasmissione ha sollevato un’ondata robustissima di critiche. Al cui centro però non può trovarsi il semplice fatto che Vespa ha dato la parola ai familiari del boss deceduto. Il giornalismo dà la parola a chiunque abbia qualcosa da raccontare, a chiunque permetta di comprendere fatti e circostanze meritevoli di attenzione, a chiunque consenta di avvicinare e conoscere pezzi del nostro Paese, per gradevoli o sgradevoli che siano. Ci si regola in base alla notizia: se la notizia c’è, la si dà. Ed è una notizia ascoltare chi fosse Vittorio Casamonica secondo i suoi familiari. Del resto, è evidente: quale giornale non ospiterebbe un sevizio, un’inchiesta, un reportage che aiutasse a capire i mondi-di-mezzo da cui, lo si voglia o no, sono lambite anche le nostre esistenze? Quello dei Casamonica è uno di questi mondi: nei codici di comportamento, nelle abitudini di consumo, persino nei gusti musicali, e naturalmente nel coacervo di interessi e nelle dinamiche sociali intrise di violenza che lo attraversano.

Il motivo di riflessione, dunque, è un altro. E cioè non se queste cose si devono vedere, sapere, raccontare, ma come lo si possa fare. Come, e dove. Lo studio televisivo con le poltroncine sul proscenio – da molti anni signore incontrastato dell’approfondimento giornalistico nella televisione italiana  – è il mezzo, è il luogo adatto? Funziona allo scopo?

Di sicuro è funzionale ai costi. Per fare uno share di tutto rispetto, infatti, di soldi ce ne vogliono pochi. Ci vuole senz’altro un buon conduttore e una buona redazione, ma poco altro.

O meglio, quell’altro che ci vuole è l’Ospite. Il quale ospite rientra necessariamente in una di queste due categorie: o è una personalità di riconosciuta autorevolezza, o è persona  che dall’apparire in trasmissione ricava una autorevolezza, se non riconosciuta, riconoscibile dal pubblico. E dunque ci va, anzi: smania per andarci,.

Con quali effetti, però? Un effetto di omaggio. Lo ricevono il politico e l’esperto, il cantante e il cardinale, il professore ed il campione sportivo, il testimone e il «caso umano». Tutti, indistintamente. Tutti si siedono sulle stesse poltroncine, tutti sono incorniciati dalle stesse telecamere. Tutti sono nello stesso spazio: in studio. Così, per quanto ficcanti siano le domande o energico il contraddittorio, tutto si muove dentro lo stesso acquario, e su tutto prevale quell’unica logica di rappresentazione.

Un grande antropologo britannico, Tim Ingold, dice che per studiare gli uomini ci vuole osservazione, non oggettivazione. La prima entra dentro le cose e gli uomini e si fa insieme a loro; la seconda li tiene a distanza, li immobilizza ed anzi li raggela. Possiamo fare un passo ulteriore. Seduti nel salotto televisivo, intronizzati nella figura dell’Ospite, non solo gli uomini non vengono osservati, ma vengono soltanto esibiti.

Questa esibizione è in sé spudorata, ed è infatti la televisione il regno della più assoluta spudoratezza.

Ma allora la domanda è: cosa vediamo davvero di quel mondo di mezzo, che vive in una zona grigia, più o meno nascosta, una zona ambigua, torbida, sfuggente, quando non proviamo ad entrarci dentro, magari con un’inchiesta d’altri tempi, ma lo invitiamo nel salotto televisivo, lo portiamo sotto le luci dei riflettori? Quando ai Casamonica togliamo la musica che loro avevano scelto per il funerale  del capofamiglia, e ci mettiamo quella della sigla del programma?

La domanda non suoni retorica. Perché il problema di scoprire che paese l’Italia sia diventata, cosa sono i quartieri delle grande città, chi comanda nei circuiti dell’economia legale e di quella illegale, chi controlla il territorio e con quali mezzi, quali modelli sociali e culturali si impongono, cosa succede nei luoghi reali di vita delle persone esiste. Dentro tutto ciò ci sono pure i Casamonica. Ed esiste pure, aggiungiamolo, la necessità di raccontare le ginestre che sorgono in mezzo al deserto, o i pezzi di paese che cambiano, le cose nuove che si inventano e quelle vecchie che vanno a morire. Ma c’è la voglia di raccontarle davvero queste cose? E come, e da dove la Rai pensa di farlo? Forse tutta la levata di scudi più o meno moralistica di queste ore non vale la più banale richiesta che si può rivolgere al servizio pubblico, di provare a fare, insieme allo spettacolo e alle sue pur legittime esigenze, anche un’altra non piccola opera, che è opera di conoscenza.

(Il Mattino, 12 settembre 2015)