Messa nel titolo la cosa più importante, metto qui l’esordio della relazione tenuta lo scorso 4 settembre sul Viaggio in Italia di R. Rossellini, a Scala, nell’ambito del festival del Grand Tour, e un piccolo pezzetto centrale. I più bravi sapranno ricostruire tutto il resto:
“La lettura di questo «Viaggio in Italia» ci ha vivamente e dolorosamente sorpresi. Il lavoro – malgrado il suo titolo altisonante e classicheggiante, non ha infatti nulla a che vedere con la precedente letteratura sull’argomento (Goethe, Stendhal, ecc.)”.
Il giudizio poi prosegue e si comprende che si sta parlando non di un libro o di note di diario, e neppure, ci mancherebbe, di questo mio breve intervento, ma di un film: “Questo ‘viaggio’ cinematografico – si legge infatti – è geograficamente assai limitato e si riduce allo spazio tra Terracina e Torre del Greco, compreso, si intende, Napoli”.
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Per questo non vorrei essere frainteso: non sto dicendo (né Hegel ci sta spiegando) che ci sono tante Italie quanti sono gli sguardi che si posano su di essa. Questa è, nel campo dell’arte e della teoria estetica, il modo (questo sì veramente sciatto e negligente) con il quale si usa oggi la parola “relativo”, “relativismo”: ognuno ha la sua opinione, tutte hanno uguale dignità e tutte si equivalgono, a me piace questo a te piace quello, io la vedo così tu la vedi colì eccetera eccetera: se la pensiamo così, se la mettiamo così, non faremo mai un’esperienza che sia una, nel senso forte e dialettico del termine. Il che non significa neppure, però, all’altro estremo, che l’oggetto se ne stia lì immobile, nella sua identità e verità, mentre mutano gli sguardi, cioè le opinioni su di esso. Questa è a sua volta – mi verrebbe voglia di dire per polemizzare un po’ – l’opinione assai banale di molti, Papa compreso quando polemizza col relativismo (e col soggettivismo, e col nichilismo: come se fossero la stessa cosa), ed anch’essa non è all’altezza dell’esperienza: della cosa stessa, come dicono i filosofi.
No, quel che ci vuole per capire la dialettica dell’esperienza è quello che un grande filosofo francese del ‘900, Maurice Merleau-Ponty, chiamava una ontologia dell’essere-visto. E scriveva le parole “essere-visto”, col trattino per intendere che il vedere appartiene all’essere, non piove sulle cose provenendo da un’altra parte. Merleau-Ponty faceva tra gli altri esempi quello delle mele di Cézanne".